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George W. Bush e la missione americana, Laterza 2004

Capitolo 5.

All’inizio di settembre alla Casa Bianca serpeggia qualche preoccupazione. La popolarità del presidente si indebolisce, l’economia rallenta e il programma di politica domestica sembra non decollare. L’amministrazione repubblicana fino a questo momento ha alternato momenti positivi – l’approvazione da parte del Congresso di una riduzione record delle imposte sul reddito – a momenti negativi – la perdita della maggioranza al Senato a seguito del cambio di casacca di Jeffords – ma nel complesso, sul fronte interno, non ha ecceduto né in un senso né nell’altro. In agosto il discorso in tv sulla spinosa questione del ricorso alle cellule staminali per tentare di combattere malattie considerate incurabili si è risolto in un compromesso sulla ricerca che ha lasciato l’amaro in bocca a favorevoli e contrari. Il presidente confessa di essersi portato a Crawford la biografia di Edmund Morris «Theodore Rex» su Theodore Roosevelt, il 26° presidente – anch’egli repubblicano – celebre per il motto «Speak softly and carry a big stick» (parla dolcemente e tieni in mano un grande bastone) ricordato per le innovazioni che avvennero nei suoi otto anni (1901-1909) di governo: dall’apertura del Canale di Panama al boom delle ferrovie, all’ampliamento e ristrutturazione della Executive Mansion di Washington, che prese il nome di «Casa Bianca». L’ambizione della grande presidenza c’è ma da sola non basta. Per rilanciare l’immagine di Bush i suoi più stretti collaboratori pensano ad una campagna d’autunno attorno a nuove idee al passo con il XXI secolo ed in grado di attirare l’attenzione del grande pubblico. L’impegno sull’educazione ed a favore delle giovani generazioni è considerato positivo e la scelta è puntare sulla campagna «No Child Left Behind» (nessun bambino sarà lasciato indietro). L’11 settembre il presidente va in Florida, lo Stato governato dal fratello Jeb, e la visita prevede non a caso anche un incontro con gli scolari delle prime classi di una località minore. Il telefonino di Karl Rove squilla nell’attimo in cui Bush scende dalla macchina blindata di fronte all’entrata della scuola elementale Emma E. Booker di Sarasota. La voce del cellulare è quella di Susan Ralston, assistente personale di Rove, e dice che un aereo si è appena schiantato contro la North Tower del World Trade Center di New York. Rove lo riferisce al capo di gabinetto, Andrew Card, che a sua volta informa il presidente impegnato a stringere le mani di insegnanti e alunni. Bush entra come previsto nell’aula dove è in programma un esercizio di lettura. Passa un quarto d’ora ed il telefonino di Rove squilla ancora. Questa volta la Ralston dice che gli aerei schiantatisi sono due ed ora anche la South Tower è stata colpita. Rove e Card entrano nell’aula a fianco a quella dove si trova il presidente, guardano in tv il replay dell’impatto del secondo aereo e chiamano Washington con gli «Stu-Trees», i grandi telefoni neri dei servizi di sicurezza che consentono di avere sempre ed ovunque linee sicure di comunicazione per affrontare situazioni di emergenza. Le notizie raccolte lasciano pochi dubbi su cosa sta avvenendo. Card entra nella classe impegnata nell’esercizio di lettura e sussurra nell’orecchio destro del presidente: «L’America è sotto attacco». Il volto prima sorpreso e poi atterrito di Bush con alle spalle una lavagnetta su cui è scritto «Reading Makes a Country Great» – leggere fa grande una nazione – dà inizio alla trasformazione del quadriennio. Il presidente si alza, va agli «Stu-Trees», parla a lungo con il vicepresidente, Dick Cheney, cerca i direttori della Cia e dell’Fbi e, terminate le telefonate, dice a Rove e Card: «Siamo in guerra». Se fino a questo momento George W. è stato soprattutto l’anti-Clinton, il controverso texano che aveva sconfitto Al Gore solo grazie ad un verdetto della Corte Suprema, adesso si trova ad affrontare il maggior attacco mai avvenuto contro il territorio continentale degli Stati Uniti. Guida un Paese in guerra ed è chiamato dalla Costituzione a vestire i panni di comandante in capo per garantire la sicurezza nazionale. Nessuno può dire con certezza quante vittime ci sono sotto le macerie, nessuno può assicurare che il peggio è passato. Prima di lasciare la scuola Bush legge una breve, prima dichiarazione: «Il terrorismo non ce la farà contro la nostra nazione». L’imperativo per l’intelligence è metterlo in salvo. Alle 9.45 Bush sale a bordo dell’Air Force One, chiede di proteggere la moglie Laura e le figlie Jenna e Barbara ovunque si trovino, richiama Cheney e viene a sapere del terzo aereo, caduto sul Pentagono a Washington, che getta nel panico chi si trova dentro la Casa Bianca. Il servizio segreto decide di evacuare l’edificio nel timore che possa essere investito da un prossimo aereo-missile. Gli agenti spingono tutti i dipendenti, gli alti funzionari come le segretarie, a dirigersi nei grandi corridoi che collegano la Casa Bianca al vicino Old Executive Office Building. All’inizio c’è paura del caos e gli 007 gridano «Non correte!», poi il timore del peggio li sovrasta e incitano a fare in fretta: «Signore, se non potete correre con i tacchi, levatevi le scarpe e muovetevi» (1). In quel momento in volo sui cieli del Nordamerica vi sono migliaia di aerei. L’ordine di atterrare immediatamente viene dato dalle autorità aeroportuali e dai comandi aerei ma servono ore di tempo e l’intelligence non è in grado di dire quante altre bombe volanti sono in circolazione. George Tenet, capo della Cia, teme che il vero obiettivo dell’attacco possa essere il presidente. L’ordine ai piloti dell’Air Force One è di portarsi ad altezza massima, dove vengono scortati dai jet della Guardia Nazionale incaricati non solo di abbattere eventuali aggressori ma, se non fosse possibile, di fare fisicamente da scudo per salvare la vita del presidente. Il pericolo viene dall’Atlantico: ci sono circa duecento aerei passeggeri in rotta verso il continente. Sull’Air Force One c’è tensione ed incertezza. Bush discute al telefono con Rumsfeld e Rudolph Giuliani, il sindaco di New York. Rove, Card ed il portavoce Ari Fleischer guardano le immagini in tv e ricevono informazioni a getto continuo da terra, verificarle tutte è impossibile. I morti a New York sono contati in migliaia, azzardare cifre è pericoloso ma le dimensioni del disastro umano sono imponenti. Le Torri Gemelle sono crollate, il distretto finanziario di Manhattan è avvolto in una nube di fumo e detriti, a Washington il Pentagono è squarciato, in fiamme. La preoccupazione maggiore dei servizi di sicurezza è che il peggio debba ancora arrivare, si teme che il presidente sia inseguito, che l’attacco all’America sia appena iniziato. Continuano ad esservi aerei sospetti sui radar del controllo aereo. Uno cade in Pennsylvania perché – verrà detto in seguito – i passeggeri si ribellano ai dirottatori, un altro si avvicina a Washington da sud, un altro è in Kentucky, un velivolo della Korean Air Lines viene fatto atterrare nella Foresta Nera, sulla pista di Amsterdam sembra essere in atto un dirottamento ed un’autobomba esplode al Dipartimento di Stato. Alle 10.32 viene detto al presidente che l’Air Force One è in