17 Agosto 2007  

Francia: il declino

Redazione

Rubbettino Editore, 2004

I libri sono scritti anche dai lettori; i dibattiti sono fatti da chi ci contraddice. Questo è vero in modo particolare nel caso della discussione che si è creata intorno al declino della Francia, a partire dall’articolo apparso sulla rivista «Commentaire» nella primavera 2003 e sviluppatosi poi con la pubblicazione di La France qui tombe. L’ampiezza e la qualità dei vari contributi, la diversità degli argomenti scambiati e dei punti di vista espressi hanno completato, contestato, molto spesso oltrepassato l’analisi iniziale delle difficoltà del nostro paese ad adattarsi alla nuova grande trasformazione del mondo che segna l’inizio del XXI secolo. Ho naturalmente analizzato con molta attenzione ciascuna delle prese di posizione apparse su «Commentaire», quelle che hanno confortato o illustrato la tesi della crisi della Francia, ma anche, e forse ancora di più, le critiche che respingono o smussano la constatazione del declino, o l’origine politica delle sue cause, o il metodo proposto per le riforme o il ragionamento nel suo insieme. La ricchezza stessa degli scambi rendeva tuttavia pericolosa, addirittura impossibile, una risposta dettagliata ad ogni reazione. Ho dunque optato per una prospettiva d’insieme, che si sforza di ritornare sulla mia dimostrazione e di chiarirla, alla luce dei punti chiave sollevati nel corso del dibattito. Tutto ciò con la volontà non di chiudere la discussione ma di prolungarla, grazie a tutti coloro che hanno voluto farmi il favore e l’onore di leggermi e commentarmi.

“Le verità taciute diventano velenose”, sottolineava Nietzsche. Lo stesso può essere detto del declino della Francia, la cui dolorosa evidenza si impone oggi ai francesi, provocando al contempo lo stupore e la collera, alimentando la violenza sociale e l’estremismo politico. Riemergono così alcune delle questioni storiche e sociologiche che suggeriscono il profilo particolarmente contrastato del nostro paese e la sua difficoltà ad adattarsi alle grandi trasformazioni che sconvolgono il sistema geopolitico, il funzionamento della democrazia, la regolazione dell’economia o la struttura delle società: il declino dal fattore storico o dalla retorica politica? Esiste una eccezione o una specificità francese che fa sì che le riforme siano votate al fallimento? Quali sono le rispettive responsabilità dei dirigenti politici e dei cittadini, dello Stato e della società civile nella resistenza al cambiamento? Dove cercare le ragioni di questa situazione bloccata e la fonte del risanamento?
Al fine di evitare ogni malinteso, tre osservazioni introduttive si impongono. Innanzitutto, la nozione di declino appartiene al vocabolario storico e rinvia a fattori per la maggior parte obiettivi e quantificabili, fatto che esclude ogni carattere ineluttabile e ogni determinismo; ciò la distingue, in particolare, dall’idea di decadenza, che appartiene prima di tutto al discorso morale ed implica un fenomeno irreversibile. Inoltre, il declino può essere assoluto o relativo, sia nel tempo, sia se confrontato con le performance delle altre nazioni. Infine, l’ottimismo o il pessimismo sono estranei al giudizio politico e storico, che deve prima di tutto evitare di confondere ciò che si “desidera” con ciò che “è” realmente.
Ognuno di noi condivide la speranza di una Francia potente, prospera, influente, atta ad incarnare il pluralismo della libertà e a far vivere alcuni dei valori universali che ha contribuito a inventare. Ma nessuno, cittadino o dirigente, può prevalersi di questo ideale per mascherare la situazione reale del paese. In una democrazia, il pessimismo autentico è costituito dal cinismo, che consiste, per gli intellettuali, nel compiacersi in falsi dibattiti slegati dalle esigenze dell’azione e, per i responsabili politici, nel mantenere i cittadini nella credenza nelle false certezze di una potenza illusoria. Questa situazione prevale negli anni trenta, di fronte all’avanzare dei pericoli totalitari e della deflazione mondiale, poi negli anni cinquanta di fronte alle guerre coloniali, fino a provocare la caduta della Terza e della Quarta Repubblica. Oggi si presenta la stessa configurazione che mescola l’angosciata presa di coscienza dei francesi davanti alla crisi del proprio paese, l’insostenibile leggerezza di una classe politica che rifiuta o rinvia l’indispensabile processo di modernizzazione, il crescente disimpegno dei cittadini – attraverso l’astensionismo – e l’aumento delle passioni estremiste – di destra come di sinistra – che non mancheranno di proseguire la loro ascesa nel ciclo elettorale del 2004. Di qui l’urgenza tesa a spezzare questo meccanismo infernale facendo la doppia scommessa fondatrice della democrazia che i cittadini sono in grado di ascoltare la verità sulla situazione della nazione e di prendere le decisioni indispensabili al suo risollevarsi, anche facendo prevalere il bene comune sugli interessi personali, di categoria o corporativi.
La riflessione sul declino si pone dunque agli antipodi di un’opera di demoralizzazione o di denigrazione della Francia; questa costituisce, al contrario, il punto di partenza obbligato di ogni politica di modernizzazione in un quadro democratico. Per questo motivo, il dibattito che ha suscitato è stato percepito nelle democrazie sviluppate come un segnale positivo proveniente dalla Francia, mostrando che i francesi erano ormai pronti a guardare in faccia le proprie difficoltà, e di conseguenza ad attrezzarsi per cercare di superarle.

