Privacy Policy Cookie Policy

 

Editoriale

di Gaetano Quagliariello e Victor Zaslavsky

 

Questo numero è dedicato prevalentemente al piano Marshall, in occasione del suo sessantesimo anniversario. Sulla circostanza si tornerà alla fine di quest’editoriale anche se sin da ora, per quanto concerne i contenuti degli articoli e le novità storiografiche da essi emerse, si rimanda all’introduzione di Juan Carlos Martinez Oliva che con competenza e passione ha coordinato questa parte monografica.
Prima, però, si vuol suggerire una più complessiva lettura del fascicolo che metta in evidenza come in esso siano analizzati tre specifici episodi della guerra fredda, dei quali il varo del piano Marshall rappresenta un momento cruciale ma non un esordio in senso assoluto. L’articolo scritto a quattro mani dallo storico azero Jamil Hasanli e da Vladislav Zubok – ricostruendo la politica di Stalin verso l’Iran in relazione al problema petrolifero nell’immediato dopoguerra – accende, infatti, i riflettori su quello che a tutti gli effetti deve considerarsi il primo conflitto tra gli alleati occidentali e il regime staliniano, che insieme avevano appena vinto la guerra contro il nazifascismo. Simmetricamente, l’articolo di Mikhail Narinsky riconduce il lettore all’atto finale della guerra fredda e, più specificamente, all’ultimo atto della politica estera del regime sovietico prima del suo crollo finale. Anche in questo caso lo scenario di crisi si colloca nel Golfo. Sono però passati quasi 50 anni, visto che ci si trova negli anni 1990-1991.

Il saggio di Hasanli e Zubok colpisce innanzitutto per la ricchezza della documentazione inedita utilizzata. Oggi, alla relativa chiusura degli archivi di Mosca concernenti la politica estera sovietica, verificatasi nel corso della presidenza Putin, corrisponde la progressiva apertura degli archivi periferici dell’ex impero sovietico. E così Jamil Hasanli, che oltre a essere uno storico è anche un politico, eminente membro del Parlamento dell’Azerbaigian, ha potuto accedere a diversi archivi del periodo sovietico situati nella capitale Baku, incluso quello del Kgb. In essi ha ritrovato una documentazione sorprendente sulla politica che, per quanto concerne il problema petrolifero, Stalin seguì nell’immediato dopoguerra nei confronti dell’Iran. Per convincersi dell’importanza storica e della rilevanza geopolitica del fondo, basterà considerare anche solo il titolo della risoluzione approvata dal politburo sovietico nel luglio 1945: Sulle misure per l’organizzazione del movimento separatista nell’Azerbaigian meridionale e nelle altre province dell’Iran settentrionale. In essa si rintraccia una reiterazione delle aspirazioni territoriali già concepite dall’Urss nel novembre 1940, quando la leadership sovietica rispose positivamente alla proposta avanzata da Hitler a Molotov, nel corso dell’incontro di Berlino, di entrare a far parte del patto tripartito come un partner a pieno titolo. Le condizioni alle quali il governo sovietico sarebbe stato pronto a concludere il «patto delle quattro potenze» indicavano che sarebbero entrati a far parte della zona d’influenza sovietica i territori «a sud da Batumi e Baku, in direzione del Golfo Persico».