pericolo, alle 10.37 che la First Lady e le figlie sono protette in luoghi sicuri, per la prima volta Card, sentita la Cia, indica come possibile mandante Osama bin Laden, il leader di Al Qaeda. Bush vuole tornare a tutti i costi a Washington ma Cheney dal bunker sotterraneo della Casa Bianca, non è d’accordo, fa resistenza, lo dissuade, gli dice di aspettare. Alle 12.05 l’Air Force One atterra alla Barksdale Air Force Base, nella Louisiana del nord. Così Rove ricorda l’arrivo: «Fu il momento in cui tutto divenne improvvisamente reale, non c’era nessun comitato ad attenderci né tappeti sul selciato o macchine di servizio su cui salire, c’erano solo jeep militari e soldati con il giubbotto antiproiettile ed armi automatiche, ci scortarono nella sala conferenze dove incontrammo il comandante della base dell’Ottava Armata Aerea, entrambi con le pistole ai fianchi» (2). Bush si consulta ancora con Cheney e chiede di riunire il consiglio per la sicurezza nazionale ma per farlo deve volare fino a Offutt, in Nebraska, dove ci sono le sofisticate attrezzature elettroniche del quartier generale dello Strategic Air Command. Alle 2.40 del pomeriggio vi sono ancora tre-quattro aerei a rischio in arrivo dall’Atlantico. Alle 3.10 Bush arriva a Offutt, il consulto è con Cheney, Rumsfeld, Rice, Card, Rove e il capo della Cia, Tenet, che indica con una certa sicurezza in Osama bin Laden ed Al Qaeda i possibili responsabili. Un’ora dopo il presidente si è fatto una prima idea di cosa sta avvenendo: gli Stati Uniti sono stati «attaccati da terroristi codardi», senza volto, portatori di valori opposti a quelli della democrazia, il cui scopo è minare alla base la società americana per obbligare gli Stati Uniti a rinchiudersi dentro se stessi, a ritirarsi dentro le proprie frontiere, ad isolarsi dal resto del mondo. Il ritorno a Washington avviene solo quando non vi sono più aerei a rischio sui cieli del Nordamerica. L’ultimo brivido del giorno più lungo di George W. arriva con la notizia, rivelatasi poi infondata, di un oggetto non identificato dato in avvicinamento rapido verso il ranch di Crawford. L’attacco dei quattro aerei-missile dirottati ha costretto il presidente dell’unica superpotenza del Pianeta ad un giorno di fuga sui cieli del proprio Paese. Quella notte, ammetterà in seguito la First Lady, Bush dorme poco e male. Tornato alla Casa Bianca ora deve decidere come reagire. La scelta ha a che vedere con il metodo perché sul merito non vi è alcun dubbio. «Gli Stati Uniti inseguiranno e puniranno i responsabili di questi atti codardi» sono le prime parole pronunciate dal presidente dopo essere atterrato in Louisiana. Un presidente umiliato e sfidato dai risultati acquisiti dagli aggressori: attacco a sorpresa completamente riuscito, governo precipitato per ore nella confusione, sistema dei trasporti paralizzato, mercati finanziari chiusi, crollo storico dell’indice Dow Jones di Wall Street, danni economici incalcolabili e neanche una rivendicazione. Oltre ad abbattere le Torri Gemelle chi ha attaccato è riuscito a mettere in dubbio le certezze che si erano create nel dopo Guerra Fredda: l’America pensava di non avere più nemici in grado di sfidarla, progettava per il nuovo secolo gli scenari della globalizzazione e si interrogava su come avrebbe potuto governare la pace mondiale. Il ritorno alla realtà è avvenuto con lo schianto dei corpi di chi si gettava dalle Torri per non morire fra le fiamme o asfissiato. I racconti dei sopravvissuti al crollo del World Trade Center descrivono l’orrore di essere stati avvolti da una immensa valanga di polvere grigia dentro la quale c’era di tutto, compresi parti di esseri umani. «La calamità che ci ha colpito non è solo nazionale, internazionale ma riguarda l’intera civiltà perché nel decennio seguito alla Guerra Fredda la razza umana era divenuta con una crescente rapidità un singolo organismo basato su una sorta di fiducia che gli individui si sarebbero comportati seguendo regole condivise per tutelare i propri interessi – scrive Hendrik Herzberg sul “New Yorker” listato a lutto in edicola dopo l’attacco – ma i terroristi si sono approfittati di questa situazione trasformando il traffico aereo in un virus letale». I newyorkesi si riversano a Downtown, accendono lumi a Union Squadre, cantono «God Bless America» dove capita, applaudono nella notte le squadre dei soccorritori di Ground Zero che non possono riposare, scandiscono il grido «U.S.A., U.S.A.», le scritte «United We Stand» coprono la città, le bandiere spuntano su finestre, taxi, automobili e perfino cappelli, i parenti delle vittime affiggono su pareti, grate e cancelli migliaia di foto di scomparsi con la scritta «Missing» nella speranza che possano miracolosamente ricomparire dal nulla. Della maggior parte delle vittime in realtà non resta nulla. L’alta temperatura causata dall’esplosione del carburante degli aerei oltre a causare il crollo delle Torri ha sciolto i corpi, liquefatti o ridotti in cenere. Numerosi resti umani si troveranno talmente danneggiati dal calore che non sarà possibile neanche eseguire l’esame del Dna. Era dai tempi della Shoà in Europa che un numero così alto di persone non veniva trasformato in cenere per mano di altri esseri umani. L’indomani, 12 settembre, è la penna di Robert Bartley, responsabile della pagina degli editoriali del «Wall Street Journal» e icona dei conservatori, a trarre la lezione politica della Pearl Harbor terrorista: «Americani ed europei hanno voluto non sbilanciarsi in Medio Oriente fra terroristi palestinesi e vittime israeliane, Clinton ha implorato ad Arafat di continuare un processo di pace fatto di fotografie ed ha consentito al nostro sistema di difesa di deteriorarsi, George H. W. Bush ha fermato i carri armati nel deserto consentendo a Saddam di perseguire i suoi diabolici disegni a Baghdad, nulla da sorprendersi se dei fanatici abbiano tratto la conclusione che l’America può essere intimidita da uno spettacolo di terrore. Ma hanno fatto un errore di calcolo così come i pianificatori del generale Tojo errarono nel pensare che Pearl Harbor avrebbe privato l’America della volontà di combattere». Ironia della sorte vuole che alla fine della primavera nelle sale cinematografiche è uscito «Pearl Harbor» – il film di Michal Bay nel quale Ben Afflek e Josh Artnett si innamorano della stessa Kate Beckinsale – che a differenza di precedenti pellicole sullo stesso tema si conclude con il riscatto dell’America: il blitz del 8 aprile 1942 con cui squadriglia area del colonnello James Doolittle riesce per la prima volta a bombardare Tokio. L’atmosfera di guerra contagia anche i liberal. Il «New Yorker» pubblica una vignetta nella quale un newyorkese dice ad un altro: «Sono d’accordo che dobbiamo evitare di uccidere troppo, ma non correndo il rischio di uccidere troppo poco». Ed Alan Dershowitz, l’avvocato dei diritti civili della Harvard Law School, scrive sul «Los Angeles Times» che i giudici dovrebbero essere autorizzati per legge ad emettere dei «mandati di tortura» per dare la caccia agli nemici dell’America

In guerra