Sentimenti o realtà

L’idea del declino subisce la stessa sorte riservata ai problemi della sicurezza: uno degli artifici intellettuali più diffusi consiste nel sottolineare il loro peso nelle mentalità collettive per meglio negare la loro realtà. Ma i fatti sono ostinati: se non c’è un declino assoluto, esiste un incontestabile declino relativo della Francia, anche rispetto all’Europa; questo fenomeno non può essere relegato nella sfera economica e si traduce in un arretramento, già avvenuto, della potenza e della posizione della Francia nel mondo.
La Francia non è coinvolta in un declino economico e sociale assoluto: la popolazione continua debolmente ad aumentare (300 mila persone all’anno, ovvero un tasso del 5 per mille), la speranza di vita cresce di tre mesi all’anno, la crescita economica media registra un aumento dell’1,2% dal 1990, il livello di vita e l’indice della produttività aumentano di poco più di un punto all’anno.
Tuttavia, l’arretramento relativo, che è emerso a partire dalla fine degli anni settanta per accelerare negli anni novanta, rimane spettacolare. Vedere per credere. Il tasso di crescita medio è crollato dal 3,2% all’1,2%, facendo passare la Francia al quinto posto nel mondo in termini di prodotto interno lordo, dietro il Regno Unito, e al sedicesimo posto mondiale in termini di pil pro capite. Le esportazioni francesi sono passate dall’8,5% al 5% del mercato mondiale, fino ad essere superate nel 2003 dalla Cina che occupa oramai la posizione di quarto esportatore mondiale. Questo stesso anno ha visto le esportazioni francesi abbassarsi del 2,1%, mentre gli scambi erano in crescita del 5,5%. In termini di competitività, la Francia si situa oramai tra il venticinquesimo e il trentesimo posto, lontana dietro agli Stati Uniti ed all’Europa del Nord, ma anche al Regno Unito, alla Germania e all’Italia che figurano tra la decima e la quindicesima posizione. Infine e soprattutto, la Francia è il solo paese sviluppato che conosce, dalla fine degli anni settanta, una disoccupazione strutturale di massa che non è mai scesa, in modo duraturo, al di sotto del 9% della popolazione attiva, aggravata da un tasso record di disoccupazione dei giovani superiore al 25%, prolungata dall’esistenza di più di 1,1 milioni di persone che beneficiano dei sussidi del Reddito Minimo d’Inserimento (RMI).
Questo degrado non ha nulla di congiunturale, ma rinvia a fattori strutturali. In seno a un’economia aperta – sinonimo di un forte potenziale di creazione di ricchezza ma anche del moltiplicarsi delle bolle e degli shock -, in una società dei servizi e della conoscenza, quattro elementi fondamentali determinano la competitività delle nazioni: un sistema pubblico di decisione legittimo ed efficace, un tessuto imprenditoriale denso, la capacità di mobilitare i capitali, la capacità di attirare talenti. Oggi queste carte decisive mancano.
La Quinta Repubblica unisce oramai i difetti del periodo dell’Impero e del parlamentarismo della Terza e della Quarta Repubblica: è monarchica ed impotente, autoritaria ed abulica, illiberale ed indecisa; essa fonda la propria stabilità, tutta relativa, sul sistematico rifiuto dell’esercizio del potere e della responsabilità dell’azione. Il regime non è solamente misto – presidenziale e parlamentare -, diarchico – poiché divide l’esecutivo tra il Presidente e il primo ministro -, ma oramai bicostituzionale – in quanto alterna in modo aleatorio le fasi di “presidenzializzazione” e i periodi di coabitazione. Infine, come ogni potere debole, esso si dirige ineluttabilmente verso la bancarotta, con un debito pubblico reale a carico del contribuente che raggiunge i 1.700 miliardi di euro, ovvero il 112% del pil. Lo Stato in Francia, lungi dal compensare i rischi dell’economia aperta, costituisce una bolla speculativa, il cui scoppio è programmato nel momento in cui i tassi d’interesse ripartiranno al rialzo.
Il tessuto delle imprese francesi si decompone sotto l’effetto di tre fenomeni: il moltiplicarsi dei fallimenti, le delocalizzazioni, l’acquisizione dei poli di competenza da parte degli interessi stranieri. La Francia conosce un aumento delle creazioni di impresa, con 200 mila progetti nel 2003. L’80% di queste è tuttavia destinato a scomparire entro cinque anni con la sparizione progressiva degli esoneri fiscali e sociali. Allo stesso tempo, l’anno scorso si sono prodotti 48 mila fallimenti, contro 38 mila negli Stati Uniti in un’economia sette volte e mezzo più grande. Da ciò consegue la distruzione di 30 mila posti di lavoro, con l’imballarsi della deindustrializzazione poiché 100 mila di questi posti sono stati soppressi nel settore secondario. La produzione delocalizzata rappresenta il 48% dell’attività del settore dell’abbigliamento, il 25% di quella degli articoli per la casa, il 21% della metallurgia, il 15% dell’elettronica e dell’elettricità, e il movimento non cessa di estendersi in direzione delle piccole e medie imprese da un lato, e delle attività di concetto e di ricerca dall’altro. Infine, come nel caso di Péchiney, dei poli di competenza decisivi per la competitività della nazione all’orizzonte del XXI secolo passano sotto il controllo straniero, implicando a termine non soltanto un calo della crescita potenziale e dei posti di lavoro ad alto valore aggiunto, ma anche un aumento della dipendenza tecnologica.
La Francia è ricca di capitali, con un tasso di risparmio del 18% che non cessa di aumentare, a causa della volontà delle famiglie di proteggersi dal rischio della disoccupazione. Ma, come all’inizio del XX secolo, questo risparmio è sterile per lo sviluppo del sistema produttivo nazionale, poiché investito in primo luogo nel finanziamento dei deficit pubblici, e verso l’estero per quanto riguarda l’investimento produttivo tenuto conto delle prospettive superiori di sviluppo. Così il nostro paese ha conosciuto, dagli anni novanta, soltanto tre anni di aumento significativo dell’investimento, fatto che spiega il calo dell’indice di produttività fino allo 0,88% nel 2002.
Il punto più preoccupante rimane il massiccio esilio dei talenti. Oggi, più di 130 mila francesi a forte potenziale risiedono in Belgio, più di 300 mila a Londra e 100 mila in California; ogni anno vengono accordati 5 mila visti scientifici per gli Stati Uniti ai ricercatori francesi più creativi. Il lavoro e la ricerca sono le due fonti essenziali dell’economia della conoscenza. Tali fonti sono prosciugate, in un paese dove il tasso d’occupazione è ridotto al 58% e al 48% per il settore privato, dove il 20% della popolazione attiva si trova in una situazione di disoccupazione o di esclusione, dove il numero annuo di ore di lavoro è limitato a 1.463 contro 1.850 nel Regno Unito e 1.966 negli Stati Uniti. In un paese dove lo sforzo investito nella ricerca diminuisce dell’1% all’anno mentre nel Regno Unito aumenta del 10%, dove la percentuale dei brevetti mondiali è scesa dall’8,8% nel 1985 al 6,3% e la cui produzione scientifica misurata in numero di pubblicazioni stagna al 5,2% contro il 6,9% della Germania e l’8% del Regno Unito, con un indice d’impatto dello 0,95 contro l’1,05 per il Regno Unito e l’1,08 per la Germania.
La diagnosi è senza appello. Senza le riforme, il declassamento relativo della Francia è destinato non soltanto a proseguire ma ad accelerare, posizionando la Francia intorno al venticinquesimo posto mondiale negli anni 2010 e al quarantesimo alla fine degli anni 2020, tenuto conto dell’accelerazione del recupero impressa non soltanto dagli Stati-continente come la Cina, l’India o il Brasile, ma più in generale dallo sviluppo dei paesi emergenti. La Francia, come l’Inghilterra degli anni settanta, conserverà dei poli d’eccellenza, siano essi pubblici o privati, ma che saranno in situazione offshore rispetto al territorio e al corpo sociale di una nazione declinante, e che costruiranno il proprio sviluppo all’esterno.
Questa situazione è specifica della Francia e non è affatto rappresentativa di una norma comune europea. Il Regno Unito registra da dieci anni a questa parte una crescita media annua del 2,5%, con un tasso di disoccupazione ricondotto al 4,9% e un debito pubblico limitato al 38%. La Spagna, a partire dal 1996, ha ottenuto una crescita media del 4%, ha creato 2,3 milioni di posti di lavoro e fatto precipitare il tasso di disoccupazione dal 24 all’11,2%, ha tagliato la spesa pubblica dal 48% al 40% del pil, potendo così liberare dal 2001 degli attivi di bilancio. Perfino la Germania mostra segni netti di rilancio, con la riconquista dello statuto di primo esportatore mondiale nel 2003 davanti agli Stati Uniti (130 miliardi di euro di attivo contro 4 miliardi per la Francia), al Giappone ed alla Cina, e in particolare con l’assunzione di un programma radicale di riforme detto “Agenda 2010” (riduzione delle imposte di 53 miliardi di euro, riforma delle pensioni, del sistema sanitario e dei sussidi di disoccupazione, maggiore flessibilità del diritto del lavoro, riflessioni in corso sull’evoluzione del federalismo).
Il declino economico e sociale fa dunque della Francia un’eccezione, anche all’interno di un’Europa minacciata dal proprio invecchiamento demografico, dalla sua marginalizzazione politica, dal ritardo tecnologico accumulato rispetto agli Stati Uniti, dalla concorrenza industriale e commerciale delle superpotenze economiche asiatiche, prima tra tutte la Cina. Tale declino conduce inevitabilmente ad interrogarsi sulle conseguenze culturali, politiche, diplomatiche e sulla sua dimensione morale, che si manifesta in particolare attraverso l’acuta crisi dei valori della Repubblica.

