Gli strumenti operativi per prevenire il bullismo: dai modelli alle azioni
Ho intitolato il mio intervento dai modelli alle azioni, proprio perché, voglio parlarvi di quelle che sono state le mie azioni rispetto alla prevenzione del bullismo, nel lavoro con gli insegnanti i genitori e i ragazzi.
Ho lavorato nella scuola sia come docente che come psicopedagogista con un’ utenza molto eterogenea. In particolare gli ultimi anni sono stati molto significativi, poiché il circolo didattico nel quale mi trovavo comprendeva quattro istituti comprensivi. I ragazzi,figli di professionisti,di impiegati, di portieri, della ricca borghesia,si sono trovati nel giro di pochissimi anni anche con molti bambini e ragazzi extracomunitari e rom, per la vicinanza dei campi nomadi. La scuola è a forte processo immigratorio.
In questo ambiente ho lavorato come funzione strumentale sull’handicap,sullo svantaggio socio relazionale e dell’apprendimento. Inoltre ho curato il servizio psicopedagogico realizzando lo sportello di ascolto per le famiglie, gli insegnanti,e i ragazzi.
Ma farei un passo indietro. L’esigenza di realizzare un lavoro di prevenzione del bullismo è nato molti anni fa esattamente 15.Iniziammo a vedere che alcune classi di ragazzi erano diventate ingestibili per il comportamento di alcuni di loro; che non erano né disabili, né portatori di handicap cognitivi. Erano solo ragazzi impossibili da gestire,motivare, incuriosire. Ragazzi che non riconoscevano l’autorità, non volevano sentir parlare di regole ed esprimevano un’ aggressività eccessiva sia nelle parole che nei comportamenti fisici.
Questi alunni sfuggivano alle solite catalogazioni. Le famiglie erano in difficoltà e chiedevano aiuto alla scuola. In quell’ atmosfera di disagio generalizzato, sentivamo tutti che eravamo di fronte a qualcosa di nuovo, e dovevamo trovare sistemi, comportamenti, strumenti diversi, sia per la didattica che nella relazione, docente/ alunno. Così iniziammo ad osservare sia gli alunni che le famiglie che chiedevano aiuto e ci rendemmo subito conto che l’intervento per i ragazzi che avevano comportamenti di aggressività a scuola e a casa dovevano comprendere assolutamente un lavoro anche con i loro genitori. Era evidente l’immaturità delle famiglie rispetto alle competenze affettive e alla difficoltà nel gestire i conflitti.
Abbiamo fatto un lavoro di squadra, al quale hanno partecipato gli insegnanti e le famiglie. Nel tempo abbiamo portato modifiche, fatto riflessioni, ma sostanzialmente la metodologia che comprendeva interventi su più fronti, dava risultati.
In seguito ho utilizzato le stesse modalità di lavoro anche in un progetto per ragazzi minorenni entrati nel circuito della devianza; poiché avevano commesso reati. Tale progetto vedeva i ragazzi con “la messa alla prova” impegnati in un percorso di riabilitazione e di ri-educazione;” La scuola della seconda opportunità”, il cui obiettivo era il reinserimento dei ragazzi: nella scuola,per alcuni, e nel mondo del lavoro per altri. Con questi ragazzi ho lavorato sulle dinamiche di gruppo e progettato l’area linguistica.
Dietro le violenze dei giovani non c’è quasi mai un’unica motivazione. Se oggi i ragazzi appaiono più violenti e in età più precoce, escludendo le patologie; per tutti gli altri possiamo pensare piuttosto all’educazione che ricevono e all’ambiente in cui vivono, negli anni formativi della crescita. Penso che sia importante dare ai ragazzi sin da piccoli, validi strumenti, cognitivi, emotivi, culturali,che potranno permettergli un domani di riconoscere l’aggressività come una dimensione normale della psiche, dotata anche di potenzialità positive. Ciò non vuol dire legittimare la distruttività e la violenza; poiché aggressività e distruttività non sono sinonimi, l’una non porta necessariamente all’altra. La distruttività costituisce uno degli esiti possibili dell’aggressività. Ma anche in questo caso si può fare qualcosa per canalizzarla in modo creativo e costruttivo.
Rispetto ai comportamenti violenti, in crescita, fra i ragazzi, è importante un’osservazione sul ruolo educativo. Di fronte alla crisi della relazione educativa, per gli adulti coinvolti si prospettano diverse possibilità: o si ha un atteggiamento di rifiuto e di delega del ruolo educativo, perché non si hanno mezzi, resistenza, capacità di ascolto, parole, per affrontare i conflitti; o si agisce il conflitto per trasformarlo in rabbia, offesa e abuso; o si accetta con coraggio la fatica che comporta l’ educare; trasformando il conflitto in crescita e vivendo la crisi in modo creativo, che apre al nuovo.
Questa terza possibilità è quella che abbiamo fatta nostra nel lavoro di cui vi parlo. Le diverse attività che abbiamo utilizzato sono divenute un metodo preventivo da utilizzare in modo sistematico; per prevenire la violenza; ma soprattutto per la costruzione di relazioni educative significative, che aiutano i ragazzi a crescere fidandosi di noi adulti e di se stessi. In particolare oggi, i ragazzi tendono a realizzare un’educazione orizzontale, tra pari, poiché si fidano poco degli adulti, i quali sembrano avere loro stessi bisogno di aiuto, pieni di incertezze, impauriti dal ruolo educativo, sperano che qualcun altro prenda il loro posto.