L’America scossa, ancora incerta sul numero dei morti subiti, si prepara a combattere la prima guerra del nuovo secolo. I passi dell’amministrazione sono lenti come quelli di un elefante ma la direzione è chiara. «Sono determinato a vincere la guerra che i terroristi con i loro atti efferati hanno dichiarato all’America» annuncia il presidente il 13 settembre, nel primo discorso dopo gli attacchi pronunciato nella National Cathedral di Washington. «Il conflitto è iniziato al momento e nei modi che altri hanno scelto – dice Bush parafrasando F.D. Rossevelt quanto dichiarò dopo l’affondamento del caccia Uss Kearney da parte dei U-boat nazisti nell’ottobre del 1941 – ma finirà al momento e nelle maniere che noi decideremo». Quando il presidente termina l’intervento nella piccola Cattedrale di fronte alla Casa Bianca risuonano le note del «The Battle Hymn of the Republic», l’inno del fervore protestante. Alle sue spalle il Congresso è compatto: dopo aver approvato uno stanziamento straordinario di venti miliardi di dollari per far fronte ai danni subiti con gli attentati, vara un provvedimento che affida a Bush i poteri di usare ogni risorsa necessaria per sconfiggere il terrorismo, colpendolo con ogni mezzo in ogni angolo del Pianeta. Sebbene questi poteri de jure sono già di competenza del Presidente l’atto del Congresso ha un forte valore politico e simbolico. Fra maggioranza ed opposizione non ci sono crepe. «Ci troviamo di fronte ad una crisi nazionale e come tale deve essere affrontata» dice ai propri deputati il democratico Richard Gephardt, leader dell’opposizione nella Camera dei Rappresentanti. L’atto del Congresso segna la formale dichiarazione di guerra dell’intera America al terrorismo internazionale. «Mi auguro che Dio abbia pietà dei terroristi – dichiara il senatore repubblicano dell’Arizona John McCain, veterano e già prigioniero di guerra in Vietnam nonché rivale di Bush nella corsa alla nomination repubblicana nel 2000 – perché noi non ne avremo anche se questo costerà molte risorse e forse altro sangue al nostro Paese». Sono i giorni in cui vengono recapitate a leader del Congresso ed anchormen tv le lettere-killer con le spore d’antrace: 5 persone ne moriranno, 23 saranno contaminate. L’America è ancora sotto shock per l’11 settembre e si trova a fare i conti con il primo, misterioso, attacco batteriologico che scatena il pathos perché le spore possono essere ovunque. Dopo i pompieri di Ground Zero i nuovi eroi diventano i postini, rischiano la vita toccando una lettera con le mani. La paura per un attacco terroristico con armi di distruzione di massa si diffonde in larghi strati della popolazione. C’è chi fa scorta di acqua potabile, chi non ritira più la posta, chi fa incetta di cibo in scatola e chi corre ad acquistare maschere antigas. Un venditore ambulante, di lontana origine napoletana, percorre per giorni su e giù Madison Avenue a Manhattan per offrire le «maschere della salvezza» cantando il ritornello «gas-mask, gas-mask». La Casa Bianca designa Tom Ridge, governatore della Pennsilvania, alla guida del nuovo ministero della Sicurezza Interna, incaricato di difendere il territorio nazionale da nuovi attacchi. La grande stampa nazionale parla senza remore né dubbi di «Terza Guerra Mondiale» alle porte e chiede all’amministrazione di «fare giustizia» per le migliaia di vittime subite per mano del commando kamikaze di Al Qaeda. «C’è rabbia sotto la quiete dell’America – risponde Bush – ed il governo è determinato a vincere questo nuovo tipo di guerra, prendendo l’iniziativa e riunendo attorno a sé gli alleati». Sono due i perni della reazioni della Casa Bianca: l’America è stata attaccata con un «atto di guerra» e nel rispondere non sarà fatta distinzione «fra i terroristi e chi li protegge». È da questa combinazione che si genera la guerra, tesa non solo a catturare o eliminare esecutori e mandanti degli attentati dell’11 settembre ma a sradicare il terrorismo arabo-islamico. Con questa decisione George W. diventa il primo presidente che decide di affrontare a viso aperto un nemico che da decenni anni sfida l’America: nel 1973 l’ambasciatore americano in Sudan Cleo Noel viene ucciso da un commando dell’Olp, nel 1979 dopo la rivoluzione khomeinista 52 americani in servizio all’ambasciata a Teheran vengono catturati e tenuti in ostaggio per 444 giorni, nel 1983 i kamikaze degli Hezbollah distruggono a Beirut l’ambasciata Usa e la caserma dei marines (304 morti), nel 1985 l’anziano ebreo paraplegico Leon Klinghoffer viene freddato e gettato fuoribordo con la sua carrozzella dal commando palestinese che ha sequestrato la motonave italiana «Achille Lauro», nel 1986 una bomba devasta la discoteca La Belle di Berlino frequentata da americani (3 morti), nel 1988 una bomba fa esplodere sui cieli scozzesi di Lockerbie un jumbo della Pan Am (259 morti), nel 1993 il primo attentato degli integralisti islamici alle Torri Gemelle causa sei morti, nel 1996 un’autobomba sventra gli alloggi dei marines nelle Khobar Towers in Arabia Saudita (19 morti), nel 1998 attacchi suicidi di Al Qaeda devastano le ambasciate Usa in Kenya e Tanzania (224 morti) e nel 2000 un barchino-suicida si scaglia contro la nave Uss Cole in Yemen (17 morti). In tanti anni le uniche reazioni sono quella di Reagan che risponde all’attacco a «La Belle» bombardando Tripoli (ed uccidendo una figlia di Gheddafi) e di Clinton che dopo i kamikaze contro le ambasciate di Nairobi e Dal el-Salam colpisce con i Cruise i campi di Al Qaeda in Afghanistan (oramai vuoti) ed una fabbrica di medicinali in Sudan. Ma si tratta di azioni isolate, sporadiche. Bush invece sceglie un’altra strada, la guerra metodica, di lungo periodo.

Ma di quale tipo di guerra si tratta e di chi possa essere il «nemico» nessuno ancora parla a Washington. L’unico accenno sulle strategie che la Casa Bianca sta maturando viene dal vice segretario alla Difesa, Paul Wolfowitz, secondo cui «la risposta sarà una campagna e non una singola azione». L’ipotesi non è quella di limitarsi ad un blitz contro le basi di questo e quel gruppo terroristico ma progetta qualcosa di più ampio e complesso, teso a sradicare le fondamenta stesse del terrorismo e – come ripetono i portavoce del Pentagono – «degli Stati che lo sostengono attivamente». Se Bush assicura che guerra sarà ed il Congresso lo sostiene è al Segretario di Stato, Colin Powell, che spetta tessere la tela di una nuova coalizione internazionale che vuole modellare sull’esempio di quella creata per liberare il Kuwait dalle truppe dell’Iraq di Saddam Hussein nel 1991, quando lui vestiva i capi di capo degli Stati Maggiori Congiunti ed alla Casa Bianca c’era Bush padre. Powell conduce fitte consultazioni con Paesi amici ed alleati. Il mondo risponde all’appello dell’America ferita: la Nato decide per la prima volta nella storia di attivare il sistema di sicurezza collettiva e lo comunica formalmente alle Nazioni Unite, la Russia e la Cina promettono a Washington «ogni forma di sostegno». Le assicurazioni che giungono sul tavolo del presidente da ogni angolo del mondo disegnano i contorni di una coalizione molto ampia. L’attesa e il dubbio riguardano le prese di posizione che verranno nel mondo arabo: il Libano è il più esplicito nel dirsi «a fianco ai figli dell’America» mentre le immagini dei palestinesi festanti a Gaza ed in Cisgiordania sono all’estremo opposto. Bush discute i nuovi scenari strategici al telefono con i leader amici ed alleati, ancora non punta l’indice contro un «nemico» ben identificato ma la pressione sul Pakistan è molto forte affinché «collabori» nella cattura di Osama bin Laden, il supermiliardario saudita rifugiatosi fra le montagne dell’Afghanistan. Ciò che conta in vista della guerra è allargare la coalizione antiterrorismo anche ai Paesi arabi e musulmani ed arginare le proteste anti-islamiche registratesi in America – soprattutto a Chicago con una marcia popolare contro una moschea locale – per evitare che complichino gli sforzi diplomatici. «Siamo in guerra contro i terroristi ma deve essere chiaro che non tutti gli arabi e non tutti i musulmani sono colpevoli» ripete Bush, ricordando in tv il 13 settembre che «anche gli arabi-americani e i musulmani-americani sono stati colpiti da questi attentati». L’ordine al Pentagono di preparare i piani di una guerra afgana è in realtà arrivato il giorno dopo gli attacchi suicidi. La Casa Bianca tenta di far coincidere i tempi della guerra con quelli della diplomazia. Ciò significa che Powell non ha molto tempo a disposizione per creare la coalizione. La guerra dell’America al terrorismo è alle porte, il cerchio militare si stringe attorno all’Afghanistan rifugio di Osama bin Laden e Bush il 15 settembre dice di aspettarsi dal suo popolo «coraggio, decisione e forza» mentre il Dipartimento di Stato convoca i rappresentanti dei Paesi arabi chiedendogli di rompere gli indugi e di schierarsi apertamente a favore o contro la campagna militare che incombe. Bush riunisce a Camp David il Consiglio per la Sicurezza Nazionale per iniziare a valutare le opzioni di guerra che vengono di ora in ora aggiornate e poi si rivolge ai concittadini: «Siamo in guerra e questo conflitto non sarà breve, sarà diverso contro un nemico differente da quelli che abbiamo avuto perché – dice indossando il giubbotto da aviatore marrone con l’insegna di comandante in capo delle forze armate – non c’è un campo di battaglia tradizionale ed il nemico crede di essere invisibile ed imprendibile». Il principale sospetto per l’attacco dell’11 settembre contro New York e Washington è Osama bin Laden e Bush sembra quasi rivolgersi a lui, di cercare il duello personale quando dice, muovendo l’indice della mano sinistra: «Se pensano di farla franca si stanno sbagliando, li snideremo dai loro nascondigli, li metteremo in fuga e li porteremo davanti alla giustizia, scopriranno ciò che in passato altri hanno avuto modo di comprendere, chi dichiara guerra agli Stati Uniti sceglie la propria distruzione». Ai militari chiede: «State pronti». Ed ai concittadini spiega: «Stiamo pianificando un ampio e intenso sforzo per sradicare il terrorismo, andremo fino in fondo». Quello che il Pentagono progetta e la Casa Bianca approverà non è un semplice blitz ma l’inizio di una campagna in grande stile da parte di una coalizione internazionale, guidata dagli Usa, tesa a snidare e distruggere le organizzazioni terroriste ed a punire chiunque le finanzia e le protegge. Ma non sarà facile né indolore ed i tempi saranno lunghi. Bush lo ammette alla sua maniera, con la franchezza che piace agli americani: «Non ci accontenteremo di un atto simbolico, la nostra risposta sarà estesa, continuata ed efficace». Da qui l’appello: «Dobbiamo essere pronti a questa guerra, dovrete dimostrare pazienza perché il conflitto non sarà breve, decisione perché non sarà facile e forza perché la strada verso la vittoria sarà lunga». Bush parla agli americani ma le sue parole riguardano i cittadini di tutti quei Paesi amici ed alleati degli Stati Uniti che hanno già assicurato che parteciperanno alla campagna militare, Italia compresa. Le uniche indicazioni sui piani anti-terrorismo del Pentagono trapelano dalle mosse del Dipartimento di Stato, impegnato a isolare politicamente e geograficamente l’Afghanistan dei taleban. Al termine di quattro giorni di pressioni sul Pakistan Powell, ottiene gli assensi che cercava: il governo di Islamabad annuncia che chiuderà i confini con l’Afghanistan, aprirà lo spazio aereo alle forze alleate e ne consentirà la presenza ed il passaggio nel suo territorio e l’Iran fa sapere che chiuderà i confini con l’Afghanistan, pur lamentando il rischio di un’ondata di profughi. Il terzo confine afghano è con la Russia e Vladimir Putin è il primo ad aderire alla campagna, precisando solo di non voler riportare i militari di Mosca in quel Paese. Il cerchio inizia a chiudersi attorno a Osama bin Laden, che risponde spostandosi in continuazione fra una grotta e l’altra, braccato dai satelliti. Nel mirino dell’America non c’è solo l’organizzazione del supermiliardario di origine saudita ma anche «chi protegge, aiuta e sovvenziona» il terrorismo che è un fenomeno internazionale come dimostra la composizione del commando dell’11 settembre: 19 terroristi di cui 15 sauditi, un libanese, due degli Emirati Arabi e l’egiziano Mohammed Atta, un ex poliziotto del Cairo designato da Osama a coordinare il gruppo di dirottatori suicidi. Da qui il formale passo diplomatico del Dipartimento di Stato. William Burns, assistente del Segretario di Stato per il Medio Oriente, che incontra tutti i capi missione arabi accreditati negli Stati Uniti. «È arrivato il momento di scegliere da che parte stare – spiega Burns ai diplomatici – dovete decidere se far parte o meno della coalizione internazionale che combatterà il terrorismo a nome di tutte le nostre civiltà». Chi non dovesse accettare andrebbe incontro a pesanti sanzioni politiche ed economiche nonché al rischio di essere identificato come uno «Stato terrorista». Affinché non vi sia alcun dubbio sulle richieste americane Burns legge ai rappresentanti arabi una lista di «azioni concrete» da compiere a cominciare dall’arresto e la caccia a qualsiasi cellula terroristica, quale che sia la sua denominazione. All’incontro è stato invitato l’ambasciatore della Siria – Paese incluso nella lista ufficiale Usa dei sostenitori del terrorismo – con un gesto teso ad offrire a Damasco la possibilità di recuperare il rapporto con Washington. L’unico ad avanzare pubblicamente obiezioni alle richieste di Burs è l’ambasciatore egiziano a Washington, Nabil Fahmy, che invita l’amministrazione Bush a «perseguire i responsabili senza mirare a più ampi scopi geopolitici proprio come avvenne nel 1991 quando l’obiettivo fu solo la liberazione del Kuwait dall’invasione irachena». L’Egitto teme che la guerra Usa al terrorismo produca un terremoto politico nel mondo arabo ma Washington non ha tempo né desiderio di perdersi in distinguo diplomatici: il conto alla rovescia per l’azione «legittima di difesa», come la definisce Rumsfeld, è iniziato. Lo confermano i preparativi militari in corso: dopo il richiamo di 50 mila riservisti, l’aviazione fa atterrare giganteschi aerei cisterna nella base di Moron in Spagna – già usata durante la guerra in Kosovo per rifornire i cacciabombardieri di lungo raggio – e in quella di Diego Garcia nell’Oceano indiano dove arriva un numero imprecisato di bombardieri B-52, dotati di missili cruise. L’82esima divisione aerotrasportata di Fort Bragg e la 101esima di Fort Campbell sono pronte a partire verso il Medio Oriente, dove si trovano due squadre di portaerei della Quinta Flotta in navigazione ed oltre trecento aerei da guerra nelle basi in Arabia Saudita, Kuwait e Turchia. La guerra è alle porte.