Una crisi intellettuale e morale

Il prolungato perdurare della nazione in una situazione di crescita debole, disoccupazione ed esclusione produce effetti che vanno ben al di là del settore economico. Sul piano sociale, l’eutanasia del lavoro e la decadenza del sistema educativo – che assorbe il 7% del pil per produrre il 15% di analfabetismo e respingere ogni anno 161 mila giovani senza nessuna formazione e il 40% degli studenti senza alcun diploma – sfociano nel blocco della mobilità sociale e dell’integrazione. Da un lato, malgrado la gigantesca massa di trasferimenti sociali che raggiungono il 29% del pil, riappaiono flagelli come la povertà estrema o forme di bidonville legate alla crisi degli alloggi. Dall’altro, la ghettizzazione di intere zone del territorio e della popolazione, che sommano diversi handicap, porta ad un’esclusione di massa che apre un enorme spazio politico alle organizzazioni estremiste e in particolare alle reti islamiste.
Ne consegue la comparsa di un’aperta contestazione delle leggi della Repubblica, l’assunzione del controllo di parti del territorio ad opera di gruppi criminali o mafiosi, l’arruolamento all’interno di movimenti terroristici di giovani figli di immigrati. È dunque incontestabile il legame tra il blocco dello sviluppo economico e quello dell’integrazione, l’assenza di mobilità sociale e il ripiegamento sulla comunità, che prende la forma del fondamentalismo islamico, il quale tesse le sue reti nelle periferie sinistrate, o dell’irrigidirsi sul modello chiuso della laicità. Ultimo episodio di questo stato di cose, un’assurda legge di circostanza sul velo islamico negli istituti scolastici, nata dall’abdicazione della classe politica e dei giudici di fronte all’applicazione delle leggi esistenti, che avrà come solo effetto quello di facilitare il reclutamento delle reti islamiste e di alimentare il voto estremista.
La destrutturazione del territorio e del corpo sociale francese è il riflesso della profondità della crisi che attraversa il paese e segna allo stesso tempo il fallimento delle politiche di modernizzazione parziale o larvata condotte a partire dagli anni ottanta. Poiché è ben vero che alcune riforme sono state fatte, che si tratti del decentramento per quanto riguarda le istituzioni, della liberalizzazione finanziaria e della costituzione del mercato e della moneta unica nel campo europeo. Ma queste riforme sono rimaste parziali e, lungi dallo sfociare in una trasformazione del modello economico e sociale scaturito dalle Trente Glorieuses (i primi decenni della seconda metà del XX secolo, N.d.T.), si sono saldate, per una parte protetta della popolazione, nel suo consolidamento. Questo è avvenuto al prezzo di un massiccio trasferimento dei rischi, da una parte sui disoccupati e gli esclusi e dall’altra sui circa 14 milioni di lavoratori che operano in economia di mercato.
Da questa situazione deriva una schizofrenia che raggiunge oramai i suoi limiti. Così si è attuato il decentramento, rifiutando però al contempo ogni riforma dello Stato. Ciò si è tradotto in uno sviluppo anarchico dei livelli amministrativi, una dispersione e una confusione del potere e delle responsabilità, un’esplosione incontrollata e una perdita d’efficacia delle spese. Così si è liberalizzata la regolazione dell’economia, al prezzo però della statalizzazione del sociale, con l’ambizione condivisa dai poteri esecutivo e giudiziario di riprodurre nel diritto del lavoro lo statuto della funzione pubblica, fatto che, in un’economia aperta sottomessa a brutali shock, si è tradotto in una distruzione massiccia dei posti di lavoro nel settore privato e nell’estromissione dal mercato del lavoro del 20% della popolazione attiva. Così si è accettata la concorrenza dei sistemi amministrativi, fiscali e sociali implicata dal mercato unico, irrigidendo però al contempo i dispositivi dissuasivi esistenti per mantenere le imprese, i capitali e i talenti sul territorio francese. Così si sono sottoscritti impegni in nome delle regole stabilite dagli statuti della Banca Centrale Europea, del patto di stabilità o del controllo della concorrenza e delle concentrazioni senza trarne tuttavia alcuna conseguenza in termini di livello e di natura delle spese pubbliche o, ancora, per quanto riguarda la vulnerabilità delle strutture del capitalismo francese.
Ed è proprio in questo che si può rinvenire la grande differenza rispetto al Regno Unito degli anni settanta, paese che, pur nel quadro di un’economia in ampia misura chiusa ed amministrata ma anche e soprattutto grazie allo straordinario dinamismo della City, è riuscito a conservare poli di competitività che hanno costituito la base del suo rilancio a partire dagli anni ottanta. La Francia ha un’economia diversificata che non comporta forti specializzazioni come l’industria per la Germania o i servizi finanziari per il Regno Unito. In un mondo aperto, senza protezione da parte di uno Stato in fallimento, di un’industria dei capitali o di una piazza finanziaria potenti, l’assenza di collegamenti tra poli d’eccellenza al miglior livello mondiale e una struttura politica e sociale in decadenza si rivelerà rapidamente insostenibile. La Francia vincente non sarà più una Francia offshore ma una Francia in esilio.
