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Gli anni’80 del secolo scorso sono stati segnati dalla crisi finale e dal crollo del comunismo. A questo evento epocale concorsero diversi fattori tra cui l’approfondimento della crisi economica dovuta alla nuova competizione globale; la crescente effervescenza delle coscienze civili sempre meno riassorbibile all’interno del modello comunista; i mutamenti radicali nella leadership sovietica attuati da Gorbaciov; la definitiva delegittimazione del potere comunista.

Le caute liberalizzazioni da parte regimi comunisti negli anni ‘60 e ’70 innescarono un processo di moltiplicazione di domanda di libertà che gli stessi, dopo l’ascesa al potere di Gorbaciov in URSS, non furono più in grado di gestire e controllare. In tempi e con modalità differenti le società comuniste passarono da una fase di adattamento ai nuovi spazi concessi ad una fase di opposizione al sistema vera e propria. Questo passaggio si verificò prima in Polonia, durante il biennio di Solidarnosc, poi in Ungheria e Cecoslovacchia, a partire dalla seconda metà degli anni ’80; negli altri paesi il passaggio all’adattamento e quindi all’opposizione fu un processo radicale e rapido che si manifestò solo alla vigilia del crollo dell’89.

Il fallimento del regime comunista si manifestò quindi, prima nei paesi dell’Europa centro orientale (Polonia, Ungheria, Cecoslovacchia, DDR) proprio là dove la nascita del comunismo non fu il prodotto di una rivoluzione sociale o politica interna, ma il risultato di una dominazione straniera, quella sovietica, seguita alla Seconda guerra mondiale. Al contrario, in URSS e nei paesi balcanici i tratti totalitari durarono più a lungo, pur essendo stata la Jugoslavia di Tito svincolata dalle logiche politiche del blocco comunista. In modi e tempi differenti i Paesi più avanzati dell’Europa centrale, nel periodo comunista, alle prese con ricorrenti cicli di liberalizzazione – crisi – repressione, ristrutturarono i loro sistemi politici in un pluralismo limitato e controllato dal regime.

La lenta transizione fu il risultato di un compromesso tra il potere comunista e gli strati della popolazione che, attraverso la Resistenza, passiva e qualche volta esplicita, avevano rifiutato la completa integrazione e assimilazione nella società comunista. In URSS e in alcuni Paesi balcanici (Romania, Bulgaria e Albania) invece, il potere comunista mantenne un ferreo controllo repressivo su società civili piuttosto deboli e il compromesso non venne mai ricercato, impedendo così la manifestazione del pluralismo limitato e l’eliminazione dei tratti totalitari e personalistici. In altri Paesi (Asia centrale, periferia europea dell’impero sovietico e Paesi Balcanici) certamente più arretrati e senza precedenti esperienze democratiche, si realizzano transizioni difficoltose che danno vita a sistemi sociali ibridi, nel senso che la costruzione democratica e capitalistica appare imperfetta o del tutto assente.

La transizione è soltanto nominale e prende le forme di un sistema neocomunista a cui si aggiungono aspetti fortemente nazionalistici. In Jugoslavia, in particolare, la Federazione, durante il regime comunista, era costituita da 6 Repubbliche, di cui una la Serbia con due provincie autonome, il Kosovo e la Vojvodina.

La Jugoslavia era un paese formatosi in un contesto di aperta e complessa conflittualità e il partito comunista, pur mantenendo la leadership del sistema politico sociale di Tito, cercò di creare uno stato che si adattasse alle profonde differenze etniche, religiose, ed economiche che esistevano non solo all’interno delle singole repubbliche, ma anche tra le diverse regioni. Negli anni ’50 e ’60 del secolo scorso il partito comunista varò un modello di stato che lasciasse un margine ampio alle autonomie locali. Modello questo che fu definitivamente ratificato dalla Costituzione.

