01 Marzo 2007  

Il federalismo terrorista

Redazione

 

Per definire fenomeni complessi diversi fra loro, spesso usiamo lo stesso termine. E’ il caso dell’espressione “terrorismo” a cui aggiungiamo di solito, ma non sempre, una qualche ulteriore precisazione: islamico, islamista, islamico fascista, fondamentalista. Ora è che realtà del tutto diverse fra loro finiscono nello stesso calderone, perché risponde ad un’esigenza politica, che può trovare giustificazione nella necessità di comunicare concetti complicati ad un largo pubblico e in modo veloce. Ma non è né sufficiente per comprendere i diversi eventi né produttivo per la scelta dei mezzi per combattere efficacemente il nemico che ci affronta. In parole povere l’espressione “lotta al terrorismo internazionale” è vuota da un punto di vista analitico.

La prima contestazione è riguardo al termine “terrorismo”: il terrorismo è un mezzo non un fine, esso equivale a “guerra sottomarina” o a qualsiasi altro strumento militare utilizzato per raggiungere un fine. Dopo più di cent’anni dalla sua apparizione, per “terrorismo” si può intendere una violenza motivata politicamente contro civili non combattenti con l’intenzione di attivare una costrizione attraverso la paura. Ma ciò che stiamo combattendo dopo l’11 settembre è qualcosa di molto più complesso: è un’insorgenza, un movimento popolare che cerca di rovesciare lo status quo mondiale attraverso la sovversione, l’attività politica, l’insurrezione, il conflitto armato e il terrorismo. La “guerra al terrorismo” allora è una guerra difensiva contro un’insorgenza islamista mondiale, un Jihad totale contro l’occidente, dove diversi gruppi e movimenti utilizzano il terrorismo come arma principale ma non l’unica.

L’insorgenza è una strategia olistica con molteplici dimensioni; essa include metodi irregolari di guerra ma anche dimensioni politiche, psicologiche ed anche economiche come era stato ben capito dallo stato maggiore cinese una decina di anni fa in un manuale tradotto anche in italiano. Il nodo centrale da capire è quindi la fonte, la causa del terrorismo cioè l’insorgenza islamica globalizzata. Quindi una strategia appropriata non è composta da azioni di contro-terrorismo, ma esse devono avvenire entro una strategia globale di contro-insorgenza. La seconda conseguenza è che la risposta non può essere che globale e non rimanere circoscritta ad un solo territorio, né essere disegnata una volta per tutte. Questa è la prima novità assoluta sul piano strategico; fino ad oggi le insorgenze, le rivolte, le rivoluzioni avevano radici in determinati singoli stati. Invece il Jihad globale non è limitato ad un territorio particolare.

La seconda novità, anch’essa già notata, è il carattere di network di gruppi tra loro diversi e spesso in conflitto, ma senza comunque una direzione centrale, fatto che rende l’insorgenza islamica profondamente diversa dal movimento comunista, anch’esso con aspirazioni mondiali, ai tempi della Terza Internazionale. I legami che tengono unita questa rete sono i più diversi: sono di tipo ideologico religioso, linguistici e culturali, biografici (storie di guerra condivise: dall’Afghanistan al Kossovo), relazioni familiari dove, come nelle corti europee, i matrimoni servono a rinsaldare alleanze (si veda il matrimonio di Bin Laden con la figlia del leader dei talebani , il Mullah Omar), finanziari attraverso le ong islamiche, i proventi del petrolio, le rimesse degli emigrati e i vari traffici illeciti, oparativi (Al Qaida, l’Iran, la Siria come magazzino di risorse), reti di propaganda e di procedure operative disponibili anche in internet.

Se lo scopo ultimo è il Jihad contro l’occidente, l’assalto al capitalismo materiale, la fase intermedia, che stiamo attraversando, è la costruzione di un nuovo Califfato, di un Grande Medio Oriente, obiettivo per cui sono in lizza sia i sunniti di Al Qaida che i rivoluzionari sciti iraniani. Il palcoscenico non è solo il nostro vicino oriente ma si estende fino ai mussulmani cinesi, alle Filippine, alla Malesia, passando per la Cecenia ed il Pakistan. Il Jihad globale è chiaramente un’insorgenza, un movimento popolare che cerca di cambiare lo status quo, l’intero mondo islamico nella sua relazione con l’occidente attraverso la sovversione e la violenza. L’obiettivo è chiaro: provocare uno scontro catastrofico, come aveva visto Huntington, ma diversi sono però i teatri, i paesi, tutti con storie particolari. Davanti non abbiamo un blocco monolitico, o due blocchi antagonisti diretti da Al Qaida o dall’Iran. Il fenomeno jihadista non è immediatamente riconducibile a modelli occidentali – movimenti di massa, organizzazioni gerarchiche o aziendali; come hanno notato islamismi anglosassoni, da Karl Jackson a Bernard Lewis, il rapporto che lega i membri dei differenti network è di patronage, un rapporto che unisce il più debole verso il più forte che gli garantisce protezione e sicurezza economica. Si ha così un risultato di network di dipendenza dove si incrociano i diversi rapporti.

Il risultato è qualche cosa di assolutamente nuovo: la guerra santa islamista è una sorta di stato federale virtuale che va affrontato avendo ben chiaro che la politica deve comprendere la novità e considerare l’attività militare come uno dei mezzi, necessari, ma non sufficienti. Una strategia completa si deve muovere su tutti e tre i piani geopolitica del conflitto, da quello locale a quello regionale a quello globale e per di più deve adattarsi ad ogni situazione particolare sapendo articolare e adattare con intelligenza i tre elementi centrali di ogni guerra del tipo contro-insorgenza e cioè: pacificare un territorio, conquistare le menti e i cuori, tagliare fuori i santuari e gli sponsor esterni. E questo compito deve essere svolto a livello globale!

L’unica certezza è che il Jihad come dimostra il Libano, Gaza, lo stesso Iraq e l’Afghanistan non possono offrire alla popolazione i beni essenziali di uno stato: protezione, stabilità e prosperità economica. Questi sono i punti deboli dell’islamismo, mentre a suo favore gioca la capacità continua di adattamento degli insorgenti e l’impazienza dell’America, dello stato cioè che dispone della forza, e la debolezza, se non l’acquiescenza, dell’Europa. Frattura, o crisi di legittimità, che porta gli Usa alla ricerca del colpo definitivo, e quindi a sbagliare, data anche l’impreparazione, sia culturale che militare, a condurre guerre anti insorgenza prolungate. Non è un caso che la dottrina strategica americana sia tutta centrata sui metodi operativi piuttosto che sulla strategia, cioè che sia più facile concepire un “modo di combattere le battaglie” che un “modo di condurre le guerre”.
Ma come ricorda Sun Tzu, “in una guerra è di suprema importanza attaccare la strategia del nemico”.