Se il legame tra il dinamismo economico e la coesione sociale sembra naturale, il nesso è più complesso per quanto riguarda la cultura e la diplomazia. Anche in questo campo non esiste alcun determinismo o relazione meccanica: la Repubblica di Weimar fu straordinariamente fertile sul piano artistico e l’Unione Sovietica vide sorgere dall’inferno del Gulag alcuni dei più bei libri mai scritti; il generale de Gaulle seppe ricostruire nel 1945, attraverso la virtuosa manipolazione dei simboli, la posizione diplomatica e strategica della Francia a partire dalla sua stessa debolezza, o accrescere la sua potenza negli anni sessanta posizionandola come perno tra l’est e l’ovest, il nord e il sud. Tuttavia, nella maggior parte dei casi, lo sviluppo economico e la ricchezza culturale vanno di pari passo, come illustrano la vitalità e l’inventiva del Regno Unito o della Spagna a partire dagli anni ottanta; a fortiori, un’economia forte ed una società dinamica sono elementi chiave per determinare la potenza di un paese e dunque la sua posizione diplomatica.
Di fatto, che si tratti di cultura o di diplomazia, la Francia sulla difensiva e l’arretramento. Mentre la lingua e la cultura ispaniche hanno un’immagine di sé concepita sul modello dell’espansione, grazie in particolare ai 36 milioni di ispanofoni che costituiscono la prima comunità degli Stati Uniti, la lingua e la cultura francesi non hanno cessato di considerarsi come eccezione dando la sensazione di una cittadella assediata. Nel momento stesso in cui il mondo si allarga, la cultura francese si ritrae. Nel momento stesso in cui si aprono sia le società dell’ex impero sovietico, a cominciare dalle nuove democrazie, sia i vasti spazi della Cina e dell’India, la Francia si trincera dietro protezioni multiple.
La stessa contraddizione mina la posizione diplomatica e strategica della Francia che è andata in frantumi nel 2003 a causa, da un lato, della confusione dei suoi obiettivi e del suo stile esaltato e, dall’altro, della mancata comprensione dei cambiamenti del mondo e della modifica dei rapporti di potenza.
Tre problemi di carattere storico sembrano dover dominare la prima metà del XXI secolo: l’elaborazione delle istituzioni e delle regole della società aperta, che per il momento dipendono da un monopolio degli Stati Uniti; il nuovo ciclo di guerre a catena che mette alle prese le democrazie occidentali e una parte del mondo arabo-musulmano; la gestione dell’ascesa della Cina e dell’India, seguita senza dubbio dalla Russia e dal Brasile, nel sistema politico ed economico mondiale, avente come corollario la possibile marginalizzazione dell’Europa. Di fronte a queste poste in gioco planetarie ed in particolare al risorgere di una seria minaccia sulle nazioni libere, sembra ragionevole sostenere la coesione dell’Occidente allo scopo di non riprodurre le catastrofiche divisioni degli anni trenta dinanzi ai totalitarismi del XX secolo, di rispondere alla minaccia del terrorismo islamico unendo – come rispetto all’URSS a partire dal 1947 – risposta militare e trattamento politico della crisi del mondo arabo-musulmano, infine di accelerare la costruzione dell’Europa. La Francia ha seguito il partito esattamente contrario.
L’intervento degli Stati Uniti in Iraq costituisce verosimilmente il più importante errore strategico dopo la guerra del Vietnam. Lo stesso vale sia per le guerre sia per la moneta: le cattive schiacciano le buone. Forzando la verità a proposito delle armi di distruzione di massa ed imponendo alla comunità internazionale un conflitto inutile e pericoloso, gli Stati Uniti hanno nuociuto alla lotta vitale contro il terrorismo. Ancora peggio, hanno favorito la convergenza tra il nazionalismo arabo e il terrorismo islamico in Iraq, paese dove Al Qaeda concentra oramai i propri sforzi e dispositivi per farne l’equivalente di ciò che fu l’Afganistan per l’URSS alla vigilia della sua dissoluzione. La Francia aveva dunque fondati motivi per far valere delle riserve e per far sentire la voce della ragione politica.
Ma non fu questa la scelta dei dirigenti francesi, che hanno provocato una profonda e durevole divisione dell’Occidente – in quanto iscritta nel cuore delle opinioni pubbliche – minacciando non solo di utilizzare il diritto di veto nel consiglio di sicurezza, ma organizzando uno scrutinio mondiale delle nazioni unite contro gli Stati Uniti. Ciò si è saldato, dopo un effimero successo, con un brutale ritorno alla realtà di fronte all’ampiezza delle ritorsioni strategiche, diplomatiche ed economiche – dal vertice di Evian fino al conflitto sul programma ITER ed all’accordo con la Libia che hanno condotto la Francia a smentirsi, votando tutte le risoluzioni americane posteriori alla caduta del regime di Saddam Hussein. Per aver negato i rapporti di forza internazionali ed essersi lasciata prendere dalla passione, la Francia si trova ridotta ad accordare il suo sostegno all’amministrazione Bush nel momento in cui quest’ultima è messa sotto accusa dall’opinione pubblica americana, sempre più convinta di essere stata deliberatamente ingannata sull’effettiva realtà della minaccia rappresentata dall’Iraq.

