Giocare a fare Stalin. Perché il regime di Putin è illegittimo
Venerdì 27 e sabato 28 maggio, presso la Sala degli Atti Parlamentari della Biblioteca del Senato della Repubblica “Giovanni Spadolini”, si è tenuta una due giorni di studi organizzata dalla Rivista Ventunesimo Secolo per ricordare il compianto Victor Zaslavsky, scomparso il 26 novembre del 2009, e per celebrare il decennale della rivista. Pubblichiamo l’intervento di Lev Gudkov, sociologo, autore di numerosi studi sull’opinione pubblica e la società russa, che ha partecipato all’evento.
Nel febbraio del 2011 un gruppo di difensori dei diritti civili e politologi ha avanzato al presidente Medvedev l’idea di una vasta campagna di “destalinizzazione” senza la quale sarebbero impossibili sia la “modernizzazione della Russia” sia il “consolidamento dello stato di diritto” proclamati dallo stesso Medvedev. Anche alcuni partiti democratici dell’opposizione hanno condiviso questa idea. La proposta ha suscitato il furioso dissenso sia degli ideologi del partito al potere (Russia Unita), sia dei comunisti o nazionalisti.
Poiché la campagna elettorale per le elezioni presidenziali è già iniziata, un programma politico di questo tipo è stato considerato come una piattaforma di modifica radicale della politica dello stato e cioè non come un semplice allontanamento dal corso della politica putiniana della “stabilità”, ma come un ritorno a quelle riforme e a quei programmi di transizione democratica mai portati a termine negli anni ’90 dal governo di Eltsin. Il programma dei difensori dei diritti civili è stato accolto come una provocazione finalizzata alla “divisione e al dissesto della società”, all’imposizione dell’idea secondo la quale “tutta la Russia sarebbe una grande Katyn”, alla frattura tra la classe dirigente e il suo partito “Russia Unita”. Come ha scritto uno storico vicino ai comunisti, M. Lomakov, “il governo staliniano teneva in considerazione la mentalità del popolo russo, mentre il potere dei liberali viene respinto come corpo estraneo”.
Definendo la “modernizzazione” di Medvedev un’utopia, lo stesso affermava che “sulla base di quanto avvenuto negli ultimi vent’anni, il periodo sovietico e soprattutto l’epoca staliniana appaiono come un periodo, se non ideale almeno romantico, un periodo di successi nel lavoro e nella guerra. Il simbolo di questo periodo è proprio Stalin”. Come molti altri pubblicisti e politologi del Cremlino, egli ritiene che: “i liberali vogliono distruggere Stalin in quanto capiscono che oggi, di fronte alla minaccia di una totale dipendenza dall’occidente, nel paese cresce la domanda sociale di una personalità come quella di Stalin”. Questo argomento del pericolo che proviene dall’occidente, che vuole “imporre” alla Russia la democrazia al fine di trasformarla in una propria colonia, riserva di materie prime, viene ripetuto anche da Putin e dalla propaganda del Cremlino e sembra convincere una parte significativa della popolazione russa in quanto corrisponde agli stereotipi ideologici della guerra fredda, allo spirito della società chiusa che, seppure un po’ indebolito, sopravvive ancora oggi.
La figura di Stalin è diventata il simbolo che separa diversi raggruppamenti. Non stiamo parlando dello Stalin storico. Nella Russia di oggi Stalin costituisce l’elemento determinante della mitologia politica, utilizzato dall’amministrazione del Cremlino per la legittimazione del regime putiniano o dagli oppositori di Putin per criticarlo (sia i comunisti, sia i liberali), da posizioni assolutamente contrapposte.
Visto il protrarsi della crisi economica, il ticket al governo (Putin-Medvedev) mostra segnali di spaccatura e contrapposizione. La questione di chi concentrerà i pieni poteri nel paese per i prossimi 6 o 12 anni ha iniziato a preoccupare non solo l’elite al governo, ma anche il mondo del business, i funzionari dello stato e il ceto medio. I sostenitori del presidente in carica e di quello precedente costruiscono differenti configurazioni della condizione dell’economia e della società russa, delle sue relazioni con la comunità mondiale e della storia patria. L’inevitabilità di tali divergenze è, per i circoli politicamente impegnati in Russia, assolutamente palese, anche se per il momento non si parla ancora di un aperto conflitto tra i pretendenti al trono russo. Alcuni politici e giornalisti attendono con preoccupazione questa divisione, altri con impazienza in quanto la possibilità di cambiamento può venire solo da un conflitto di questa natura.