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La mattina del 12 settembre l’ex presidente della Camera dei Rappresentanti, il repubblicano Newt Gingrich, teorizza di fronte alla platea di esperti del centro studi neoconservatore «American Enterprise Institute» la necessità di una resa dei conti con gli Stati che sponsorizzano il terrorismo stile-Al Qaeda. Si tratta dei «Rogue States», le nazioni-canaglia, i cui nomi figurano da anni sulla lista nera del Dipartimento di Stato: sono il Sudan, la Siria di Bashar Assad, la Libia di Gheddafi, l’Iran degli ayatollah, l’Iraq di Saddam Hussein e la Corea del Nord di Kim Jong Il che da un lato perseguono il possesso di armi di distruzione di massa e dall’altro consentono di operare a gruppi come Al Qaeda, l’Esercito di Maometto, la Jihad islamica, Hezbollah e Hamas. È soprattutto Saddam Hussein ad essere sospettato: arcinemico dell’America, sopravvissuto alla sconfitta subita da Bush padre nel 1991 e protettore di terroristi come Abu Nidal e Abu Abbas nonché elargitore di ingenti somme alle famiglie dei kamikaze palestinesi che si fanno esplodere nelle città israeliane. Si accenna a lui come possibile mandante. Ne discutono anche Cheney, Wolfowitz, Rumsfeld, Libby, Perle. L’opzione dell’attacco a Saddam passa però in secondo piano per gli elementi raccolti dall’intelligence che puntano soprattutto su Osama bin Laden, Al Qaeda e le sue basi in Afghanistan. Le stesse che Clinton aveva colpito con i missili cruise nell’agosto del 1998 dopo gli attentati simultanei contro le ambasciate in Kenya e Tanzania. Cia ed Fbi concordano che sul fatto che le dimensioni dell’attacco costituiscono di per sè l’impronta dello sceicco miliardario nato in Arabia Saudita che negli anni Ottanta andò in Afghanistan con la «Legione Araba» per combattere l’invasione sovietica e poi, dopo la Guerra del Golfo del 1991, decise di continuare la sua Jihad – guerra santa – contro il nuovo Satana, gli Stati Uniti, per riuscire a cacciarli dalla penisola arabica dove considera la loro presenza una violazione sacrilega dei luoghi più santi dell’Islam, Mecca e Medina. Ma se Al Qaeda è responsabile dell’attacco, il fronte del nemico è più vasto, si tratta del terrorismo fondamentalista islamico che si nutre dell’odio antiamericano largamente diffuso nel mondo arabo e che gode di protezioni ed aiuti in molte capitali. Di fronte a Bush si presentano tre scenari possibili: una ritorsione mirata contro Al Qaeda e l’Afghanistan, un attacco contro più gruppi terroristici o contro gli Stati che li sostengono. La valutazione politica e militare delle opzioni si protrae per una settimana. Il Segretario di Stato, Colin Powell, si fa portavoce dell’esigenza di creare una coalizione internazionale. Il leader britannico Tony Blair lavora spalla a spalla con Bush. Il presidente russo Vladimir Putin è stato il primo a chiamarlo quando era in volo sull’Air Force One assicurandogli ogni sostegno. Il francese Jacques Chirac vola a New York e parla in inglese dopo aver sorvolato Ground Zero per esprimere la solidarietà dell’Europa intera ad un Paese sotto shock. Quando il 20 settembre Bush si presenta di fronte al Congresso riunito in seduta congiunta la scelta è fatta. Si tratta di un bilanciamento fra le tre opzioni che aveva a disposizione: promette di spazzare via Al Qaeda e di attaccare i taleban se non consegneranno Bin Laden, assicura che la guerra finirà solo quando tutti i gruppi terroristi saranno «trovati, fermati e sconfitti» ed avverte gli Stati Canaglia che saranno «perseguiti» se non cesseranno di aiutare i terroristi. È la strategia della guerra al terrorismo che inizia a prendere forma nel segno di una gradualità: si inizia con Al Qaeda e l’Afghanistan ma l’obiettivo è debellare l’intera fabbrica di odio antiamericano e gli Stati conniventi devono scegliere con chi schierarsi. «O siete con noi, o siete contro di noi» ripete più volte Bush.

Ciò che accomuna le diverse espressioni del terrorismo è la violenza contro i civili, di cui gli attacchi suicidi sono il volto più terribile. Bush definisce i responsabili dell’11 settembre «the evil ones» – i diabolici, i malefici – e chiede agli americani di avere determinazione ma non fretta nel fronteggiarli: «Siamo infuriati per il Male che ci è stato fatto ma saremo pazienti nella risposta, i terroristi non hanno radici in alcun Paese, in alcuna cultura e in alcuna fede, si celano in angoli oscuri del Pianeta e noi li troveremo» (3). L’accento sulla pazienza nasce dalla consapevolezza che la vittoria non è facile da ottenere perché i terroristi non combattono una guerra tradizionale, con confini ed eserciti, ma si nascondono, colpiscono all’improvviso, mirano ad obiettivi civili. Non sarà una guerra breve né facile anche perché come avvenne in Europa fra il 1914 ed il 1989 si confrontano diversi modelli di Stato e società. In Europa lo scontro è stato fra democrazia, fascismo e comunismo e dopo due Guerre Mondiali ed una Guerra Fredda la democrazia ha ottenuto una vittoria assoluta. Adesso il duello è fra la democrazia e una forma teocratica ed intollerante di società islamica. Il pericolo maggiore, più immediato è che il messaggio integralista di cui sono portatori i fanatici della Jihad contagi le masse musulmane, trasformando la guerra al terrorismo in uno scontro di civiltà. Questa è la strategia di Bin Laden, che si propone di unificare l’Islam in un unico califfato dal Marocco all’Indonesia per poi aggredire l’Occidente giudeo-cristiano, mentre la priorità di Bush è isolare i gruppi terroristi dentro le società musulmane, trattandoli da criminali. Da qui la scelta della Casa Bianca di evitare toni e termini da crociata, di unire alla guerra una strategia di dialogo con l’Islam, a cominciare dalle comunità musulmane americane, per impedire a Osama bin Laden di reclutare. Nella reazione personale all’11 settembre Bush mette in evidenza la propria religiosità. Il conservatorismo compassionevole con cui è riuscito a unire i repubblicani nelle elezioni del 2000 si trasforma nel pilastro morale di una reazione che si richiama apertamente alla fede in Dio. Non a caso poche ore prima di parlare al Congresso convoca nella Roosevelt Room della Casa Bianca ventisette ministri di culto di tutte le religioni rappresentante negli Stati Uniti. Si siedono a cerchio vescovi ed imam, rabbini e pastori evangelici, monaci buddisti e sacerdoti di altri culti come se si trattasse di una preghiera collettiva. Il presidente recita una pubblica confessione svelando ciò che teme: «Potrebbero colpire ancora, in maniera più terribile, con armi chimiche, batteriologiche, con il plutonio, devo avvertire gli americani del rischio che corrono ma senza causare allarme e paura irrazionale, come potrò mai riuscire a tracciare questa linea?». La richiesta ai leader religiosi è di usare la loro arma, la preghiera, per contribuire a tenere saldo il morale della nazione: «Pregate affinché si abbia pazienza, affinché non avvenga ancora, pregate per la saggezza, la forza e la chiarezza di pensiero» (4). Il sostegno morale ed ecumenico infonde fiducia nel presidente che si fa fotografare seduto in raccoglimento su un divano della Casa Bianca prima di parlare alla nazione per spiegare quella che d’ora in poi sarà la sua missione: difendere l’America. Alcuni collaboratori di Chirac dopo aver visto in privato Bush confesseranno di essere rimasti colpito dalla risolutezza con cui affronta una crisi senza precedenti dai tempi della rivoluzione. A nove giorni dall’11 settembre e dopo 19 revisioni del testo, Bush pronuncia di fronte al Congresso le 2988 parole che descrivono la missione che ridefinisce la sua presidenza. Il discorso dura 36 minuti e si lascia alle spalle giorni di reazioni convulse, disordinate. Bush ha dedicato la settimana seguente all’attacco a minacciare i terroristi ed a rassicurare la popolazione, è scivolato su termini come «crociata», ha invocato «vendetta» definendo Bin Laden «il principale sospetto» e ripetendo – fino ad otto volte di seguito in un unico intervento – espressioni come «non sbagliatevi sul fatto che..». Il discorso serve a fare ordine: ad inviare «messaggi multipli e chiari» – come li definisce la Rice – agli americani, al Congresso, ai leader stranieri ed anche ai terroristi. A coordinare la scrittura del testo è Karyn Hughes, la fedelissima texana a fianco del presidente dai tempi di Austin, a cui fa capo il 37enne Michael Gerson, anch’egli molto credente, ed il suo team di cinque sherpa. Tutto incomincia con una email. A scriverla è John Gibson, uno degli sherpa, che pone a Richard Clarke, direttore del controterrorismo al Consiglio per la sicurezza nazionale, due domande: «Chi è il nostro nemico?» e «Cosa vogliono da noi?». «Il nostro nemico è Al Qaeda – risponde Clarke – e vuole cacciare tutti i cristiani e gli ebrei da una vasta regione del mondo, rovesciare governi come quelli in Egitto ed Arabia Saudita, ed uccidere quanti più americani possibile, incluse donne e bambini». Il lavoro di preparazione coinvolge i più stretti collaboratori del presidente: la Hughes suggerisce il paragone fra Al Qaeda e la mafia, Colin Powell propone di chiedere ai taleban di consegnare Bin Laden ma teme riferimenti ad altri Stati che potrebbero causare incidenti diplomatici, la Rice vuole termini estremamente chiari affinché anche il mullah Omar possa comprendere e Rove sottolinea la necessità di tenere ben separati terrorismo ed Islam. Bush vede e rivede ogni bozza. Avendo studiato all’Università di Yale sa a memoria le regole dell’oratoria: ogni buon discorso ha un’introduzione, un corpo centrale ed un’affermazione-chiave, ovvero il focus del messaggio. È su questo passaggio che la task force della Hughes lavora più a lungo partorendo alla fine: «Libertà e paura sono in guerra e sappiamo che Dio non è neutrale fra loro». Lo scontro non è fra religioni ma fra la democrazia ed il terrore ed il richiamo religioso dà il senso della missione che Bush sente dentro di sé. Su questo sfondo il presidente parla in prima persona vestendo i panni di comandante in capo: «Non oscillerò, non mi riposerò e non esiterò a combattere la battaglia per la sicurezza e la libertà del popolo americano». Segue la promessa all’America: «Sia che porteremo i nostri nemici di fronte alla giustizia o la giustizia ai nostri nemici, giustizia sarà fatta». Ed il monito agli Stati Canaglia: «Considereremo ostile qualsiasi nazione che ospita o sostiene i terroristi». Alla fine è evidente che la scelta è stata di non affrettare i tempi dell’attacco, preferendo spiegare i perché della guerra. Se nell’agosto del 1998 Clinton aveva reagito ai kamikaze di Nairobi e Dar el Salam lanciando nel giro di poche ore grappoli di missili cruse contro campi di addestramento disabitati in Afghanistan ed una fabbrica farmaceutica in Sudan, adesso Bush rallenta la reazione progettando un conflitto di lungo termine. La ragione prevale sulla rabbia, gettando le basi della teorizzazione del primo grande conflitto del XXI secolo.

La presidenza si trasforma

I discorsi del 13 e 20 settembre cambiano il volto della presidenza. L’uomo che prima dell’11 settembre sembrava impacciato, arrogante ed incerto, inciampava sull’inglese e veniva bersagliato dai media per le gaffe commesse adesso di fronte all’emergenza sfodera una determinazione ed un’oratoria che conquistano gli americani, che rappresentano l’umore di un Paese costretto a combattere da un attacco a tradimento. Il paragone più ricorrente è con quanto avvenne a Pearl Harbor ed è Bush stesso che vi fa riferimento ricordandolo come l’«attacco a sorpresa» che portò l’America nella Seconda Guerra Mondiale. In realtà vi sono delle differenze: nel dicembre del 1941 F.D.Roosevelt preparava già da tempo il Paese all’entrata in guerra ed aveva la politica estera in cima all’agenda mentre nel settembre del 2001 Bush guida un Paese che ritiene in pace con il resto del mondo, non vi è alcuna indicazione di conflitti possibili e le sue priorità dal momento dell’elezione sono tutte di politica interna, dal taglio delle imposte al rilancio dei programmi per educazione.

Il momento che suggella la trasformazione del presidente è quando il 14 settembre Bush abbraccia il pompiere anziano Bob Beck durante la prima visita alle macerie di Ground Zero. «La nazione è a fianco della gente di New York, New Jersey e Connecticut unita nel lutto per migliaia di cittadini» esordisce parlando con un megafono bianco. Ma dalla folla di pompieri e personale di soccorso si leva un grido di disappunto: «Non ti sentiamo». La risposta spontanea è da comandante in capo: «Io vi posso sentire, il resto del mondo vi sente e coloro che hanno distrutto questi edifici ci sentiranno presto». Nel sistema costituzionale americano, basato sull’equilibrio fra poteri che si controllano reciprocamente, quando vi sono situazioni di grave crisi lo scenario muta radicalmente: l’opinione pubblica ed il Congresso guardano al presidente come al loro leader, manager e salvatore. Durante la guerra civile Abramo Lincoln ebbe a disposizione poteri straordinari e così è stato per Franklin Delano Roosevelt durante la Seconda Guerra Mondiale. Non è però detto che chi si trova alla Casa Bianca in occasioni di crisi riesca ad essere all’altezza: durante la Guerra Fredda nessun presidente viene sfidato più del democratico Jimmy Carter ma di fronte all’invasione sovietica dell’Afghanistan arretra, accettandola e quando viene umiliato dalla crisi degli ostaggi nell’ambasciata di Teheran reagisce solo con un blitz – l’erazione «Desert One» – che si trasforma nel più umiliante dei fallimenti militari del dopoguerra. Il costituzionalista Clinton Rossiter nel suo «Crisis Government in the Modern Democracy» del 1948 riassume il senso della trasformazione dei poteri di un presidente americano in tempo di grave crisi spiegando che diventa, nello spazio di un mattino, un «dittatore costituzionale». Bush non fa eccezione. Fino al 10 settembre è accusato dai democratici di aver usurpato la vittoria elettorale, considerato dai media un politico superficiale, intellettualmente debole, destinato al peggio nel confronto con il Congresso ed è ai ferri corti con gli alleati a causa della difesa anti-missile e del Protocollo di Kyoto. Adesso invece i democratici fanno quadrato attorno a lui, la sua oratoria conquista gli americani, il Congresso gli consegna poteri senza precedenti e la comunità internazionale si unisce all’America in segno di forte solidarietà. L’attacco dell’11 settembre cambia lo scenario a favore di Bush perché dà all’amministrazione un obiettivo chiaro, la priorità da perseguire nei quattro anni di governo: fermare il terrorismo, difendere la nazione. Parole e gesti del presidente descrivono che cosa sta avvenendo. Quando il pomeriggio dell’11 settembre torna alla Casa Bianca e si rivolge alla nazione dallo Studio Ovale definisce gli attacchi «atti di guerra», preannuncia una «monumentale lotta fra il bene ed il male» nella quale «il bene prevarrà» ed assicura che gli Stati Uniti «non faranno alcuna distinzione fra i terroristi che hanno commesso questi atti e chi li ospita». Se durante la prima caotica giornata, prima in Florida poi in Louisiana e quindi alla Casa Bianca Bush parla meccanicamente, sembra scosso, nelle 48 ore seguenti diventa un altro. Il 14 settembre quando arriva alla riunione di gabinetto dice: «Questa vicenda ci definirà». Chiede a chi si occupa di politica interna di dedicarsi alle nuove priorità, ammette e spiega con inequivocabile chiarezza che d’ora in poi si sarebbe dedicato alle priorità più importanti. Per Andrew Card e gli altri presenti è l’annuncio che l’agenda dell’amministrazione non sarà più la stessa. Poche ore dopo Bush pronuncia un commovente discorso in ricordo delle vittime alla National Cathedral di Washington, poi vola a Manhattan sulle rovine di Ground Zero. Bush matura il cambiamento personale e politico nel periodo trascorso dalla sera dell’11 settembre in cui torna alla Casa Bianca e la mattina del 14 settembre: solo lui e la moglie Laura sono a conoscenza di quanto realmente avvenuto ma una chiave di lettura può venire dal metodismo, che crede nella capacità degli esseri umani di trasformarsi, e dalla forte determinazione che George W. mostrò nella notte del suo quarantesimo compleanno quando abbandonò il bere, anche allora con a fianco la moglie Laura. Nelle settimane seguenti alla svolta Bush diventa una presenza pubblica costante, mostra la convinzione che lui e la sua amministrazione saranno giudicati dalle future generazioni di cittadini sulla base di come sapranno reagire alla sfida del terrorismo. Non c’è giorno che non si faccia vedere in tv, facendo arrivare la sua voce, ferma e chiara, agli americani. Il primo passo è rassicurare la nazione. Il ruolo di «Comforter-in-Chief» (Rassicuratore-in-capo) è cruciale per tenere saldo il Paese, evitare il crollo del morale, della sicurezza, dei consumi e quindi dell’economia. Calma e fermezza del presidente aiutano la nazione ad avere i nervi saldi, a non farsi prendere dal panico. È il primo passo verso il riscatto. Il 20 settembre George W. lancia l’ultimatum ai taleban di fronte al Congresso e tre settimane dopo lo ripete nell’aula dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, facendo però un passo in più: «Nessuna causa può giustificare il terrorismo». L’America non si limiterà a smantellare Al Qaeda in Afghanistan, vuole tagliare alla radice la pianta che l’ha generata. L’11 ottobre dalla conferenza stampa nella East Room della Casa Bianca dà l’impressione di essere oramai totalmente un’altra persona rispetto al passato: risponde in profondità, emana certezze e illustra nei dettagli la strategia che l’amministrazione ha deciso di chiamare «War on Terror», la guerra al terrore. L’impatto sul pubblico è imponente: prima dell’11 settembre l’indice di approvazione era al 51 per cento, adesso sfiora 90 per cento, un record nelle rilevazioni Gallup sull’apprezzamento dei presidenti. «Abbiamo assistito ad un drammatico cambiamento nelle sue apparizioni in pubblico, Bush è diventato decisamente più presidenziale mostrando un impressionante aumento di competenza politica» dice lo storico Fred Greenstein (5). Chi lo aveva criticato tace o fa un passo indietro. Il quotidiano tedesco «Frankfurter Allgemeine» lo paragona a Harry Truman, che dopo un avvio poco promettente guidò l’Occidente all’inizio della Guerra Fredda (6). Bush come Truman affronta il rischio di dire al Paese che il conflitto iniziato non sarà breve, che la vittoria non è dietro l’angolo ma solo alla fine di una lunga e difficile strada. La scommessa politica è alta: gli americani dall’indomani del Vietnam preferiscono guerre-lampo come avvenuto a Panama, sull’isola di Granada o nel Golfo nel 1991 con i propri uomini che vanno in missione, vincono e poi tornano rapidamente a casa. Ma il terrorismo non è un dittatore tradizionale con una capitale e dei confini da difendere, il braccio di ferro non è sul controllo di un determinato territorio o l’espugnazione di un caposaldo bensì sull’eliminazione di un nemico suddiviso in una galassia di cellule, che si nasconde ovunque, si cela sotto abiti civili e che per combattere sparge il terrore nelle retrovie. Una delle ragioni della trasformazione di Bush è il metodo con cui affronta la crisi. Nel mese trascorso dal crollo delle Torri Gemelle alla conferenza stampa nell’East Room riunisce il Consiglio di sicurezza nazionale per ben 24 volte. Non si tratta di incontri formali, in ogni occasione Bush chiede il massimo al suo team, si getta nella discussione, cerca l’approfondimento, dimostra di voler capire, di voler scegliere fra più opzioni possibili. Mette a frutto l’esperienza fatta come governatore del Texas quando apprese l’importanza di avere attorno a sé collaboratori di razza con cui confrontarsi senza peli sulla lingua. Allora come adesso cerca il confronto fra opinioni diverse, lo stimola, lo ritiene salutare. Nell’incontro del 12 settembre il duello verbale anticipa ciò che avverrà nei due anni seguenti: da un lato Cheney e Rumsfeld favorevoli non solo ad attaccare Al Qaeda ma anche gli Stati sponsor del terrorismo, a cominciare dall’Iraq, dall’altro Powell in forte disaccordo, a sostenere che gli americani avrebbero appoggiato una guerra contro Bin Laden ma non avrebbero capito il perché di un’operazione militare contro il regime di Saddam Hussein. Bush ascolta, interrompe il vivace dibattito solo quando entrambi hanno esposto ciò che pensano e rinvia ogni decisione: nel breve tempo darà ragione a Powell, in prospettiva a Cheney e Rumsfeld. La strategia è in crescendo: la battaglia afgana è mirata contro gli esecutori diretti dell’11 settembre, le campagne militari che seguiranno puntano alle radici del terrorismo per scongiurare il rischio di subire nuovi attacchi. La decisione dei taleban in ottobre di non consegnare Bin Laden apre le porte ai bombardamenti. La svolta della campagna arriva il 9 novembre, con il crollo della linea di difesa dei taleban a Mazar-i-Sharif di fronte all’offensiva delle truppe dell’Alleanza del Nord. L’indomani Bush parla alle Nazioni Unite e compie un nuovo passo nella definizione della strategia anti-terrorismo: «Dobbiamo unirci nell’opposizione a tutti i terroristi, non solo ad alcuni di questi, nel nostro mondo ci sono cause buone e cattive e possiamo essere in disaccordo su dove tracciare la linea di demarcazione ma non esiste qualcosa come il buon terrorista, nessuna aspirazione nazionale può mai giustificare il deliberato assassinio di innocenti, ogni governo che rigetta questo principio, tentando di scegliersi degli amici fra i terroristi, farà i conti con le conseguenze delle sue azioni». La guerra afgana non è ancora finita a Bush già fa capire alla platea del Palazzo di Vetro che è in errore chi ritiene che il caso sia chiuso. Per l’America d’ora in poi la realpolitik con i regimi che proteggono il terrorismo è finita. Il 13 novembre Kabul cade nelle mani delle milizie dell’Alleanza del Nord sostenute dalle truppe speciali angloamericane. A dicembre termina la battaglia di Tora Bora, l’ultima roccaforte taleban nelle impervie montagne ai confini con il Pakistan. La vittoria-lampo suggella la trasformazione di George W., oramai divenuto il comandante in capo della guerra al terrorismo. Molte le caratteristiche del nuovo Bush. Domina gli argomenti che affronta, è portatore di una visione politica di grande respiro sul ruolo dell’America nel mondo, si dimostra un grande comunicatore ed un abile gestore delle potenzialità del proprio team. Ma ciò che spicca è l’intelligenza emotiva: al momento di decidere l’attacco a Kabul Bush confessa ai suoi collaboratori il desiderio di agire il prima possibile, indipendentemente dal fatto se le condizioni politico-strategiche lo consentono o meno, ma si frena ascoltando i consigli di Condoleezza Rice in ragione della fiducia che ha in lei. Il delicato equlibrio fra impulsi e pragmatismo segna la presidenza.

Sulle orme di Churchill

Programmando la presentazione a New York del suo libro sulla vita di Winston Churchill l’ottuagenario ex Cancelliere dello Schacchiere Roy Jenkins si augurava un successo di pubblico e critica ma mai avrebbe pensato di diventare il catalizzatore del fenomeno politico-culturale che distingue nell’America del post-11 settembre ed il suo presidente. Poche settimane dopo il crollo delle Torri Gemelle alla Merrill House sulla 64^ Strada il Carnegie Council è obbligato ad affittare tavoli e sedie in quantità imprevista per far fronte al gran numero di critici, diplomatici, uomini d’affari, giornalisti e curiosi che hanno fatto richiesta di assistere al breakfast con l’autore. In vetrina nelle più importanti librerie e promossa a pieni voti dalle riviste letterarie, la biografia firmata da Jenkins trascina con sé altri libri sull’ex premier di Sua Maestà che durante la Seconda Guerra Mondiale guidò la Gran Bretagna contro la Germania di Adolf Hitler: dal «Churchill» di Martin Gilbert a «Five Days in London – May 1940» (Cinque giorni a Londra – Maggio 1940) di John Lukacs. «Trovandoci ad attraversare fuoco e fiamme – scrive Harold Evans sul Book Review del New York Times – l’immaginazione di molti è attirata da Winston Churchill, il cuor di Leone britannico bastione della civiltà che non aveva altro da offrire alla sua gente se non sangue, fatica, lacrime e sudore». Gli americani in guerra contro il terrorismo vedono come un esempio da seguire la ferrea determinazione con cui la Gran Bretagna ha resistito da sola contro Hitler dal maggio 1940 al dicembre del 1941, la capacità di resistere ai bombardamenti sulle città da parte della Luftwaffe di Herman Goering così come all’isolamento politico in un mondo dove, dopo la resa della Francia, nessuno osava sfidare il Terzo Reich. Gli americani sentono di assomigliare agli inglesi di allora che si battevano in una guerra che minacciava non solo loro vite ma i loro valori, una guerra che nessuno poteva dire quando sarebbe finita. È stata quella scelta di «non arrendersi mai» – che impedì a Hitler di vincere la guerra prima dell’entrata in guerra di Unione Sovietica e Stati Uniti – a cui il sindaco di New York, Rudolph Giuliani, si richiama all’indomani dell’attacco contro le Torri Gemelle. «Mi piace leggere, ho iniziato a farlo sui libri scritti da Churchill e dopo l’11 settembre ne ho letti tre su di lui», confessa il sindaco a Barbara Walters sugli schermi dell’Abc, tracciando un parallelo nitido fra New York colpita dai kamikaze fontamentalisti islamici di Osama bin Laden e Londra sotto le bombe della Luftwaffe di Hitler. «L’unica maniera per descrivere cosa sta passando la nostra gente è un’analogia con la battaglia d’Inghilterra, quando gli inglesi furono bombardati ogni giorno per un anno intero ma non vennero mai meno – sono le parole di Giuliani – resistettero con determinazione, continuarono le loro vite, non permisero ai nazisti di sopraffare i loro spiriti, questo deve essere oggi l’esempio per noi da seguire, il modello a cui richiamarci». I vetrinisti di Barney’s su Madison Avenue per celebrare le feste di fine 2001, attirare i clienti e raffigurare lo spirito patriottico dell’11 settembre puntano sul grande volto di carta pesta di un Giuliani assai somigliante a Churchill, sovrastato da una frase che li accomuna: «We have never been braver, we have never been stronger» (Non siamo mai stati più coraggiosi, non siamo mai stati più forti). È soprattutto il linguaggio di Churchill che ritorna in continuazione ogni volta che si parla della guerra al terrorismo. «Dall’11 settembre il presidente George Bush ha citato spesso Churchill» ammette Andrew Card, capo di gabinetto della Casa Bianca con lo zampino in molti dei testi ufficiali. L’ammirazione di Bush per Churchill è nota da tempo – ha fatto portare un suo busto nell’Ufficio Ovale poco dopo l’insediamento ed a Londra è andato a visitare con la moglie Laura lo storico bunker sotto il ministero della Guerra – ma l’idea di ispirarsi così sovente a lui dopo l’11 settembre si deve ai consigli di Karl Rove, il regista della campagna presidenziale del 2000. Dietro il richiamo a Churchill c’è il paragone fra due mali assoluti come il nazismo ed il terrorismo, uniti dall’essere cechi e orrendi, dal voler distruggere libertà, democrazia e valori della civiltà occidentale, accomunati dall’aver incenerito le proprie vittime. L’effetto-Rove si evince ascoltando Bush ripetere quasi ogni giorno frasi e motti si sapore churchilliano: «Non tentenneremo nè falliremo», «i nostri nemici ci hanno sottovalutato», «non ci fermeremo finché non si saranno arresi», «i nostri militari sono straordinari», «sarà una guerra lunga, la nostra arma è la pazienza» e, soprattutto «We Will Prevail», saremo noi a prevalere. Rove da politico navigato però avverte un rischio: «Churchill insegna, i leader del tempo di guerra non vanno bene quando è il tempo della pace». Come dire: il difficile verrà quando taceranno le armi. Churchill ha molti altri discepoli illustri ai vertici dell’amministrazione. Il vicepresidente Dick Cheney e Karyn Hughes hanno bene in mostra nei rispettivi uffici la stessa placca con il suo motto: «Non ero un leone ma mi hanno costretto a ruggire». Il Segretario alla Difesa, Donald Rumsfeld, ricorre a Churchill per sfuggire all’assedio dei cronisti che gli rimproverano troppe mezze verità sulla guerra: «In tempo di guerra la verità è così preziosa che deve essere sempre protetta da un guardaspalle di bugie». Di fronte alla Churchill-mania dell’America di Bush Roy Jenkins non perde lo stile distaccato maturato in mezzo secolo di politica lungo il Tamigi e, sfoderando un humor tagliente, invita all’attenzione su ciò che Bush e Churchill non hanno in comune: il primo è magro, astemio ed è noto per inciampare sui vocaboli, l’altro era corpulento, non poteva far a meno dei liquori e usava le parole «come fossero spine». Sull’ipotesi che Bush e Churcill potessero andare idealmente d’accordo perché uniti dal compito di difendere la civiltà occidentale dall’impersonificazione contemporanea del Male nelle rispettive epoche Jenkins è ancor più graffiante: «Non so se Bush avrebbe apprezzato Churchill come avviene oggi con il premier britannico Tony Blair perché Willie quando venne ospitato da Roosevelt alla Casa Bianca non si accontentò di un pasto e di un incontro con i giornalisti ma rimase per tre intere settimane, facendosi portare in camera ogni giorno sherry prima di colazione, due scotch con soda prima di pranzo e prima di andare a letto un brandy vecchio di 90 anni accompagnato da champagne, ovviamente francese».

L’Asse del Male

La missione di Bush assume contorni più definiti la sera del 29 gennaio del 2002 quando, rovesciati i taleban e smantellata la rete dei campi di Al Qaeda in Afghanistan, pronuncia di fronte al Congresso il suo primo discorso sullo Stato dell’Unione. Per ogni presidente si tratta del momento più delicato, in questo caso siamo anche in guerra, con il Campidoglio di Washington circondato da blocchi di cemento grigio, auto della sicurezza e misure di protezione a cui il santuario bianco della politica americana non era mai stato sottoposto. Bush debutta proiettato in avanti: «L’America è in guerra, l’economia in recessione ed il mondo affronta pericoli senza precedenti ma gli Stati Uniti non sono mai stati così forti». Chiama per nome i prossimi nemici dell’America, disegnando lo scenario della seconda fase della sfida al terrorismo e prospettando per la prima volta l’indipendenza degli Stati Uniti dal «greggio straniero». Mette in guardia quello che definisce l’«Asse del Male» composto da Iraq, Iran e Corea del Nord: Stati «timidi» dopo gli attacchi l’11 settembre, che «fomentano il terrorismo e perseguono il possesso armi di distruzione di massa da mettere a disposizione di terroristi». La convergenza fra terrorismo ed armi di distruzione di massa è considerata come il nemico più pericoloso: se kamikaze simili a quelli che hanno compiuto gli attacchi dell’11 settembre dovessero entrare in possesso di ordigni chimici, batteriologici o nucleari l’America rischierebbe una tragedia ben più grave di quella che ha appena attraversato. La formula «Asse del Male» nasce dalla penna di David Frum, uno degli sherpa a cui la Casa Bianca affida la preparazione dei testi, e si richiama all’Asse composto durante la Seconda Guerra Mondiale dalla Germania di Adolf Hitler, l’Italia di Benito Mussoilini ed il Giappone dell’imperatore Hiro Hito. Così Frum spiega la scelta: «L’Asse non era un’unione delle menti e dei valori come la Nato, le potenze dell’Asse non si fidavano l’una dell’altra e non avevano molto in comune ideologicamente, se l’Asse avesse vinto la guerra presto si sarebbero combattute l’un l’altra, l’unica cosa che le univa era l’odio per la democrazia ed il rancore per il potere dell’Occidente» (7). Il pubblico americano percepisce anche un richiamo all’«Impero del Male» in cui il presidente Ronald Reagan identificò l’Unione Sovietica, chiedendo all’allora segretario generale del Pcus Mihail Gorbaciov di abbattere