La leggerezza e l’arroganza

È tuttavia sul piano europeo che il bilancio della diplomazia francese è più negativo: da una parte, la successiva implosione del patto di stabilità e del processo costituzionale, dall’altra la divisione politica sulla questione irachena e il fallimento della coppia franco-tedesca che materializza la presa di controllo dell’Unione da parte del Regno Unito. Gli eccessi della diplomazia francese e le evidenti contraddizioni dell’effimero campo della pace, supposto riunire la Francia, la Germania, la Russia e la Cina, hanno trasformato la divisione dell’Occidente in divisione dell’Europa, con una maggioranza di 15 Stati su 25 favorevole alle tesi americane. La Francia ha allontanato da sé a lungo termine le nuove democrazie, alcune delle quali come la Polonia figurano tra i suoi più antichi alleati, rimproverandole in modo sprezzante. E questo malgrado il fatto che la loro posizione, che unisce la ricerca di una garanzia di sicurezza americana – l’unica disponibile in assenza di una difesa europea credibile – e l’integrazione economica con l’Unione, sia perfettamente razionale e riproduca esattamente la scelta francese del secondo dopoguerra.
La leggerezza e l’arroganza con la quale la Francia si è svincolata dalle regole e dagli obblighi che essa stessa ha in parte proposto, regole ed obblighi esplicitamente accettati e fermamente imposti in toto ai paesi candidati, hanno avuto effetti devastanti, confortando le reticenze della Spagna ad abbandonare la minoranza di blocco che le era stata riconosciuta dal Trattato di Nizza – di cui si dimentica spesso, quando se ne sottolinea ampiamente il carattere disastroso, che è un puro prodotto della diplomazia francese. Tutto ciò è logicamente sfociato nel fallimento del progetto di costituzione. I governi hanno così distrutto in qualche settimana il sottile compromesso tessuto dalla Convenzione. Allo stesso tempo, i soli progressi registrati erano quelli nel campo della difesa, ma al prezzo di un trionfo delle concezioni britanniche fondate da una parte sul legame organico con la NATO e dall’altra sulla costituzione di un direttorio europeo delle grandi potenze. Bisogna arrendersi all’idea che l’Unione allargata a 25 e domani a 30 è per il momento dominata dalla visione britannica, costruita intorno ad una vasta zona di libero scambio regolata dalla concorrenza – con la prospettiva di un grande mercato transatlantico -, ad una concezione minima delle politiche comuni, ad una cooperazione diplomatica e strategica strutturata intorno ad un direttorio e articolata con la NATO.
In definitiva, è impossibile non riconoscere il considerevole indebolimento della posizione della Francia in Europa e nel mondo, che accompagna logicamente il degrado del suo sistema politico e delle sue performance economiche e sociali. In questo consiste la principale differenza con gli Stati Uniti che, pur presentando un programma diplomatico e strategico altrettanto criticabile, dispongono almeno dei mezzi della potenza, e dunque della capacità d’agire per ristabilire la situazione. È paradossale del resto vedere come la Francia e gli Stati Uniti sviluppino uno stesso riflesso, una stessa ideologia della sicurezza, la Francia in reazione alla globalizzazione e alla società aperta, gli Stati Uniti in reazione agli attentati del settembre 2001. Il tutto con manifestazioni totalmente opposte: sovra-espansione imperiale ed interventi militari a catena per gli Stati Uniti; ripiegamento dietro le nuove linee Maginot che sono l’exception culturelle, l’ideologia del servizio pubblico o il mondo multipolare per la Francia. Paese alle prese con un’ossessione della sicurezza, nella quale proliferano in modo simmetrico da una parte il regno della paura e dall’altra la domanda di protezione e il principio di precauzione. Alla Francia conquistatrice del dopoguerra, mobilitata per ritrovare la sua indipendenza e la sua prosperità attraverso il lavoro e il volontarismo politico, è succeduta una Francia ansiogena e pusillanime, obnubilata dalla difesa dei presunti vantaggi acquisiti e dalla lotta per il controllo dei dividendi fittizi della crescita debole attraverso le rendite fornite dal Welfare State.
Tutto ciò ha l’immediata conseguenza di degradare la politica a culto della compassione a scapito dell’azione, di nascondere le indispensabili riforme attraverso campagne di comunicazione, di estromettere la produzione attraverso l’ossessione della redistribuzione e del clientelismo. La crisi dunque non è solamente economica e sociale, ma politica, intellettuale e morale, e perfino spirituale ed esistenziale. La Francia, in mancanza di un progetto politico e di un’ambizione nazionale coerente con il mondo del XXI secolo, non sa più né cos’è, né dove va, né ciò che vuole. È un bateau ivre nel mare di nuovo agitato della storia.