Osservando i comportamenti dei ragazzi bulli di cui ci occupavamo erano evidenti oltre all’ arroganza, all’ apparente insensibilità, al totale disinteresse per lo studio; una esplicita, voglia di riconoscimento, di attenzione, insieme a tanta rabbia. Decifrare questi comportamenti,insieme al rifiuto dimostrato nei confronti dei grandi ci sembrava il punto di partenza, da considerare con attenzione per poter capire un fenomeno che sicuramente poteva essere considerato antico per alcuni aspetti; ma nuovo per come si manifestava.
Doveva essere differente la risposta dell’ambiente, che non poteva più ricorrere come una volta ad una disciplina autoritaria: con sottomissione, regole indiscutibili e punizioni anche fisiche. Sicuramente bisognava aiutare i ragazzi a far affiorare in un ambiente protetto, l’indicibile che si cela dietro alle violenze; fatto spesso di paure, ferite, rabbie, inadeguatezze, abbandoni, carenze affettive.
Nei ragazzi che avevano commesso atti di bullismo, si evidenziava un’assenza totale di abilità pro sociali, di riconoscimento e gestione delle emozioni, di resilienza, sensibilità ed empatia. Questo quadro era però riferibile anche ai genitori e spesso agli insegnanti.
Ecco perché il lavoro è stato fatto anche con loro per permettere che tutto il contesto cambiasse rispetto alla comunicazione, al passaggio di emozioni ai valori, all’accoglienza e all’ascolto; assenti nelle relazioni con questi ragazzi. La sfida era riuscire a dare un messaggio educativo: autorevole, significativo, autentico e coerente, in un clima di responsabilità e amore condivisi. Infatti alla base di questi interventi ci deve essere indiscutibilmente la voglia di incontrare l’altro, e la passione di” fare” insieme, in un’ottica di apprendimento reciproco.
Iinee guida del progetto
Avendo assunto come primo e fondamentale punto di partenza nel rilevare i bisogni dei ragazzi, l’assenza di intelligenza emotiva sia loro che dei genitori, si è partiti con un corso di alfabetizzazione socio affettiva, rivolto ai ragazzi,ai genitori, e agli insegnanti.
L’intento di questo lavoro consiste nel creare esperienze di apprendimento attraverso le quali il ragazzo o l’adulto acquisisce consapevolezza dei propri stati emotivi e dei meccanismi cognitivi che li influenzano, per poi applicare tali conoscenze per risolvere i problemi e le difficoltà che incontra nella vita di ogni giorno, acquisendo un comportamento consapevole.
Tale educazione è stata fatta con diverse modalità: approccio informale, lezioni strutturate, integrazione nelle materie curriculari, nei circle time.
Le cause principali delle emozioni non sono gli eventi esterni ma come le guardiamo, cioè ciò che ne pensiamo. Cambiando il modo di pensare, possiamo cambiare il nostro stato d’animo ed essere più efficienti. Passare da un pensiero disfunzionale o illusorio ad un pensiero funzionale.
Si sono organizzate diverse attività mirate al recupero e al consolidamento delle abilità socio affettive. Che spesso non si acquisiscono per mancanza di modelli ed esperienze appropriate vissute in famiglia.
Giochi di ruolo per favorire e consolidare le abilità pro sociali: ascolto, empatia, capacità di cooperare, di aiutare, di condividere, di comunicare, di gestire i conflitti.
Giochi di gruppo per favorire la comunicazione che richiede diverse abilità: ascolto, capacità di leggere il linguaggio del corpo, capacità a gestire le proprie emozioni e distinguerle da quelle dell’altro, saper fare le domande e gestire le risposte.
Problem solving e simulate per potenziare la risoluzione di conflitti e trovare strategie di comportamenti efficaci e utili alla relazione.
Sport di gruppo: per comprendere il lavoro cooperativo, per imparare a condividere la frustrazione delle sconfitte e la gioia delle vincite. Per acquisire la comprensione delle regole e capirne la funzionalità. E’ importante far capire ai ragazzi che non si delega e non si lascia correre quando si verificano episodi di violenza. Bisogna prendersi la responsabilità di dare la giusta attenzione agli atti commessi. Con interventi appropriati e sanzioni condivise,i ragazzi hanno la possibilità di capire e riparare il danno.
Teatro, musica, pittura, scrittura e danza; sono state attività esperienziali utilizzate per favorire l’ espressione di emozioni e il di svelamento di funzionamenti inefficaci alla crescita.
L’ascolto attivo e la risposta riflesso per favorire la comunicazione e insegnare ai ragazzi ad utilizzarli per la comprensione di sé stessi e degli altri, al fine di ottenere comunicazioni efficaci e relazioni costruttive e autentiche.
Didattica individualizzata per tutti quei ragazzi che manifestano aggressività unita a disturbi dell’ apprendimento.
Tutte queste attività se attuate in modo costante e coerente, con tutti i soggetti implicati nella relazione e nei processi di apprendimento,durante tutto l’anno scolastico, e continuato nel tempo, danno risultati sicuri. E’ auspicabile attuare queste modalità di lavoro dalla scuola primaria e continuarle nella secondaria inferiore e superiore. Esse devono divenire un metodo di lavoro che faccia parte del curricolo didattico dei ragazzi; e rappresenti contestualmente un percorso continuo di crescita sia per gli insegnanti che per i genitori.
Dietro le violenze dei giovani non c’è quasi mai un’ unica motivazione. Necessariamente a più motivazioni, vanno date più risposte.