Questa aspirazione al controllo del petrolio iraniano va dunque considerata una costante della politica estera staliniana. La direttiva del politburo del 1945, infatti, non solo prevede l’organizzazione del movimento separatista azero ma anche la mobilitazione dei curdi del nord dell’Iran, per coinvolgerli nell’obiettivo di formare una regione autonoma curda. In tal senso, la documentazione segreta riportata da Hasanli e Zubok ci appare come una sorta di manuale per la presa del potere e per la sovietizzazione, che il Cremlino avrebbe in seguito pedissequamente seguito nei paesi dell’Europa orientale.
Per organizzare il movimento separatista, Mosca inviò, infatti, un vecchio «quadro» del Comintern, Mir Jafar Pishevari, rivoluzionario di professione iraniano che per anni aveva lavorato come dirigente nell’Azerbaigian sovietico, assieme a diverse centinaia di agenti dei servizi segreti sovietici.
Venne inoltre inventato dal nulla il Partito comunista, che subito costituì un proprio «esercito popolare», dotato dall’Unione Sovietica di armi di fabbricazione tedesca o inglese. Mosca garantì anche l’approvvigionamento di energia all’Azerbaigian iraniano. I resoconti dei colloqui del primo ministro iraniano Qavam con Stalin e Molotov attestano le pressioni allora esercitate dalla leadership sovietica. Questa, in particolare, cercò di estorcere al leader iraniano le concessioni petrolifere e lo statuto di regione autonoma per l’Azerbaigian iraniano. Molotov e Stalin, a tal fine, minacciarono Qavam di estrometterlo dal potere se le truppe sovietiche avessero dovuto ritirarsi dall’Iran. E tentarono anche di convincerlo ad istituire in Iran un regime repubblicano, promettendogli l’aiuto sovietico nel caso in cui egli avesse realizzato un colpo di Stato contro lo scià.

Qavam si difese con grande astuzia affermando che, in base a una legge del Meijlis, le questioni inerenti alle concessioni petrolifere e all’autonomia dell’Azerbaigian si sarebbero potute risolvere solo dopo il ritiro di tutte le truppe straniere dal territorio iraniano. Promise, di conseguenza, che avrebbe soddisfatto tutte le richieste sovietiche subito dopo tale ritiro. Stalin non si lasciò ingannare ma, d’altro canto, in quel frangente storico non aveva la possibilità di rompere con gli alleati occidentali. Qavam dal canto suo, una volta fatto ritorno a Teheran, su suggerimento degli angloamericani, si rivolse al consiglio di sicurezza che mise all’ordine del giorno della sessione del 25 marzo 1946 la questione iraniana. Nel contempo, il primo ministro iraniano chiese agli occidentali un aiuto concreto, dichiarando che altrimenti sarebbe stato costretto a cedere alle pressioni sovietiche.
Truman rispose all’appello, ma gli argomenti che utilizzò per costringere Stalin al ritiro delle truppe rappresentano a tutt’oggi un «giallo storiografico».

Il presidente americano, infatti, nella sua autobiografia non manca di ricordare di avere allora scritto a Stalin una lettera di un’estrema durezza. E nel 1980, all’indomani dell’invasione sovietica dell’Afghanistan, alcuni politici americani indicarono proprio nei contenuti di quella lettera un modello di fermezza di fronte all’espansionismo sovietico, da reiterare nella nuova temperie. Come dimostrano Hasanli e Zubok, però, il documento non è stato mai ritrovato, né negli archivi americani né in quelli sovietici. E, per di più, la documentazione fin qui consultabile non chiarisce le ragioni che indussero Stalin a riconoscere la sconfitta costringendolo al ritiro immediato, iniziatosi alla fine di marzo del 1946. Così nel dicembre di quell’anno le truppe del governo centrale iraniano poterono riprendere il pieno controllo sull’Azerbaigian. Migliaia di separatisti azeri furono giustiziati, mentre i leader del governo fantoccio dell’Azerbaigian iraniano fuggirono in Unione Sovietica. Pishevari, dal canto suo, sentendosi tradito, scrisse a Stalin una lettera grondante risentimento e rimprovero. Il dittatore georgiano, non abituato ad essere contraddetto, gli rispose con una lunga missiva personale, esempio tipico della fraseologia rivoluzionaria e della dialettica marxista utilizzata per nascondere le mete espansionistiche del regime. Ma poco dopo il suo arrivo in Urss Pishevari morì in circostanze misteriose.
Oggi, mentre il nazionalismo azero e il separatismo curdo stanno sfidando il regime degli ayatollah minacciando l’integrità territoriale dell’Iran, ricordare le origini dell’indipendentismo azero e ricostruire la prima crisi della guerra fredda può tornare di qualche utilità.
Come si è detto, l’articolo di Mikhail Narinsky ci riporta invece all’atto finale della guerra fredda, anch’esso connesso a una crisi del Golfo. Le fonti, in questo caso, sono rappresentate dalle interviste e dai documenti conservati presso l’archivio della Fondazione presieduta da Mikhail Gorbaciov. L’autore ci presenta un’analisi acuta e un quadro vivido di quello che va considerato l’ultimo tentativo da parte del presidente Gorbaciov di preservare un ruolo di superpotenza all’Unione Sovietica, ormai in totale sfacelo. Gorbaciov, al fine di trovare una soluzione politica alla crisi ed evitare l’uso della forza militare proposto dall’amministrazione americana, attivò tutti i canali a sua disposizione: da quelli diplomatici a quelli dei servizi segreti. I suoi sforzi furono però vanificati dall’atteggiamento politicamente ottuso di Saddam Hussein.

Gorbaciov, per offrire agli americani una prova di affidabilità, giunse ad assecondare la proposta dei suoi consiglieri di «passare, in via strettamente confidenziale, alla leadership americana i dati in nostro possesso sul potenziale militare di Saddam, soprattutto riguardo alle armi chimiche e batteriologiche che è pronto ad usare in caso di attacco contro l’Iraq». L’informazione, però, non produsse gli effetti deterrenti desiderati. Confermò, piuttosto, all’amministrazione americana la pericolosità del regime di Hussein, cosicché il 24 febbraio 1991 Bush senior annunciò l’inizio delle operazioni di terra contro l’esercito iracheno. Dopo due giorni, quando le forze armate irachene erano a un passo dalla completa distruzione, il governo di Baghdad si rese disponibile a rispettare tutte le risoluzioni emanate dal consiglio di sicurezza sull’indipendenza del Kuwait. E il 28 febbraio, in un messaggio alla nazione, Bush dichiarò che, in seguito all’impegno assunto dall’Iraq, gli Stati Uniti avevano deciso di cessare le ostilità.
L’articolo di Narinsky fa emergere come Gorbaciov, al fine di imporre una soluzione politica alla crisi, poté contare solo sulla sua immagine di leader riformatore, stimato anche negli Stati Uniti: elemento considerevole ma non sufficiente a rovesciare le realtà geostrategiche. Cosicché nel 1991 la crisi del Golfo e il crollo dell’Urss, conclude Narinsky, determinarono la sostituzione del mondo bipolare con un nuovo ordine mondiale, nel quale potenze e centri di potere locali si sarebbero dovuti adattare a considerare gli Usa come unica superpotenza globale.
Questa conclusione ci rimanda alla parte monografica del presente numero.
Dai saggi che la compongono risulta come il piano Marshall, oltre che per il suo impatto sulla ripresa economica dell’Europa occidentale, fu importante anche per il processo di costruzione europea, in quanto aiutò a promuovere e diffondere in Europa «la cultura della cooperazione economica e del multilateralismo, gettando le basi per le future realizzazioni comunitarie».
Anche per questo il piano Marshall rimane il simbolo della radicale diversità delle esperienze storiche dei 27 membri che oggi compongono l’Unione Europea.

Ogni nuova generazione di europei dovrebbe sapere che tra il 1948 e il 1951 gli Usa fornirono all’Europa occidentale aiuti per un valore di circa 13 miliardi di dollari: una cifra enorme per quel periodo. Mentre tra il 1948 e la morte di Stalin, nel 1953, l’Unione Sovietica si appropriò di beni dei paesi dell’Europa orientale per un valore di circa 14 miliardi di dollari. Questo semplice dato, forse, spiega perché dall’altra parte dell’ex cortina di ferro la conclusione che porta Narinsky a individuare negli Usa l’unica superpotenza dell’era della globalizzazione viene per lo più letta come un dato di fatto con il quale fare laicamente i conti. Mentre da noi è fonte di un insensato sentimento antiamericano.