Riformare è francese?

“Sire, quando si vede dove le buone menti hanno condotto il paese, non sarebbe forse inutile provare con quelle cattive”, suggerì un giorno Mirabeau a Luigi XVI. Invano. L’instabilità politica cronica della Francia sin dal 1789 solleva la triplice questione delle cause della reticenza alle riforme, di un sistema di modernizzazione realizzato attraverso scosse brutali e impresse dall’alto, pilotato dallo Stato e simboleggiato dai cambiamenti di regime a ripetizione e infine della responsabilità rispettiva dei cittadini e della classe politica.
Il contrasto è totale tra una situazione come quella del Regno Unito o degli Stati Uniti, nella quale i processi di riforma vengono praticati in modo continuo all’interno di un quadro istituzionale stabile, e quella, che sembra essere una specialità francese, nella quale i mutamenti avvengono attraverso crisi politiche e sociali croniche. Numerosi fattori possono essere presi in considerazione per spiegare la singolare forza delle resistenze opposte dai francesi, a partire dalla fine del XVIII secolo, ai cambiamenti del mondo: l’impatto di una transizione demografica precoce, indissociabile dal processo d’invecchiamento della popolazione; l’indebolimento e la radicalizzazione politica di una larga parte del corpo sociale durante le crisi economiche; la congiunzione esplosiva di un individualismo feroce e della reverenza nei riguardi dello Stato, del culto dell’uguaglianza e della ricerca dei privilegi e delle protezioni; i traumi e il sentimento di vulnerabilità accumulati col susseguirsi delle guerre – sia civili sia esterne – e delle invasioni del territorio nazionale, profondamente riattivati dalla sconfitta nel secondo conflitto mondiale e dall’occupazione; l’illiberalismo dominante a destra – a causa dell’eredità bonapartista – così come a sinistra – a causa della persistenza del mito rivoluzionario -, e che si esprime oggi nell’antiamericanismo; la contrapposizione frontale tra il cittadino e lo Stato, effetto della distruzione dei corpi intermedi durante la Rivoluzione francese.
Tuttavia sarebbe altrettanto assurdo pretendere che i francesi siano conservatori nei loro geni quanto sostenere che i tedeschi fossero predestinati al nazismo e a un antisemitismo radicale. In effetti, gli esempi di modernizzazione o di riforme riuscite non mancano, che si tratti della ricostruzione del 1945 o della terapia d’urto del 1958, o più recentemente della scomparsa dell’inflazione, delle svalutazioni competitive o del deficit commerciale che alcuni avevano preteso essere fattori inerenti alla regolazione dell’economia e della società francesi. Ciò vuol dire che anche oggi la Francia non è condannata alla crescita debole, a perdere parti di mercato, alla deindustrializzazione, alla disoccupazione e all’esclusione.
Ciò che distingue la Francia dalle altre democrazie sviluppate è il ruolo essenziale della politica e dello Stato nella conduzione del cambiamento, a causa in particolare dell’estrema centralizzazione della nazione. Non solo le performance economiche, ma anche la stabilità sociale del paese continuano a dipendere fondamentalmente dalla qualità del sistema di decisione pubblico, contrariamente agli Stati Uniti – che hanno conosciuto negli anni novanta un decennio miracoloso malgrado l’insigne mediocrità della leadership di Bill Clinton – o all’Italia. Certamente, la politica e lo Stato non possono far tutto in Francia; ma senza un sistema politico e uno Stato ben funzionanti nulla è possibile. Ora è chiaro che la Quinta Repubblica attraversa una crisi acuta che, contrariamente alle apparenze, continua ad aggravarsi dal 21 aprile 2002.
Sotto le vesti di un ritorno alla configurazione degli anni sessanta, caratterizzata dalla “presidenzializzazione”, dalla restaurazione della capacità di decisione ed azione dell’esecutivo, dal bipolarismo politico, si amplificano, in realtà, la crisi della rappresentanza – legata ad una classe politica invecchiata e che pratica una monocultura dell’alta funzione pubblica, totalmente estranea alla popolazione francese e al mondo del XXI secolo -, la delegittimazione dei rappresentanti eletti – rilanciata dai processi sull’affare Elf e sugli impieghi fittizi dell’RPR -, la tirannia del “né/né” con il rinvio in serie delle riforme indispensabili, la balcanizzazione del sistema dei partiti tra un partito pseudo-dominante – una UMP ricca di militanti, di eletti e di mezzi, ma sprovvista di leader, di progetto, di capacità di dibattito e di procedure democratiche – e quattro formazioni d’opposizione che si disputano le sue spoglie – il Partito Socialista, il centro liberale dell’UDF, l’estrema destra del Front National e l’estrema sinistra.
La Quinta Repubblica, concepita come un potere forte teso verso l’azione e forgiato per affrontare le scosse della storia, si riassume oggi nel dispotismo dell’immobilismo. E la cronica incapacità ad adattare il paese al nuovo contesto definito dalla geopolitica del caos, dalla globalizzazione economica, dalla società dei rischi e dalla rivoluzione tecnologica proviene al contempo da un deficit di leadership politica e da un eccesso di obblighi burocratici: la Francia è sotto-presieduta, sotto-governata e sovramministrata. Ne consegue il fallimento successivo dei tentativi di riforma che si scontrano al contempo con il loro metodo, rifiutando di presentare chiaramente le scelte ai cittadini con la scusa dell’Europa o della mondializzazione, col rischio di alimentare i fantasmi; con il loro carattere marginale, invece di iscriversi in un coerente progetto politico di modernizzazione; ed infine, con la loro natura contraddittoria, a causa della santuarizzazione della maggioranza della popolazione che dipende dal settore pubblico o dai trasferimenti sociali. Ne consegue anche il vano accanimento nel difendere la norma fossilizzata che reggeva i rapporti di lavoro del periodo delle Trente Glorieuses, mentre la società industriale così come l’economia chiusa ed amministrata che la sottendeva sono scomparse.
Ecco perché in Francia è il sistema politico, e non i cittadini, all’origine del blocco e alla base di un’eventuale uscita dalla crisi. Montesquieu ricordava che “ci sono due tirannie: una reale che consiste nella violenza del governo; e una d’opinione, che si fa sentire quando coloro che governano fanno cose che scioccano il modo di pensare di una nazione”. I francesi non hanno né inventato, né domandato il folle rilancio keynesiano, le nazionalizzazioni e la pensione a sessant’anni del 1981 (anno dell’alternanza che portò al potere la sinistra, N.d.T.), la deflazione monetaria perseguita dal franco poi l’euro forte al prezzo dell’eutanasia della crescita, dell’investimento e dell’occupazione, o ancora le 35 ore. Al contrario, sanzionando regolarmente le maggioranze uscenti, hanno fatto appello a più riprese, e sempre invano, al ritorno ad una concezione della politica che privilegi l’azione, la responsabilità e la coerenza. Ciò in modo particolare nel 2002 quando al segnale d’allarme del 21 aprile, con il 28% di astensionismo e il 35% di voti estremisti, ha fatto seguito l’attribuzione al Presidente della Repubblica e al governo di tutti i mezzi d’azione politica (l’82% dei voti al secondo turno dell’elezione presidenziale, una maggioranza schiacciante nelle due Camere). In perdita secca. La perdita di autorità politica, la fuga di fronte alle riforme e il rifiuto delle scelte che minano la politica francese dalla fine degli anni settanta trovano dunque la loro fonte principale nella classe politica e non nella società francese. È il corrotto che genera la corruzione; è il demagogo che crea la demagogia.