Ai singoli stati venne riconosciuta una propria giurisdizione, una notevole indipendenza economica, perfino un’ organizzazione militare che di fatto operava su base locale. Ciò che esprimeva l’unità era l’esercito regolare che rappresentò l’asse di supporto della Federazione: le più alte cariche erano ricoperte da esponenti che a turno rappresentavano tutte le repubbliche. Nell’epoca di Tito l’esercito si era distinto per la fedeltà al regime, pronto a difendere l’unità federale. Agli inizi degli anni ’60 si verificò una timida apertura del sistema economico jugoslavo al libero mercato, prontamente rientrata per la mancanza di una classe imprenditoriale. Tale liberalizzazione, avversata soprattutto dalla burocrazia serba del partito trova adepti in Croazia e in Slovenia, contagiati in misura maggiore dal vento europeo e per questo da sempre alla ricerca di una maggiore autonomia.

Nel 1971 la “primavera croata” è soffocata dalle forze armate guidate dallo stesso Tito. L’anno successivo, nel 1972, tocca al partito serbo. La presa di posizione di Tito chiude le porte ai teorici del nuovo corso. La corrente liberale del locale partito cade in disgrazia: è fallito il tentativo di far coesistere un sistema politico mono-partitico con un sistema economico liberale. Una combinazione che era stata pomposamente chiamata “la via jugoslava”. Ma la crisi economica continua anche se tamponata dagli ingenti prestiti che Tito riesce a fare affluire nel Paese. La questione sembra rimandata al momento in cui Tito sparirà dalla scena. La situazione economica era però devastata con una inflazione in continua crescita.

I debiti che il maresciallo aveva contratto all’estero avevano permesso al Paese di vivere al di sopra delle proprie possibilità. Le istanze localistiche in materia di liberalizzazione avrebbero forse potuto alleviare il problema dei nascenti nazionalismi; invece Tito aveva preferito mantenere una linea rigida reprimendo tutte le forme di dissenso pure parziale. Ma l’illusione che il sistema potesse sopravvivere durò pochi anni, compressa dai problemi che un potere centrale reso meno forte dal sistema a rotazione ideato per la successione, non ha saputo contrastare. Diversi fattori hanno concorso a sgretolare il puzzle jugoslavo: la forte crisi economica, la rinascita di fortissimi sentimenti nazionalistici nelle repubbliche, la pressione degli altri stati, tra cui quelli confinanti, portatori di evidenti mire annessionistiche.

A fronte di queste incertezze, la situazione politico-economica andò costantemente peggiorando. L’inflazione toccò punti stratosferici; sarebbero stati necessari provvedimenti drastici, ma dopo la morte di Tito era presente una governance debole e instabile. A questo quadro drammatico si sarebbe potuto opporre una politica di assistenza internazionale, ma gli Stati Uniti, il 5 novembre del 1990 tagliarono ogni aiuto alla Jugoslavia. Le conseguenze furono devastanti, al punto che la CIA, in virtù di questo provvedimento, profetizzò il dissesto violento della Federazione entro un anno. L’unica prospettiva evidente, in risposta alla devastante crisi sociale, era inevitabilmente l’intervento dell’esercito per sedare le immancabili rivolte.

Un esercito costituito per il 60 % da serbi, sentito quindi come espressione degli interessi di una etnia a scapito delle altre, un esercito diffuso capillarmente e localmente che aveva contribuito a portare “un’arma in ogni casa”. Ciò diede un ulteriore spinta verso l’inasprirsi dei nazionalismi. Un ulteriore incremento all’esplosione delle correnti centrifughe lo diede il “sistema delle deleghe”, costituito dai delegati locali rappresentativi degli interessi dei cittadini dei livelli più bassi a quelli più alti della pubblica amministrazione. In assenza di un potere centrale forte proprio le figure dei delegati divennero fondamentali alla diffusione dei sentimenti nazionalistici.

