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Lo scorso 6 Giugno, nella città tedesca di Bonn, si sono svolti i negoziati relativi alla Convenzione quadro dell’Onu sui cambiamenti climatici(UNFCCC). Per l’occasione si sono ritrovati più di 3ooo partecipanti tra delegati governativi, rappresentanti del mondo economico e industriale, associazioni ambientaliste e istituti di ricerca, provenienti da 183 Paesi. Il summit di Bonn, della durata di due settimane, si è concluso il 17 Giugno lasciando a bocca asciutta coloro che si aspettavano un incontro cruciale e fruttuoso, che spianasse la strada alla Conferenza sul clima delle Nazioni Unite previsto a Durban, in Sud Africa, per la fine dell’anno. Sin dai primi giorni infatti, gli incontri si sono svolti tra mille difficoltà procedurali e intoppi di vario tipo.

I media non hanno di certo aiutato a creare attesa e attenzione nei confronti di questo evento, che è stato ampiamente ignorato e scarsamente pubblicizzato. Questo forse, è indice del fatto che la storiella dell’ansia della gente nei confronti delle questioni che riguardano l’ambiente è ormai spendibile solo per le campagne elettorali di chi strumentalizza queste gravi problematiche, per accaparrarsi l’attenzione e il voto della gente più ingenua. Oltre al poco slancio mediatico registrato fin dalle prime ore, il summit di Bonn ha dovuto gestire un altro duro colpo, ovvero la diffusione dei dati dell’International Energy Agency relativi all’aumento delle emissioni di gas serra. Le emissioni di anidride carbonica in particolare, secondo tale rapporto, avrebbero toccato nuovamente livelli preoccupanti.

L’IEA sostiene che l’anno scorso 30,6 gigatonnellate di CO2 siano finite nell’aria, con un aumento di 1,6 gt rispetto al 2009, anno in cui per la prima volta era stata registrata una lieve flessione, (dovuta principalmente alla crisi finanziaria e alla successiva recessione di molte attività industriali). La questione inerente alla responsabilità dei gas serra nell’aumento della temperatura terrestre, uno dei punti principali all’interno delle discussioni del summit, è comunque tutta da dimostrare. Ci si è infatti accaniti arbitrariamente nei confronti dei gas serra e dell’anidride carbonica in particolare, che è uno degli elementi fondamentali per la vita sulla terra, e lo dimostra il fatto che 550 milioni di anni fa, con una concentrazione di anidride carbonica 18 volte più alta di quella attuale, ci fu una esplosione di forme di vita sul nostro pianeta; durante il Giurassico, al tempo dei dinosauri, la concentrazione di CO2 era 9 volte superiore a quella attuale.

Inoltre non è dimostrabile che i cambiamenti climatici in atto (global warming) siano il frutto dell’attività umana. I gas serra infatti sono per il 95,5% di origine naturale e dunque se l’uomo non ci fosse, ci sarebbero appena un 4,5% in meno di gas serra immessi nell’atmosfera. Tra il 1940 e il 1975, anni in cui la concentrazione di gas serra aumentò significativamente, il clima globale addirittura si raffreddò, tanto che l’allarme degli ambientalisti degli anni Settanta era quello di una nuova possibile glaciazione.

Per quanto riguarda il riscaldamento del pianeta, durante la precedente conferenza tenutasi a Cancun, in Messico, la soglia massima di aumento della temperatura dovuta alle concentrazioni di gas serra è stata fissata a 2°C, limite oltre il quale i cambiamenti potrebbero diventare irreversibili. Non si può tuttavia fare a meno di segnalare l’incertezza tuttora esistente su questo punto. Infatti, per quanto esistano studi, ricerche e pubblicazioni scientificamente validi, e per quanto sia comprensibile la preoccupazione in materia ambientale, i dubbi sull’irreversibilità dei cambiamenti sono forti e persistenti. Al momento non esistono cioè né dati certi su quanto il pianeta possa sopportare in termini di concentrazione di emissioni di CO2, né meccanismi per valutare con sicurezza il rapporto quantitativo tra sostanze industriali considerate inquinanti ed effetti sull’ecosistema, né tantomeno metodi per prevedere come lo sviluppo tecnologico modificherà i metodi di produzione. Non esistendo ancora un responso scientifico unanime è molto difficile dunque arrivare ad una decisione seria e definitiva.

Piuttosto che ammettere l’impossibilità di avere certezze su tale argomento, sono in molti a preferire l’allarmismo ingiustificato, e a fare pressione sulle paure della gente, spingendo i leader dei Paesi industrializzati a bruciare tantissime risorse per l’acquisto di tecnologie di produzione di energia rinnovabile, a basso impatto ambientale, che però hanno un impatto molto maggiore sulle casse dello Stato. Bisognerebbe chiedersi quanta parte di amore per l’ambiente contribuisca a sollecitare scelte del genere, o quale sia piuttosto il ruolo degli interessi economici e politici connessi a questo settore. L’eco-catastrofismo e il global warming sono armi pericolose e molto potenti nel fare pressione e giustificare decisioni che andrebbero prese in modo molto più ponderato.

Se è vero infatti, come urlano gli allarmisti che nell’Artico le temperature sono in aumento, dall’altro capo del mondo – nell’Antartico – sono invece in calo. E anche l’aumento ingiustificato registrato al polo nord potrebbe essere facilmente spiegato considerando fenomeni naturali come l’attività della macchie solari o, più semplicemente, ricordando che il nostro pianeta vive periodicamente cicli di raffreddamento e riscaldamento, e quest’ultima fase nello specifico, è iniziata ben 15 mila anni fa, quando di industrializzazione e gas serra non esisteva nemmeno l’ombra.
L’altro importante punto di cui si è discusso a Bonn è la posizione nell’ambito della politica ambientale internazionale dei Paesi in via di sviluppo. Questi infatti sono i principali produttori di emissioni di gas serra derivanti dalla combustione di carbone, vitale per la loro embrionale industrializzazione, che cresce a ritmi molto maggiori rispetto a quella dei Paesi in cui il processo si è già svolto e la situazione si è ormai assestata da tempo. Il problema principale rimane quello relativo alla gestione dell’industrializzazione selvaggia di quei Paesi come le “tigri asiatiche”e i BRIC (Brasile, Russia,India, Cina), massimi rappresentanti in questi anni di un processo di crescita esponenziale, permesso e trainato da legislazioni ambientali e sindacali quasi inesistenti.

Il vertice di Bonn doveva inoltre servire a stabilire le coordinate future del Protocollo di Kyoto dopo la sua scadenza (prevista nel 2012). Anche in questo caso tuttavia, non sono stati raggiunti i risultati sperati. Non esistono infatti al momento linee comuni su come muoversi allo scadere della validità del Protocollo e la stessa Figueres, segretaria esecutica dell’UNFCC, si è dimostrata molto preoccupata in virtù dei tempi eccessivamente ristretti che non consentirebbero, pur volendolo, di creare un nuovo trattato che venga approvato, ratificato dai tre quarti della parti, e considerato giuridicamente vincolante. L’impressione, è quella che convocare conferenze per decidere come preservare la salute del nostro pianeta non serva a nulla, se prima non si raggiunge un accordo tra gli studiosi che ci confermi che il nostro pianeta è effettivamente malato. In attesa di un futuro incerto, e considerando che per il momento la situazione non sembra potersi sbloccare, molti Paesi stanno giustamente prendendo posizioni autonome.

Gli Usa per esempio, che si sono sempre posti a capo del gruppo dei Paesi contrari al protocollo di Kyoto, spingono per la scelta di un accordo basato sull’adesione volontaria e non obbligatoria. Il Canada si è dimostrato nettamente contrario all’idea di un Protocollo 2, in virtù del fatto che il protocollo  attualmente in vigore  vincola solo i Paesi industrializzati a ridurre le proprie emissioni di gas serra rispetto ai livelli registrati nel 1990. È per questo motivo che il Canada, insieme a Russia e Giappone, ha ribadito che non accetterà un suo prolungamento. Al contrario sarebbe favorevole a un accordo ex novo che obblighi anche Cina, India e Brasile a ridurre le emissioni di CO2. Nessuno è disposto a sacrificarsi dunque, se anche gli altri Paesi non faranno le loro rinunce. Si vuole ottenere un atteggiamento comune e condiviso da tutti i Paesi,nessuno escluso.
Sempre in riferimento al Canada, il ministro per l’ambiente ha dichiarato inoltre che ridurre le emissioni del 6% al di sotto dei livelli del 1990, così come promesso in passato, non e’ realistico. Bisognerebbe apprezzare l’onestà dei canadesi che invece di riempirsi la bocca con cifre di fatto irrealizzabili, ammettono i propri limiti, venendo però per questo contestati dagli ambientalisti e da coloro che continuano a far promesse fasulle, giocando su dubbi scenari apocalittici relativi ai cambiamenti ambientali in corso. Si consideri inoltre che anche il Protocollo di Kyoto, celebrato da coloro che ne fanno una mera bandiera politica, piuttosto che un complicato accordo che tenta di porre rimedio all’inquinamento del pianeta, ha le sue pecche e nasconde alcune criticità.

Una inchiesta condotta da Harper’s e firmata da Mark Shapiro ci svela come il protocollo crea un giro di interessi monetari molto consistente, e rappresenta anche un toccasana per gli affari della malavita. Pochi sanno infatti che il protocollo si basa su un concetto molto semplice: i Paesi firmatari hanno un limite massimo per le emissioni dei cosiddetti gas serra, tetto che, in teoria, non possono superare. Tuttavia, nel caso il suddetto tetto venga superato, per rispettarlo si possono comprare i cosiddetti “crediti”, cioè comprare “emissioni” di gas serra da altri Paesi che non arrivano a superare il tetto massimo fissato dal protocollo stesso.

Harper’s ha calcolato che dal 2005, anno in cui è entrato in vigore il protocollo di Kyoto, ci sono state compravendite di carbonio (gas serra) superiori a 300 miliardi di dollari. Visto sotto questo punto di vista, il protocollo di Kyoto non serve a far ridurre le emissioni di gas serra alle aziende inquinanti, ma solo a fargli pagare le emissioni nocive che non si riescono a ridimensionare, generando nel contempo un enorme business basato sui veleni. Inoltre pur osservando meticolosamente quanto previsto dal protocollo, la questione delle emissioni di gas serra, ammesso che siano i reali responsabili dei problemi che attanagliano il nostro pianeta, non si risolverebbe. Senza Kyoto infatti, l’aumento della temperatura previsto nei prossimi 50 anni arriverebbe ad 1°C, applicando il protocollo invece a 0,94° C. Stiamo parlando quindi di una riduzione praticamente inesistente! Il discorso dunque è molto più complesso di quanto possa sembrare.

In una intervista rilasciata pochi giorni dopo il summit di Bonn  al quotidiano tedesco “Tageszeiutung” Yvo de Boer, ex segretario della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sul clima, ha dichiarato che “una convenzione climatica” come quella attuale, “ che non lega Stati Uniti, Russia, Giappone e Canada non ha alcun senso”. Considerando che i restanti Paesi producono appena il 20% delle emissioni globali di CO2, e dunque, pur raggiungendo un accordo che sia approvato e rispettato da tutti questi Paesi, il problema delle emissioni non potrebbe comunque risolversi seriamente,le parole di de Boer hanno effettivamente un senso. Bisogna trovare una strada che metta d’accordo tutti i Paesi, e che non implichi per nessuno dei partecipanti, rinunce eccessive, o eccessivi stravolgimenti per i propri equilibri economico-produttivi.