All’orizzonte del XXI secolo

Tre sono le condizioni necessarie per l’elaborazione di politiche di modernizzazione in un quadro democratico: la presa di coscienza dei cittadini e l’approvazione di un mandato chiaro, la mobilitazione intorno ad un progetto politico e ad un’ambizione nazionale; una forte leadership. Tutti questi elementi furono riuniti in Francia nel 1958, in Spagna durante la transizione che si aprì alla morte di Franco nel 1975, nel Regno Unito nel 1979, negli Stati Uniti nel 1980. È necessario anche qui evitare ogni malinteso sul ruolo della politica, dello Stato o degli uomini illustri nella storia. La Francia del 2003 non è quella del 1958, la linea di frattura tra lo Stato e la società ha cambiato natura, il contesto europeo e mondiale è profondamente trasformato.
Ma si cade in un radicale controsenso se si sottovaluta l’importanza della politica nella necessaria modernizzazione del paese. Le scuse che chiamano in causa l’Europa, la globalizzazione o il progresso tecnologico, l’aggiramento delle rigidità dello Stato attraverso la semplice trasformazione sono illusorie, in quanto sono all’origine dei fallimenti accumulati da un quarto di secolo a questa parte. Il modello di riforma autoritario in cui lo Stato dirige la società è certamente caduco; ma, di fronte alla nuova accelerazione della storia sotto il segno della quale inizia il XXI secolo, il carattere centrale dell’azione politica non è mai stato più attuale. Lungi dall’eliminare la politica, il caos geopolitico, le bolle, gli shock e i rischi dell’economia aperta, la riabilitano e le rendono tutta la sua importanza. Così come i mercati non si autoregolano, le società non si autoriformano.
Tutti gli esempi stranieri, dal Regno Unito della signora Thatcher alla Germania del cancelliere Schröder passando per la Spagna di José Maria Aznar, dimostrano che le riforme procedono sempre seguendo un impulso nazionale, che necessitano dell’adesione ad un progetto collettivo, che non riposano mai sulla riproduzione di un modello esterno ma sulla capacità di far concordare una storia e delle strutture originali con lo spirito di un’epoca. La modernizzazione non prende mai la forma di un allineamento, ma sempre quella dell’ambizione di un’innovazione. Questa è la strada perseguita dagli Stati Uniti per preservare la propria leadership mondiale all’orizzonte del XXI secolo, dalla Cina e dall’India per chiudere definitivamente la parentesi della colonizzazione, dal Regno Unito per spalleggiare la superpotenza americana sul continente europeo, dalla Germania per riunificarsi, dalla Spagna per cancellare due secoli di marginalizzazione politica e di ritardo economico raggiungendo il plotone di testa delle democrazie sviluppate.
Il declino della Francia richiede dunque una risposta prima di tutto politica, che consiste nel definire un progetto nazionale nel quadro della grande Europa e della società aperta. E questo progetto potrebbe consistere nell’incarnare l’ideale della società aperta, nel dare corpo al pluralismo della libertà, nel momento in cui gli Stati Uniti tendono ad allontanarsene a causa della deriva assunta in nome della sicurezza e della loro vertigine imperiale. Ciò deve essere fatto avendo come condizione preliminare la volontà di restaurare la potenza della Francia e in particolare la legittimità e l’efficacia del sistema di decisione pubblico. Ecco perché la riflessione sulle istituzioni politiche, sullo Stato, sulle modalità di designazione dei dirigenti non è un lusso ma una necessità primaria, essendo vero l’assunto di Einstein che sottolineava come “non si possono risolvere i problemi con coloro che li hanno creati”. L’obiettivo chiave è quello della ricostituzione di una base produttiva nazionale, dell’integrazione dei giovani e degli immigrati, dell’interruzione dell’emorragia dei talenti e dei cervelli.
Si delineano, dunque, tre grandi campi d’applicazione. Il primo riguarda la restaurazione di una capacità d’azione e di decisione collettiva, attraverso la soppressione della coabitazione, la costruzione di un autentico Stato di diritto con l’accettazione di un vero potere giudiziario, il decentramento amministrativo e la riforma dello Stato: “nessuna società democratica può acconsentire ad una crescita indefinita dello Stato a scapito della libertà, dell’iniziativa ed anche del senso civico dei suoi membri”, amava ricordare François Furet. Il secondo è rappresentato dalla riconciliazione con la produzione e con la creazione di ricchezza, per interrompere la spirale del sottosviluppo, della pauperizzazione e della disoccupazione. Nell’economia dei servizi e della conoscenza, le chiavi della competitività sono il lavoro, la produttività e la ricerca. Ne consegue l’urgenza di attirare e di radicare sul territorio francese imprese, capitali e talenti abbassando drasticamente le imposte e i contributi – il che implica, prima di tutto, il taglio delle spese pubbliche improduttive -, liberalizzando il mercato del lavoro, investendo nell’istruzione e nella ricerca, favorendo il rimpatrio dei talenti e dei capitali espatriati come hanno fatto tutti i nostri concorrenti europei. Il terzo riguarda l’Europa. In questo campo occorre colmare il deficit di capacità decisionale – con il rilancio del processo costituzionale e l’instaurazione di un governo economico di Eurolandia -, il deficit di crescita ed occupazione – con la riforma della BCE e l’emergere di norme comuni per il capitalismo europeo in materia di diritto societario, di legislazione borsistica, di corporate governance o di norme contabili -, il deficit scientifico e tecnico – con il riorientamento del bilancio dell’Unione dall’agricoltura verso le infrastrutture essenziali, la ricerca e la tecnologia -, il deficit di sicurezza – con la progressiva assunzione della protezione dello spazio di Schengen, dei protettorati balcanici, del controllo degli approdi e delle frontiere europee.

