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Nel suo “Odio il lunedì”, prima che l’immane tragedia dell’Abruzzo ci inducesse a ben più tristi pensieri, Gaetano Quagliariello ha invitato un po’ tutti a riflettere sul processo di formazione del PdL, e ad arricchirne le fondamenta avendo ben presente che il risultato conseguito a livello politico necessitava di ulteriori riflessioni di carattere culturale. L’esigenza di consolidare anche a livello politico-culturale un processo politico che già è parte integrante della nostra storia recente mi sembra, più che doverosa, necessaria. Affinché sia duraturo, ogni processo politico ha infatti bisogno di un fondamento culturale solido e capace di durare nel tempo. Per quanto sia trascorso soltanto poco più di un anno da che Berlusconi lo ha lanciato con la solita lungimiranza, la situazione è infatti cambiata. Tant’è che oggi dobbiamo misurarci con una serie di problemi che allora non si erano ancora posti con la drammaticità con cui oggi li viviamo.

La fusione tra due partiti con caratteristiche così diverse non era facile, ma i risultati, anche perché hanno recepito una aspettativa unitaria fortemente sentita e radicata nell’elettorato, mi sembra siano superiori alle aspettative iniziali. E ciò è diventato evidente quando, come Quagliariello sottolinea, ci si è accorti che, sia a livello di rappresentanza parlamentare e di ceto politico, sia a livello di intellettuali d’area, i motivi per stare insieme ed intraprendere una nuova stagione politica, erano più forti di quanto ci si sarebbe potuto aspettare.

Le differenze tuttavia esistono, e consistono in diversità di approcci a questioni nuove, e in una certa misura impreviste, riguardo alle quali nessuna delle varie anime culturali di Fi e di An aveva risposte pronte. Basti pensare alle recenti metamorfosi di Fini il quale sembra essersi spostato su una prospettiva liberal muovendo da una cultura giovanile che col liberalismo, sia pure inteso in maniera ampia o generica, aveva poco a che fare. La si condivida o meno, quella trasformazione può essere un esempio per tutti: le circostanze di fronte alle quali può metterci la politica son tante e talmente imprevedibili che arroccarsi sulle vecchie e consolidate certezze può non servire a nulla. Per non dire che arroccarsi su un passato trasformato in mito può essere tanto dannoso da condannare all’irrilevanza politica. Ma se questo è vero, è altrettanto vero che quei cambiamenti, quel frenetico emergere di novità riducono, e di molto, la progettualità politica.

Noi tutti, di fronte a ciò che è avvenuto in questi ultimi mesi, credo abbiamo avuto la sensazione che la politica sia in balia di avvenimenti che solo in parte potevano essere interpretati come risultati di suoi errori di valutazione. Più spesso abbiamo avuto la sensazione che la politica, anche quando animata dalle migliori e più lungimiranti intenzioni, arrancasse dietro dinamiche la cui gestione sfuggiva alle sue reali possibilità. Se c’è qualcosa che la crisi può insegnare è che quelle dinamiche ormai sfuggono al controllo degli stati nazionali. Non c’è scienza politica, dottrina costituzionale o politica economica che può contenerle. Le aspettative individuali e sociali si formano in contesti non delimitati territorialmente, ma si riversano, col loro carico di problemi, su stati nazionali che non riescono a gestirle. Tutte le ideologie politiche ereditate dal XX secolo si erano infatti modellate su modelli di stati nazionali che improvvisamente sono apparsi inutilizzabili. La crisi globale, che non è una crisi del mercato perché il mercato non è che l’adeguarsi a situazioni e ad aspettative che cambiano, non può essere fronteggiata, e ce ne siamo resi conto, con un ritorno a ‘politiche nazionali’. Anche quando le si ammanta con etichette, in qualche misura suadenti, come quella dell’”economia sociale di mercato”. Il fatto è che la gestione della crisi richiede il possesso di una conoscenza che nessun politico ha, o può avere. In questo modo, più che come progettualità, la politica si ridimensiona in un insieme di misure tendenti a ridurre l’incertezza. E non è affatto detto sia un male. Soprattutto per un liberale. Ma questo cambia radicalmente tutto perché mette in discussione la sua capacità di amalgamare le aspettative individuali e sociali e di dar loro risposte tempestive.