La mancanza di meccanismi istituzionali di cambiamento del potere è uno dei problemi più complessi e insolubili dei regimi post-totalitari, Russia compresa. Qui il cambiamento del potere avviene non a seguito di libere elezioni, ma per la crisi della dirigenza preceduta da una delegittimazione del potere. Ecco perché la destituzione di un gruppo dirigente richiede una critica totale e il discredito assoluto della dirigenza precedente da parte del successore. In seguito le sue azioni possono distinguersi radicalmente. Può infatti scegliere o:
a) un corso di riforme per eliminare i risultati negativi accumulatisi e i cedimenti in politica del potere precedente oppure, al contrario;
b) una politica di conservazione della situazione esistente.
In questo contesto il richiamo a Stalin ha svolto e svolge un ruolo molto importante. Negli anni ’90 la figura di Stalin, dopo la critica dello stalinismo, dura ma superficiale, fatta nel periodo della perestrojka, è praticamente scomparsa dal campo dell’attenzione sociale per tornare ad avere una funzione significativa con l’avvento di Putin.
Il regime putiniano è apparso come reazione conservatrice al precedente periodo caratterizzato da interminabili processi di cambiamento, dalla frustrazione di massa suscitata dalla distruzione del sistema comunista e sovietico, dalla perdita dei punti di riferimento e dall’incertezza per il futuro della popolazione. La dissoluzione dell’URSS ha provocato un fortissimo trauma all’identità collettiva, un sentimento generalizzato di inferiorità e di umiliazione. Per questo l’appello al grande passato dell’impero con le sue tradizioni (propaganda del patriottismo e della rinascita nazionale) è diventato elemento fondamentale della legittimità del regime putiniano. Tra i simboli della Grande Potenza un ruolo centrale è svolto dalla Vittoria della guerra mondiale e quindi da Stalin in quanto comandante in capo e fondatore di questa superpotenza, anche se con i metodi più efferati e crudeli. Il ricorso ad altri surrogati simbolici delle tradizioni assume un valore aggiunto così come il flirt con la Chiesa ortodossa russa e, in misura minore, con altre confessioni religiose, ammesse al servizio del potere (non è casuale che all’interno della chiesa ortodossa russa non si esauriscano le discussioni sull’opportunità della canonizzazione ecclesiastica di Stalin).
Inoltre, si è creata una cesura tra le nuove sfere della vita sociale (economia di mercato, cultura di massa, modelli di consumo) che si differenziano in maniera sostanziale dalle forme del periodo sovietico e gli istituti centrali del sistema totalitario che la caduta del comunismo non ha praticamente intaccato (organizzazione del potere senza controllo della società, della polizia, della giustizia, dell’istruzione di massa).
La costruzione del regime di Putin si è completata a metà degli anni 2000 con l’appropriazione delle posizioni sociali più elevate da parte dei detentori delle leve del potere – funzionari statali di alto livello arrivati al potere insieme a Putin. Tra loro un ruolo fondamentale è svolto dai collaboratori della polizia politica (che fanno parte della struttura del KGB).
Oggi questi personaggi costituiscono lo stretto entourage di Putin, il suo governo ombra che assoggetta ai propri interessi corporativi tutte le sfere del governo: politica, economia, forze armate e informazione del paese. E’ proprio in questo ambiente che Stalin gode di rispetto e venerazione immutati.
Putin è stato il primo tra i politici eminenti della Russia a fare un brindisi a Stalin come “organizzatore della nostra vittoria nella Grande Guerra Patriottica”. Tuttavia, rifiutando l’ideologia dell’avvicinamento tra Russia e Occidente e della prosecuzione delle riforme democratiche e del mercato, il nuovo regime russo ha rivelato i suoi difetti profondi: il sistema dell’arbitrio amministrativo centralizzato è risultato privo della necessaria legittimazione culturale. L’ideologia comunista, fondata sui dogmi della “costruzione di una società nuova” o “dell’accerchiamento nemico” del paese, è morta da tempo.
Le idee della democrazia, della libera economia di mercato, dell’integrazione con l’occidente, dell’occidentalizzazione della società russa sono state discreditate dalla propaganda putiniana che rappresenta gli anni della presidenza eltsiniana, del periodo della transizione istituzionale postcomunista e delle riforme liberali avviate ma non portate a compimento, come un periodo di caos e di baldoria della criminalità.
L’ampio programma di reideologizzazione della società, avviato subito dopo l’avvento di Putin al potere, ha raggiunto il culmine durante gli sfarzosi festeggiamenti del 60° anniversario della vittoria sulla Germania. Dalla fine del 2003 al maggio del 2005, ogni giorno la televisione ha trasmesso alcune ore di film e programmi di celebrazione patriottica, ed è stata così portata avanti una fortissima propaganda antioccidentale e antiamericana. Nelle scuole è stato di nuovo introdotto un testo unificato di storia, viene condotta una campagna contro le “distorsioni storiografiche”. In questo quadro, gli interventi dei politici più eminenti rafforzano quegli elementi della figura di Stalin che sembrava fossero già caduti nel dimenticatoio. Per esempio, uno dei dirigenti del partito “Russia unita” al governo, lo speaker della Duma B. Gryzlov, dopo aver deposto fiori sulla tomba di Stalin nelle mura del Cremlino, nel giorno del suo compleanno (21-12-2004), ha esortato a rivedere la valutazione storica di Stalin. Ha dichiarato che “gli eccessi” dell’azione staliniana non devono nascondere ai nostri occhi “l’eccezionalità” della sua personalità che “come leader del paese ha fatto molto per la vittoria nella Grande Guerra Patriottica”. Quello che Gryzlov si è vergognato di dire apertamente (e cioè che la Russia ha bisogno di un dittatore autoritario9, è stato aggiunto dai suoi critici e oppositori.
Il segretario del Comitato Centrale del Partito Comunista Panrusso (dei bolscevichi) A. Kubaev, dopo aver definito Stalin “il più eminente uomo di stato” e “il politico che oggi manca alla Russia”, ha dichiarato che “oggi la Russia è in condizioni disastrose” e per questo “ha bisogno di un nuovo Stalin”.
Il canale principale di riproduzione del mito staliniano è costituito oggi da quegli istituti che garantiscono la riproduzione e la conservazione dell’ideologia del regime autoritario in Russia: scuola di massa, università provinciali-portatrici dell’ideologia di un rancoroso nazionalismo russo, ma anche la televisione, trasformata in un potente meccanismo di propaganda e manipolazione dell’opinione pubblica.
Dopo i nuovi testi di storia “corretti”, la televisione di stato – strumento principale della propaganda putiniana – ha cominciato a mandare in onda interminabili serial sui segreti della vita del Cremlino, sugli intrighi e i complotti nella stretta cerchia del dittatore, sui suoi tormenti interiori e sulle sue “ricerche religiose” (per esempio Stalin-live andato in onda nel 2007, 2008, 2009 e 2010), talkshow, tipo “Imja Rossij” (Il nome della Russia N.d.T.), nel quale Stalin è rappresentato come simbolo insigne della grandezza della Russia, sinonimo di gloria nazionale. Queste trasmissioni possono sembrare esteriormente antistaliniste o anche comprendere molti materiali reali sulle repressioni; tuttavia, in ultima analisi, l’immagine di Stalin che ne deriva è vicina alla posizione formulata dal Comitato centrale del PCUS subito dopo il rapporto di Chrusciov al XX congresso sul “culto della personalità di Stalin” rimasta immutata fino ad oggi: Stalin è responsabile delle repressioni illegali ma solo con questi mezzi era possibile creare una grande superpotenza come l’URSS.
Sull’essenza del nuovo programma di educazione ideologica della gioventù si è espresso ancora più esplicitamente L. Poljakov, uno degli autori del libro di testo sulla nuovissima storia della Russia, nel quale Stalin è presentato come un “manager efficiente” che ha realizzato la veloce modernizzazione della Russia. Secondo lui, i maggiori sforzi nell’istruzione scolastica devono essere indirizzati alla formazione di un modello di “felice passato” nei libri di testo di storia. “Scopo dell’insegnamento della storia nella scuola è l’oblio comprensivo”. La storia nelle scuole deve avere come obiettivi l’integrazione verticale e orizzontale del paese e la creazione di un modello di “storia ottimista”, l’affrancamento dal senso di colpa nutrito dai giovani per i “delitti” commessi nel passato dai loro “avi”, “il superamento di quell’attenzione particolarmente acuta per una dolorosa memoria e “della coscienza della colpa collettiva” che impedisce la costruzione della nazione:
Altrettanta diffusione hanno i libri su Stalin scritti nel rispetto dei canoni della stampa nazionalista (cospirativa, antisemita o antioccidentale) o di quella scandalistica, gialla o d’appendice. La sola casa editrice “Eksmo”, negli ultimi 3-4 anni ha pubblicato alcune serie (“Lo stalinista”, “La rinascita staliniana”, “L’enigma del 1937”, “Stalin. La grande era”, “La svolta della storia” ecc…) che comprendono decine di libri apologetici di Stalin, le memorie delle sue guardie del corpo, “ricerche” che puntano a negare le repressioni di massa o che ne alterano il carattere e la portata. Gli autori di questi libri si pongono l’obiettivo di “svelare la menzogna” del rapporto Chrusciov e i successivi “miti” antisovietici dei democratici o “la calunnia” degli storici occidentali, la “leggenda nera” secondo la quale nel “terribile 1937” “milioni di innocenti furono vittime del regime criminale e durante le repressioni politiche centinaia di migliaia di scienziati, scrittori, registi sono stati sterminati, gli intellettuali sono stati annientati in massa, l’esercito è stato decapitato, è stato stipulato un patto segreto con Hitler ecc… ecc…
Citerò solo alcuni titoli di libri di questo filone pubblicati tra il 2009 e il 2010: “Il nome della Russia: Stalin”, “Per Stalin” Lo stratega della grande vittoria” “Gli ultimi anni di Stalin. L’era del Rinascimento”, “1937, l’antiterrore di Stalin”, “Stalin, il vincitore. La guerra santa del Leader”, “Stalin davanti al giudizio dei pigmei”, “Perché è necessario Stalin”, “L’impero popolare di Stalin”, “Attenti! Arriva Stalin. La segreta magia del Leader”, “Stalin vivo”, “L’URSS la civiltà del futuro. Le innovazioni di Stalin” “Stalin proibito” ecc… ci sono decine di queste pubblicazioni.
Negli ambienti scientifici o universitari non si discute più del passato staliniano. Tra di loro è ormai consolidata l’opinione su Stalin come grande statista russo, prosecutore della politica leninista della dittatura del proletariato, creatore di un potente stato repressivo, dedito agli intrighi interni al partito e organizzatore del terrore di massa ecc… ma paradossalmente sono proprio quegli ambienti a contrastare con forza qualsiasi tentativo di introdurre lo studio dello stalinismo in un contesto di analisi tipologico-comparativa dei regimi totalitari. Naturalmente ci sono singoli storici indipendenti che propongono interpretazioni della storia differenti da quelle ufficiali, ma restano comunque sempre nell’ombra, marginali e poco noti al più vasto pubblico.
La restaurazione di una “ideologia dello stato centralizzato forte” e gli sforzi della propaganda del Cremlino per far tornare Stalin nello spazio pubblico sono assolutamente logici. L’autoritarismo come tipo di sistema socio-politico ha bisogno della tradizione. Mentre la perestrojka di Gorbaciov era iniziata con la delegittimazione del sistema comunista, con la glasnost e la critica dello stalinismo come quintessenza del totalitarismo sovietico, l’amministrazione putiniana ha sostenuto i propri punti di riferimento, analoghi alla vecchia formula tradizionale del conte S.S. Uvarov: “autocrazia, ortodossia, carattere nazionale”.
Le controriforme putiniane hanno arrestato il processo di razionalizzazione dell’esperienza di violenza dello stato. Il Cremlino ha adottato la strategia della rimozione della storia, della sterilizzazione del passato. La destoricizzazione della coscienza di massa serve per conservare il modello di un potere saggio, paternamente premuroso, ma al di sopra della società, un potere che non prevede e non ammette alcun meccanismo di controllo su se stesso e dunque esente da ogni responsabilità.
Parallelamente bisogna sottolineare che la politica di riabilitazione di Stalin ha un carattere di cautela e di duplicità: senza negare le repressioni di massa in quanto tali e i crimini del regime staliniano, la propaganda putiniana e i politici del suo stretto entourage hanno tentato di relegare in secondo piano questi aspetti, sottolineando in ogni modo il talento di Stalin come leader e uomo di stato. Il trionfo dei vincitori della guerra compensa tutti i complessi nazionali di inferiorità, l’umiliazione provocata dall’arretratezza rispetto all’occidente e l’incapacità del paese di portare a termine i processi di modernizzazione. Per questo il tema del “leader” (del padre severo del popolo, del genio di tutti i tempi, del governante crudele e irrazionale ecc…) nella struttura di questo mito nazionale è particolarmente importante per la coscienza collettiva.
Grazie al mito di Stalin viene introdotto un motivo di significato essenziale per Putin: il valore di un grande stato, la tutela della sua integrità e della sua potenza giustificano ogni mezzo usato dalla politica. Inoltre si conferma l’incommensurabilità degli obiettivi della politica dello stato o dei significati valoriali dello stato rispetto ai valori e alle opinioni del semplice cittadino, ivi compreso il valore della vita umana. Si tratta non semplicemente della grandezza irrazionale dello stato, ma dell’affermazione di una priorità di principio del valore del potere e della sua irresponsabilità nei confronti del popolo. Nel contesto della guerra in Cecenia, questo momento è molto importante.
La reazione della società ai caparbi tentativi della propaganda del Cremlino di restituire Stalin allo spazio pubblico è risultata piuttosto paradossale: l’atteggiamento generale nei confronti di Stalin ha subito un’inversione di tendenza: da una valutazione rigidamente negativa fino al riconoscimento che “Stalin ha svolto un ruolo complessivamente positivo nella vita del nostro paese” nonostante le repressioni (negli ultimi 8-10 anni questa opinione risulta condivisa mediamente da più della metà degli intervistati: 51-53%; mentre una valutazione negativa della sua attività è stata espressa dal 30-33%), contemporaneamente in dieci anni di governo putiniano è diminuito anche il numero di coloro che davano una valutazione positiva e di stima per Stalin (dal 38% al 31%), ma anche di coloro che avevano un atteggiamento di rifiuto, odio e paura (dal 43% al 24%), mentre l’atteggiamento dominante è diventato quello dell’indifferenza nei confronti del problema; la percentuale di indifferenti è cresciuta dal 12% al 44% e tra i giovani intervistati questo approccio è risultato quello di assoluta maggioranza (69%).
Lo sdoppiamento della coscienza di massa in Russia si manifesta nel fatto che la maggioranza assoluta dei russi se da una parte ritiene che “non sia assolutamente giustificabile che il popolo sovietico abbia avuto tante vittime durante l’epoca staliniana” (questa è l’opinione del 68%), dall’altra sostiene che “senza Stalin non avremmo vinto la guerra” (praticamente lo stesso 68%).
La totale incapacità di condannare definitivamente la dirigenza comunista del paese si risolve nel fatto che praticamente la stessa percentuale di intervistati ritiene che la migliore via d’uscita sarebbe quella di “dimenticare quanto è successo”. Non si può sostenere che la gente non ricordi quanto sia avvenuto negli anni della prosperità e delle purghe staliniane. A giudicare dai sondaggi, una famiglia su tre ha sofferto per la repressione e ha avuto suoi membri esiliati, fucilati o sterminati durante la collettivizzazione forzata. Tuttavia il significato di questi ricordi non può essere generalizzato né compreso.
La maggior parte dei russi inoltre non desidera né tornare al culto di Stalin né è favorevole a una riabilitazione parziale o al ripristino dei monumenti a lui dedicati, progetto avanzato da alcuni deputati della Duma in occasione del 65° anniversario della vittoria sulla Germania. Il 54-59% nel 2001-2010 si è dichiarato contrario a che la città di Volgogrado ritorni all’antica denominazione di Stalingrado, nonostante tutta l’aura eroica della battaglia di Stalingrado.
Il problema del superamento del mito di Stalin non consiste nel fatto che la gente non conosce i crimini di Stalin, ma nel fatto che la gente non considera criminale il sistema sovietico in quanto tale. Oggi nella Società russa non esistono autorità morali e intellettuali universalmente riconosciute che siano in grado di fare questa diagnosi. Il popolo da solo non è in grado di razionalizzare e dare un significato nè al passato del paese, nè alla natura del regime odierno sempre più corrotto e repressivo. Ecco perché l’unica reazione alla frustrazione della conoscenza delle repressioni staliniane è la prostrazione della società e il desiderio di “dimenticare tutto quanto è avvenuto”. E proprio questo è stato l’obiettivo della tattica di governo adottata da Putin: mancanza di chiarezza morale e apatia di massa come fondamento di un regime autoritario.