Nessuno ha il diritto di disperare

“Per gli Stati come per gli uomini, sono i più grandi pericoli che procurano maggior gloria”, constatava Tucidide. Di fronte ad una nuova grande trasformazione del mondo, della democrazia e del capitalismo, di fronte all’accelerazione impressa da alcune nazioni per colmare il loro ritardo – ieri l’Irlanda o la Spagna, oggi le nuove democrazie dell’Europa centrale ed orientale e ancora di più la Cina o l’India -, la Francia è di nuovo in grande pericolo, di fronte a scelte decisive per la sua capacità di pesare sulla storia della prima metà del XXI secolo. In assenza di scelte e di riforme chiare, il declino della sua potenza accelererà per condurre alla sua marginalizzazione, a causa in particolare dell’indebolirsi dei suoi punti di forza (una demografia meno sinistrata di quella dell’Europa, una civiltà e un art de vivre senza eguali, un territorio e infrastrutture eccezionali, una manodopera qualificata ed efficace, abbondanti capitali) o peggio ancora dell’esilio dei più competenti e dei più attivi tra i suoi cittadini. Con la prospettiva di un ineluttabile aumento della violenza sociale e dell’estremismo politico.
Questa evoluzione, tuttavia, non ha nulla di fatale, visto che il declino dell’ultimo quarto di secolo è il frutto, prima di tutto, non solo di errori politici, ma di una perversione della politica, avendo la conquista e la conservazione del potere oscurato il senso della responsabilità e dell’azione nella storia. Così la Francia si presenta oggi come un paese in potenziale rivolgimento, con una formidabile capacità di ripresa nel momento in cui disponesse nuovamente di una capacità di leadership e di un progetto politico di rimodernizzazione. Ciò è ancor più vero in quanto la rapidità delle trasformazioni del mondo favorisce le strategie di recupero.
È ovvio dire che nessuno ha il diritto di disperare e che nessuno deve perdere la fiducia nella capacità dei francesi di risollevare il loro paese e di spezzare la spirale del declino. In questo difficile momento della storia nazionale, il dovere dei cittadini è quello di rifiutare di cedere alla tentazione delle passioni collettive, di lottare contro la menzogna, di ricordare ostinatamente l’esigenza della virtù senza la quale le nazioni libere decadono, di rimettersi al lavoro per preservare i poli d’eccellenza del paese e mantenerli sul territorio nazionale. Di restare fedeli, in definitiva, ad una certa idea della politica, che accetta di correre il rischio dell’impopolarità per difendere il bene comune, che si concepisce prima di tutto come responsabilità di fronte alla storia e non soltanto come puro godimento del potere. È proprio questa concezione della politica che condusse, nel 1997, il Presidente della Germania, Roman Herzog, a denunciare “la perdita di dinamismo economico, il torpore della società e l’incredibile depressione mentale” del suo paese per concludere: “bisogna che la Germania si scuota”. È questa stessa concezione della politica che ha spinto il cancelliere Schröder ad intraprendere nel 2003 la conversione a marce forzate del modello renano con la sua “Agenda 2010”. Tocca ora alla Francia scuotersi.

da Commentaire, n. 105, primavera 2004