Motivi economici si fusero con quelli etnici, rivendicazioni nazionaliste si mescolarono a vecchie rivalità, a odi mai sopiti. E la storia tornò ad incendiare la regione balcanica. Nel 1989 la Slovenia vota il diritto all’autodeterminazione. Il dado è tratto, anche la Croazia dichiara l’indipendenza in coincidenza con quella slovena. Il riconoscimento delle due Repubbliche balcaniche avvenne nel 1992, dopo un tentativo di Milosevic ( Serbia) di fare intervenire l’esercito. Questo atto incoraggiò le forze secessioniste delle altre regioni federali, prima fra tutte l’eterogenea Bosnia. I serbi invasero alcune parti del Paese al fine di preservare l’unità federale.

Nel biennio ‘93/’95 le forze americane, dopo aver appoggiato la Bosnia contro i Serbi, ma anche contro i Croati e i musulmani oppositori, cominciarono a premere per un riavvicinamento dei Bosniaci musulmani con i Croati , nonostante i feroci combattimenti. Nell’agosto del ’95 con l’offensiva della Nato furono cacciati dalla Bosnia 300.000 serbi, ne furono giustiziati 14.000 e i villaggi serbo-bosniaci rasi al suolo. Con l’attentato a Sarajevo del 28 agosto,le incursioni aeree della Nato causarono 27 vittime e circa 100.000 serbi furono fatti sfollare sotto la minaccia della pulizia etnica. Storie di miseria, disperazione, di morte.

Il 28 dicembre il Presidente americano B. Clinton revocava le sanzioni statunitensi più volte minacciate di essere riprese nell’anno successivo contro Milosevic, per aumentare l’opposizione interna al Presidente serbo.

La guerra si concluse con la firma degli accordi di Dayton il 14 dicembre 1995 con la formazione della Republika Srpska, come entità giuridica in Bosnia Erzegovina. Dopo l’accordo, tuttavia la situazione rimase precaria, in quanto l’equilibrio interetnico, precedente il conflitto, non è mai stato ricreato. Le comunità serbe-croate già indipendenti che aspiravano ad ottenere, attraverso la guerra, la ridefinizione delle frontiere e la formazione di stati etnicamente puri, non hanno accettato l’idea di una Bosnia- Erzegovina multietnica, come dimostra la preesistenza al potere di governi nazionalisti. Ecco il fallimento degli obiettivi di pacificazione e democratizzazione.

Tali nodi irrisolti riemersero pochi anni dopo con lo scontro tra albanesi e serbi in Kosovo, con l’intervento della Nato contro la Serbia (1999). Questo intervento mise fine al regime oppressivo imposto agli albanesi da Milosevic, ma non influì positivamente sulla convivenza delle comunità albanese e serba in territorio kosovaro. Il conflitto si estese all’inizio del 2001 anche in Macedonia, con scontro tra Albanesi e forze di sicurezza macedoni, con la rivendicazione degli albanesi di rappresentare uno dei popoli fondatori della Macedonia, pur essendo una minoranza. Gli slavi macedoni temono, invece, che dietro queste richieste di diritti civili e politici si nasconda il progetto di creare una “Grande Albania”, estesa fino al Kosovo, inglobando regioni di Serbia, Montenegro e Macedonia.

Per i serbi il Kosovo è il cuore della Serbia ortodossa, per gli albanesi, prevalentemente musulmani, è il luogo di risveglio nazionale albanese. La reazione della comunità internazionale di fronte alla crisi in Kosovo portò alla soluzione militare da parte della Nato e quindi alla nascita di un protettorato internazionale, esercitato dal UNMIK e dalla KFOR , e quindi al passaggio nel 2001 ad una autorità politica auto-amministrata. Permangono ferme la visione serba, in favore del mantenimento della Federazione, e quella albanese, in favore dell’indipendenza. Questo decennio di conflitti ha inciso pesantemente anche sul panorama economico e sociale della regione balcanica: infrastrutture gravemente danneggiate, economie devastate, danni ambientali irreparabili, impianti industriali distrutti.

L’esistenza di territori di incerta sovranità e la deriva politica ed economica di Belgrado hanno provocato una destabilizzazione permanente. Tutto ciò crea un vuoto di sicurezza e di potere che rischia di essere colmato dalle mafie e dai traffici illeciti. Comunque, nuovi aspetti rassicuranti di rottura con tale situazione sembrano profilarsi: il processo a Milosevic, da parte del Tribunale penale internazionale per l’accusa di genocidio, il reinserimento della Serbia, nella strategia di ricostruzione della regione balcanica e soprattutto il ruolo degli attori esterni, in particolare Unione europea nella creazione di una nuova rete di cooperazione interbalcanica, volano per un processo di integrazione democratica.

L’Unione europea, all’azione umanitaria nei momenti delle guerre, ha fatto seguire un’azione di ricostruzione, di riattivazione delle attività sanitarie, educative, culturali, sociali ed economiche per favorire la ripresa, in un Paese parcellizzato e in pieno collasso di tutte le istituzioni , e  per riallacciare il  dialogo interetnico e religioso ,spezzatosi con le guerre. E’ seguita anche un’ azione di stimolo a nuovi processi di integrazione politica tra realtà sociali ed istituzionali chiuse nel proprio nazionalismo e a stabilire legami con altre realtà balcaniche ed europee. Si tratta di costruire allora un processo di rapida “integrazione certa, sostenibile e dal basso dei Balcani nell’Ue”, la c.d. “globalizzazione dal basso” dei Balcani.

Il quadro  socio-economico post-guerra. Già dopo il 1995 l’intervento internazionale contribuì ad avvicinare i Paesi balcanici all’Unione europea, sostenendo il difficile cammino della transizione alla democrazia, che rappresenta l’obiettivo fondamentale delle popolazioni balcaniche. La strada verso la democrazia ed il libero mercato si rivelò più accidentata del previsto. Le ragioni di questa democratizzazione imperfetta  dipesero da diversi fattori: l’intensità della crisi economica, ma soprattutto il grado di radicalizzazione dei conflitti etnici e nazionalistici,come abbiamo illustrato. La conseguente instabilità politico-istituzionale sollecitata e creata dai localismi esasperati generò una sorta di paralisi che determinò una situazione paradossale: da un lato venne mantenuto in vita il vecchio apparato produttivo totalitarista assolutamente inefficiente; dall’altro si avviò una corsa al capitalismo selvaggio e primitivo ,senza regole che generò enormi disparità e nuove povertà.

Nel decennio appena passato, le ex Repubbliche hanno conosciuto, ognuna in forme e misure diverse, gli effetti devastanti dell’avvio della transizione al capitalismo e al processo democratico, della disintegrazione dell’Unione, del passaggio attraverso una lunga esperienza di conflitto ad una complessa fase di riabilitazione e sviluppo,imperniata su una serie di riforme strutturali del quadro istituzionale ed economico. Dal 2001/02 i Balcani hanno registrato una progressiva e graduale crescita dell’economia ed, al contempo, una riduzione significativa del tasso di inflazione. Il proseguimento del processo di stabilizzazione e di riforma nella regione ha generato un sostanziale miglioramento del clima economico.

Tuttavia rimangono ancora importanti sfide da risolvere quali, ad esempio, la lotta contro la corruzione, il completamento del processo di privatizzazione e la riforma del settore pubblico. La regione degli West Balkans comprende un territorio di dimensioni economiche relativamente basse: la Croazia è il Paese più importante in termini economici, con un Pil di oltre 22 miliardi di euro. Il Pil dell’intera regione raggiunge i 50 mld  di €,  pari a circa lo 0,6 % del Pil dell’Ue. Il Pil pro capite nella regione, secondo l’attuale tasso di cambio nominale, è pari a circa 1.800 €, con una grande differenza tra il Pil pro-capite in Croazia ed il resto degli altri stati balcanici.

Successivamente alla crisi del Kosovo del 1999 ,la regione dei Balcani occidentali ha continuato a crescere del 4 %, nonostante il rallentamento dell’economia mondiale. Tuttavia è necessario premettere che non tutti i Paesi hanno registrato uguale andamento, al contrario i tassi di crescita hanno mostrato significative differenze: il Kosovo ha registrato il più alto tasso di crescita del reale (11%), seguito da Albania (6.5%),  RFI (5.5%) e FYROM (4.1%). Si è avuta inoltre una sensibile riduzione dell’inflazione: negli ultimi anni Albania, Bosnia Erzegovina, Croazia e FYROM hanno mantenuto un livello costante del 2.9%. Il commercio internazionale, nel complesso, non è stato interessato dalla recessione globale.

Le esportazioni e le importazioni hanno registrato un andamento positivo e in crescita progressiva ,tuttavia la crescita delle importazioni ha superato la crescita delle esportazioni , causando un progressivo peggioramento del saldo commerciale della regione balcanica. Nel 2001 gli investimenti esteri nella regione hanno raggiunto una cifra pari a 2,5 miliardi di euro, pari al doppio del 1998. Tuttavia la media flussi di IDE, insieme ai flussi dei capitali privati, sono ancora insufficienti per finanziare il deficit delle partite correnti. Così la maggior parte dei paesi – ad eccezione della Croazia – continua a contare sull’assistenza finanziaria dell’Unione Europea. I recenti sviluppi positivi politici ed istituzionali hanno gettato le basi per attrarre capitale straniero nei Balcani occidentali.

Inoltre,il ripristino graduale della pace e la della sicurezza e il processo di integrazione della regione nell’U.E. ,attraverso il Processo di Stabilizzazione e di Associazione ,hanno notevolmente migliorato le prospettive politiche ed economiche della regione. I paesi balcanici occidentali hanno compiuto importanti progressi nella riforma delle loro economie ,in particolare nel settore della privatizzazione delle imprese di piccole e medie dimensioni, e nella liberalizzazione del commercio. Questi progressi nel settore economico hanno necessità di essere supportati da ulteriori riforme politico-istituzionali riguardanti il pieno rispetto della democrazia, dello stato di diritto,dei diritti umani,delle minoranze, (criteri di Copenhagen del Consiglio Europeo del ’93), la lotta contro la corruzione e le organizzazioni criminali, mali comuni dei paesi balcanici,con la creazione di efficienti infrastrutture e più in generale, con la creazione di un ambiente più favorevole all’impresa.

A ciò si aggiunga la necessità di portare a termine il processo di privatizzazione e la creazione di efficienti mercati finanziari che in molti paesi sono ancora allo stato embrionale. Allo stato attuale, gli stati balcanici si trovano, ancora, ad affrontare e risolvere la pesante eredità derivante dalla recente guerra dei Balcani, associata alla cattiva gestione del settore amministrativo e del bilancio pubblico,e dall’accumulo dei debiti arretrati dell’era comunista.  La pressione fiscale e il rapporto spese/PIL varia notevolmente nei vari stati. Il deficit di bilancio è pari al 6%del PIL(media). Ma i dati forniti devono essere presi con cautela,in particolare quelli della RFI dove fino al 2000una quota rilevante della spesa pubblica non è stata registrata. In Bosnia-Erzegovina l’ammontare delle spese rappresenta ancora il 58,6% del Pil.

Ciò è dovuto ad una serie di fattori:il pesante onere della gestione  della Federazione e della Republika Srpska , dei Cantoni e dei Comuni, per gli elevati oneri salariali,la quota ancora grande dell’esercito e in generale , per la spesa imponente degli oneri sociali. Tuttavia, nel biennio 2000-2001, la regione ha realizzato un significativo consolidamento fiscale e una diminuzione della spesa pubblica sul fronte pensionistico e degli investimenti che hanno portato ad una diminuzione del deficit dal 20% del 2000 al 14,5% del 20001 fino all’11,6% del 2002.

In Croazia, pur con una riduzione consistente della spesa pubblica amministrativa pari al 5% del PIL (1999-2001), ed il blocco dei salari,il deficit di bilancio è diminuito con ritmo più lento,con previsione di riduzione del deficit pari al 4,3 del PIL ,in linea con il programma del FMI. Sul lato opposto l’Albania, e in qualche misura la FYROM, hanno un basso rapporto spese/Pil, rispettivamente pari al 32,2% e 36,6% , ma l’Albania dispone di un sistema fiscale più basso rispetto agli altri paesi,registrando tuttavia dal 1999 al 2002 un miglioramento delle entrate fiscali pari al 3% del PIL. Anche il Kosovo, pur disponendo di un sistema fiscale debole, ha registrato un aumento, dal 2000 al 2002, delle entrate fiscali del 10% del PIL.

Questo drastico aggiustamento del sistema fiscale ha comportato una diminuzione del disavanzo pari al 1,3% del PIL. Nella FYROM un improvviso aumento delle spese militari  per conflitti etnici,nel 2001, ha portato ad un aumento del deficit pari al6,2% del PIL. Questa situazione molto differenziata ha conseguenze molto importanti:mentre tutti i paesi della regione balcanica presentano deficit  significativi (dal 3,4-11% del PIL,nel 20002 prima delle borse di studio), le strategie fiscali devono essere prese su misura,tenendo conto di ogni situazione specifica del paese. Il processo di consolidamento in Albania e Kosovo continuerà ad richiedere un ulteriore rafforzamento della base imponibile e delle entrate in generale,mentre paesi, come la Croazia, la Bosnia-Erzegovina e la RFI, potranno aumentare ulteriormente la pressione fiscale: in questi paesi, l’attenzione sarà rivolta soprattutto alla spesa, alle riforme strutturali della pubblica amministrazione  e di quella fiscale, ereditata dall’era socialista, e alle riforme sul lato delle risorse.

L’eliminazione dei fondi extra-bilancio del precedente periodo, con il trasferimento ai sistemi centrali del Tesoro (come da raccomandazione del FMI e World Banca Internazionale), costituiti dal fondo pensione,dal fondo di assicurazione sanitaria, dal Fondo per l’occupazione e dal Fondo nazionale e regionale Road,è questione cruciale per garantire una sostenibilità fiscale. Sistemi del tesoro sono stati già introdotti in Albania e Croazia.,e così pure dal 20002 in Bosnia-Erzegovina, dal 2003 in Serbia è stata completata la sezione della contabile Centrale Division presso il Ministero delle Finanze,nel 2004  in Montenegro il Nucleo funzioni del Tesoro è diventato operativo.

Nel complesso quasi tutti i paesi della regione presentano un sistema amministrativo distante dagli standard europei: ad eccezione della Croazia, i governi non sono ancora in grado di avvicinarsi all’acquis communautaire, il complesso di norme Ue a cui i paesi aderenti sono allineati. Se la stabilizzazione istituzionale dei Balcani, dopo le guerre degli anni ’90, è ancora da compiersi, e il processo di transizione economica è lento, ancora più difficile appare il processo di promozione della società civile. Nei Balcani, le società sono ancora ampiamente organizzate attorno all’appartenenza etnica e autorità politiche locali sono in gran parte le stesse che sono state coinvolte nelle varie guerre che si sono succedute. La recente dissoluzione dell’ex Jugoslavia ha coinvolto direttamente  anche la società italiana, mobilitando un gran numero di associazioni di solidarietà ed organizzazioni non governative (ong).

Si sono realizzate centinaia di iniziative in una crescente azione di cooperazione decentrata delle autonomie locali, dalle iniziative di carattere sociale a quelle operanti allo sviluppo economico. Sono nate le reti, ovvero coordinamenti tra città, associazioni, tra soggetti dei territori, intercomunali, interprovinciali, transnazionali miste, di matrice sindacale e legate al sistema per la pace. Si tratta di operare per l’integrazione politica di quei popoli a forte valenza nazionalistica, per una grande contaminazione culturale che aiuti a ripensare al concetto di stato, la cui crisi sta alla base della guerra della ex – Jugoslavia. E’ pronta per essere lanciata la campagna “Europe from below”, affinché si crei un network di organizzazioni europee impegnate, attraverso la cooperazione, la collaborazione e il dialogo, a costruire “dal basso” una rete di organizzazioni della comunità civile e locale e di facilitare  la creazione di rapporti fiduciari.

Sono tre i filoni programmatici che possono vedere impegnate le organizzazioni :

  1. programmi a forte valenza regionale, per i quali i partner locali si incontrino periodicamente  per scambiarsi risultati ed esperienze, creando così reti di cooperazione decentrata in grado di risolvere problemi comuni e di portata regionale.
  2. Scambi fra giovani e la creazione di una newsletter periodica di contatto con informazioni,opinioni,dibattiti,convegni., e istituzioni scolastiche. I giovani sono più  pronti a capire la dimensione regionale dei problemi dei paesi a cui appartengono,siano essi la Bosnia,la Croazia, l’Albania.
  3. La creazione di network della società per la promozione di una “good governance” e dello stato di diritto.

Emergono due punti che sono importanti anche per le ONG nell’ottica del contributo che esse possono dare all’integrazione del sud-est europeo: l’approccio regionale nei progetti di realizzazione e l’importanza della dimensione culturale. Approccio regionale significa che i progetti regionali devono sempre prevedere il coinvolgimento di più aree balcaniche, significa che i problemi politici ed economici sono trasversali. L’educazione culturale dei giovani ai valori  civili, attraverso scambi culturali ed esperienze, costituisce un supporto al rafforzamento del processo di democratizzazione  e dello stato di diritto. L’individuo, che progetta percorsi di vita autonoma,non più imprigionati da schemi di tradizione culturale, si apre agli altri, “sviluppa una forte sensibilità per i contesti sociali e percepisce l’individualizzazione come la costrizione, la necessità, il compito, l’avventura di reinventare e riarmonizzare  il sociale”.

La sfida per una globalizzazione culturale dal basso passa attraverso tutti coloro che lottano per la propria autonomia sociale, unendosi agli altri per una democrazia cosmopolita, affrancandosi dagli schemi imposti  dall’appartenenza di classe , o di tradizione culturale. D’ altra parte sono state rilevate diverse debolezze. Nelle reti si registrano anche involuzioni e difficoltà per l’emergere di posizioni politiche locali diverse rispetto a scelte fondamentali di politica estera. Si rilevano ancora difficoltà nel creare strategie di medio – lungo periodo e di portata transnazionale: l’azione progettuale si scontra con i livelli di governo superiori conservatori, incapace di connettere le azioni per lo sviluppo locale alle politiche di livello nazionale. La domanda di sistema istituzionale appare evidente.

La complessità dell’area balcanica, la debolezza del quadro politico istituzionale, soprattutto della Bosnia Erzegovina e dell’Albania, la questione dello status del Kosovo, costituiscono una serie di problemi e di incertezze che aggravano la situazione economica e sociale e che frenano il rafforzamento della democrazia, impedendo, in un circolo vizioso, quell’integrazione europea che potrebbe fornirne la soluzione.

L’Unione europea è più vicina. A partire dal 1996 l’UE ha voluto impostare un approccio regionale con i Paesi balcanici: Bosnia-Erzegovina, Croazia, Ex Repubblica Jugoslava di Macedonia-ERJM, