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Pubblichiamo, per gentile concessione, l’introduzione a firma di Gaetano Quagliariello del volume “Giustino Fortunato e la questione meridionale. Ruolo e funzione delle Banche Popolari” di Giuseppe De Lucia Lumeno. CLICCA QUI per scaricare il pdf. 

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Voglio innanzi tutto confessare la ragione che sopra ogni altra mi ha spinto ad approfondire la conoscenza del pensiero e ancor più della vita di Giustino Fortunato. Egli amava camminare, passione che condivido e che almeno in parte mi deriva dalla lettura delle sue imprese. Il giovane Giustino nel 1872 s’iscrisse al CAI di Napoli, fondato solo un anno prima “lassù a Tarsia, nel laboratorio di botanica del professor Pedicino, scienziato e uomo più singolare che raro”. Quella frequentazione incoraggiò la sua propensione per cammini e scalate, vissuti anche come un mezzo per conoscere meglio – e realmente – il territorio. L’attitudine all’escursione, con ogni probabilità, era poi maturata in lui sotto forma di suggestione anche grazie alle pagine del Viaggio in Italia che Goethe dedicò al suo soggiorno napoletano e che Fortunato tradusse proprio nel torno di quegli anni: pagine nelle quali, tra le altre cose, sono mirabilmente descritte due ascensioni al Vesuvio.

Fortunato coltivò quella passione per tutta la sua lunga esistenza, percorrendo a piedi gli Appennini meridionali dal Gran Sasso all’Aspromonte. Ad essa ricollegò esplicitamente alcuni tratti del proprio carattere, i convincimenti fondamentali intorno alla natura del territorio meridionale e, addirittura, le ragioni della sua forte tempra. Scrisse a tal proposito in sede retrospettiva: “passione cui debbo, nonché la salute e la forza di resistenza a tutto il trentennio di elettorato, il proposito, mantenuto per più anni, di percorrere lungo l’Appennino dagli Abruzzi alle Calabrie, pedestremente, tutta intera la terra meridionale”.

Debbo fare, a questo punto, un’ulteriore confessione. Quando nelle mie peregrinazioni raggiungo un borgo o un paese dell’Appennino meridionale, o anche quando mi trovo in visita in una città medio-piccola che di quei borghi è il riferimento, sono solito chiedere informazioni sull’esistenza di una via, di un’istituzione, di una struttura intitolata a Fortunato. Spesso la mia ricerca ha esito positivo e allora non manco di rintracciare la targa che gli intesta una via, una scuola o a volte persino una palestra. E’ assai eloquente, infatti, la varietà delle attribuzioni con le quali egli viene qualificato: in alcuni casi è ricordato come “storico”, in altri come “economista”, in altri ancora come “politico”, più raramente persino come “geografo”. E non difettano certo i casi in cui gli aggettivi si sommano e si compongono. Insomma: dalla toponomastica giunge un indizio di quell’ecletticità che fa di Fortunato un unicum nel novero dei padri storici del meridionalismo.

Sulla poliedricità del suo ingegno e del suo impegno la pubblicazione che l’Associazione delle Banche Popolari gli ha voluto dedicare in occasione del novantesimo anniversario della scomparsa getta un ulteriore e potente fascio di luce. Non soltanto perché di Fortunato valorizza l’attività di pioniere del cooperativismo meridionale, sovente sottostimata quando non addirittura dimenticata. Ancor più perché si sofferma su anni cruciali che avrebbero segnato e definito la sua formazione, il suo pensiero, il tratto del suo concreto agire.

Gli scritti riproposti e l’inquadramento storico che Giuseppe De Lucia Lumeno ci offre fanno infatti riferimento a quel torno di tempo, coevo alla frequentazione del laboratorio di botanica dove aveva sede il CAI, nel quale il giovane Giustino, appena uscito dall’Università di Napoli, mosse alcuni dei suoi primi passi nella vita pubblica. Sono anni nei quali la fortissima influenza familiare, già sottolineata da Giuseppe Galasso in uno scritto occasionato dal cinquantenario, si compone e si integra con gli insegnamenti ricevuti e con l’esperienza vissuta nella “capitale” del Mezzogiorno. Sono anni nei quali l’esperienza concreta della fondazione di una banca si nutre della riflessione sul credito cooperativo e, in particolare, sul ruolo assolutamente strategico che ad esso avrebbe dovuto essere assegnato per tentare lo sviluppo morale e materiale del Mezzogiorno. Sono anni nei quali all’originaria influenza di Pasquale Turiello – il primo tra i suoi “maestri” dal quale egli derivò quella nota di pessimismo realistico che non l’avrebbe mai abbandonato – si aggiunge quella di Luigi Luzzatti, di Leopoldo Franchetti e di Pasquale Villari, che a tutti gli effetti vanno annoverati tra i suoi “maggiori”. Sono anni, insomma, di apprendistato teorico e pratico, che sarebbe infine sfociato nella decisione di concorrere alla conquista di un seggio parlamentare nella sua Basilicata.

Non casualmente, il saggio introduttivo di Giuseppe De Lucia Lumeno dal 1873, anno nel quale venne fondata la banca di Rionero, ci conduce fino al 1880, quando Fortunato avrebbe svolto un mirabile intervento al congresso nazionale delle Banche Popolari riunitosi a Bologna. In quello stesso anno egli avrebbe posto la sua candidatura nel collegio di Melfi. Si tratta, dunque, di un settennato cruciale nella biografia di Fortunato e la ricostruzione storica che ci viene proposta consente di enucleare ed evidenziare gli aspetti del suo meridionalismo, messi a punto nel corso di quel periodo e poi confluiti in quel pensiero organico che fu riferimento costante della sua lunga azione parlamentare.

L’esperienza di fondazione della banca di Rionero conferma, innanzi tutto, l’importanza che ricoprirono il contesto e l’origine familiare. Fortunato proveniva da una famiglia di proprietari terrieri che a differenza dei più, appartenenti alla medesima classe, non aveva eretto l’infingardaggine a sua bandiera. Era questo un punto di partenza importante, per differenti ragioni. Fortunato era conscio di quanto fosse arduo creare sviluppo al sud, e su questo punto specifico non mancò di polemizzare con Francesco Saverio Nitti. Sapeva che, per ragioni storiche che affondavano le radici nel tempo lungo, al Mezzogiorno difettava quello spirito comunitario che nell’altra Italia si era sviluppato in particolare nel periodo comunale. Sapeva che queste difficoltà avevano natura economica ma soprattutto morale e che in gran parte esse dipendevano “dall’inestricabile intreccio” tra le miserabili condizioni dei contadini, l’interessata inerzia dei proprietari e l’acquiescenza a questo stato di cose delle classi politico-amministrative.

Per invertire la situazione non era perciò possibile puntare su un’iniziativa di classe. Non soltanto perché ne mancava la coscienza; ancor prima perché mancavano le condizioni minime per porre il tema della ripartizione della ricchezza: “male si può ripartire ciò che non ancora è stato prodotto”. Bisognava, perciò, obbligatoriamente partire dall’iniziativa di piccole minoranze organizzate – “di pochi individui mai di una classe” – e, in assenza di capitali, sfruttare le risorse di quanti – innanzitutto tra i proprietari “dissidenti” – non avessero interesse solo per l’utile ma ancor prima per lo sviluppo e la qualificazione morale dei loro territori.

La chiarezza di queste condizioni di contesto porta Fortunato a raccontare quasi in forma di parabola gli esordi della sua intrapresa creditizia. Ad allontanare da sé il merito per attribuirlo a “tre giovani modestissimi, a un impiegato comunale, a un piccolo negoziante e a un farmacista”: quasi un prototipo di quella classe media della cui nascita avrebbe voluto creare le premesse. Egli insiste, con particolare accento, sulla dignità che l’iniziativa avrebbe dovuto proporre e promuovere. Un decoro che s’incarna nelle cose e si trasferisce alle persone. Così Fortunato immagina lo sviluppo e la diffusione delle banche popolari sul territorio meridionale: “due o tre stanze tutt’al più, linde ed allegre quant’altro mai, perché ovunque la nettezza può far le veci del lusso; e le si immagini nel bel mezzo delle piazzole dei nostri comuni, con la loro insegna al sommo d’una porta tinta di fresco, visitate dall’operaio, dal piccolo negoziante, dal capo d’arte, dal colono: da tutta una gente per cui la banca non è più il vergognoso uscio dell’usuraio, ma una provvidenza dovuta al proprio risparmio e al proprio onore”.

Promuovere il credito produttivo significava, dunque, introdurre il decoro e la dignità in territori poveri e moralmente deturpati per consentire che dalla grande proprietà scaturisse una piccola imprenditoria agricola, artigiana, industriale, tessuto connettivo su cui impiantare uno sviluppo degno di questo nome.

Il proposito di avviare il Mezzogiorno nel solco del credito produttivo rafforzava in Fortunato la sua fede unitaria, assoluta e priva di esitazioni. Egli era del tutto cosciente della caducità del processo unitario: una sorta di fragile plebiscito da rinnovare ogni giorno. Sapeva che le cause dell’arretratezza meridionale avevano radici assai più antiche di quelle dei Borboni. Sapeva anche che l’unità del Paese era stata conquistata per l’abilità di pochi, innanzi tutto del Cavour, a dispetto delle condizioni generali, e che al Sud essa era stata imposta “a furia di fucilate” laddove il programma cavouriano del “fare gli italiani” era ancora in gran parte latitante. Non di meno – anzi, proprio per tutto ciò – riteneva che per il Mezzogiorno l’unità rappresentasse un’occasione irripetibile e da non smarrire.

In Fortunato la vecchia credenza del Mezzogiorno come paradiso abitato da diavoli proprio non attecchiva. Egli riteneva che storia, clima e natura avessero congiurato, in solido, contro il Sud. E lo stesso rapporto tra “la capitale” del vecchio Regno e il resto del meridione giungeva ad aumentare gli squilibri di quel territorio: nessun miglior testimone di lui che a Napoli era vissuto e intellettualmente maturato ma che il resto del Regno conosceva palmo a palmo, per origini ed esplorazioni successive.

Per questo, nella relazione al congresso di Bologna del 1880 egli affresca Napoli con tinte goethiane, senza però dimenticare la condizione della parte più povera della città, rimandando alle descrizioni implacabili che di lì a poco sarebbero scaturite dalla penna di Matilde Serao.

Questa condizione di “svantaggio”, per essere recuperata, aveva bisogno di partecipare a una più ampia solidarietà. Le banche popolari rappresentavano in tal senso un esempio di quel che il sud avrebbe potuto ricavare dal contatto con un movimento più ampio e dalla partecipazione a un’intrapresa nazionale. Quel contatto avrebbe potuto nel Mezzogiorno far comprendere l’importanza dei capitali e vaccinare contro il credito improduttivo. Avrebbe aiutato a promuovere nei territori il concetto moschiano di “classe politica”; a educare introducendo le nozioni elementari di diritto bancario; a scongiurare che una banca si potesse trasformare in una consorteria politica a servizio di un partito municipale. Avrebbe potuto, infine, rappresentare un concreto aiuto attraverso l’istituzione di un fondo d’incoraggiamento costituito dagli istituti operanti nei territori più ricchi. E, a tal proposito, Fortunato chiosa sull’importanza che a tale fondo contribuissero anche istituti meridionali e che esso non fosse inteso come elemosina perché “la cieca elemosina, voi sapete, corrompe”.

Come si è detto, sulla scorta di queste convinzioni fondamentali Fortunato giunge nel 1880 a concepire un diretto impegno politico. Egli crede alla politica come risorsa e sa bene che l’impiego di quella risorsa era stata indispensabile per conseguire l’unità del Paese. Crede però che la politica debba fondarsi sull’autonoma azione di uomini e comunità, incoraggiandone i migliori istinti e le migliori intenzioni, piuttosto che affidarsi a un’azione dall’alto completamente devoluta alla leva statuale. E’ su questo terreno, d’altra parte, che si può misurare tutta la sua distanza dal conterraneo Francesco Saverio Nitti e il successivo avvicinamento a un altro grande meridionalista, Gaetano Salvemini, con il quale partecipò, nonostante i differenti temperamenti, la stagione della rivista L’Unità. La politica, però, per Fortunato non è manovra né imposizione giacobina. E’ pedagogia, lavoro incessante e sussidiario sui territori, è collaborazione con altri segmenti sociali in un più compiuto e ampio concetto di classe dirigente.

Dai tempi di Fortunato i termini della questione meridionale sono profondamente cambiati e così tanto che certamente non è questa la sede per analizzare tale mutamento. Essa resta, però, una questione complessa: se possibile ancor più complessa che alle sue origini. Fortunato, ancora oggi, ci offre un metodo – certo non ottimistico e non facile da applicare – per dipanarla e per venire a capo di tale complessità. In questo risiede la sua attualità; in questo risiede la bellezza e l’utilità di un volume che tutto ciò ci ricorda.