Quando Berlusconi dice che la politica ha tempi decisionali troppo lenti rispetto alle situazioni con cui deve confrontarsi, ha ancora una volta ragione. E la reazione di chi lo ha criticato per tali apparentemente “avventate” affermazioni, non è che una conferma del fatto che la vera battaglia politica e culturale del futuro sarà tra chi ancora crede che la politica debba e possa dirigere il cambiamento e chi invece è convinto che debba fronteggiare, nel migliore dei modi possibili, situazioni che ormai sfuggono al suo potere di controllo.

Certamente, come scrive Quagliariello, la “riscoperta non ideologica di senso” e la “valorizzazione del proprio trascorso” sono risorse culturali prima che politiche che nessuno statista assennato può permettersi di gettare alle ortiche. Ma dubito possano bastare. Certamente non si deve commettere l’errore di scambiare la crisi attuale con una crisi irreversibile del modello liberal-democratico fondato sull’economia di mercato. Certamente quell’allontanamento dalla pratica religiosa che può anche essere definito ‘secolarizzazione’ pone problemi nuovi come quello della diversità d’approccio alle questioni etiche connesse alla biopolitica. Ma pensare che tutti questi problemi possano essere se non risolti, per lo meno affrontati, riscoprendo le nostre comuni radici culturali e religiose significa ancora una volta investire la politica di compiti, e di responsabilità, che non è più in grado di assolvere con successo.

Certamente viviamo un momento di ritorno alla religione, ma viviamo anche un momento di distacco dalle religioni, e sottovalutare la conflittualità a cui ciò può dar vita è un atto di pericolosa miopia politica. I cittadini non religiosi, secolarizzati o inconsciamente appartenenti ad un pericoloso ‘ateismo di massa’, mantengono i loro diritti civili e politici, e sarebbe un tragico errore cercare di convertirli o di imporre loro un’etica che ormai non sentono più come propria. Per questo non bisogna dimenticare che quella secondo la quale i diritti affondano in princìpi etici preesistenti non è che una delle possibili interpretazione della genesi di quei diritti, ma che ne esistono altre e che ogni interpretazione ha delle conseguenze sui comportamenti, sulle credenze e sulle aspettative politiche. In breve, l’ipotesi di tornare indietro è tanto suggestiva ed irrealistica quanto quella di pensare di risolvere tutti questi problemi con mezzi politici. La giusta e doverosa esigenza di riflettere sugli errori del passato non può essere lo strumento per cercare di individuare il momento in cui si è sbagliato.

Correggere gli errori è umano, pensare di non farne più è semplicemente esercizio di un velleitarismo che può portare ad un discredito della politica ben maggiore di quello che stiamo sperimentando. Il che non significa affatto che sia giunto il momento di relegare l’esperienza del passato nel vuoto della memoria, ma che lo studio del passato può essere d’aiuto per capire che, per quanto infondate o irrealistiche, le aspettative non possono essere dominate dalla politica. Essa, semplicemente, se li trova davanti trasformate in titolari di diritto di voto.

Il futuro del nuovo partito dipenderà in buona misura proprio dalla sua capacità di fronteggiare novità che non può prevedere perché dipendenti da talora casuali assemblaggi di conoscenze e di aspettative che sempre meno hanno origine dalla politica. Ed è per questo che, nonostante possa sembrare paradossale, il compito della componente culturale del PdL sarebbe opportuno consistesse nella riflessione su un’idea di “buona società” nella quale la politica è soltanto una delle componenti. Non carichiamola quindi di eccessivi compiti e di altrettanto eccessive responsabilità; l’idea che dai politici possa emergere una nuova filosofia politica o una nuova scienza economica è semplicemente irrealistica. Non ci son dubbi che molti statisti abbiano dato grandi contributi al pensiero politico, ma non ancora alla filosofia o all’economia politica.

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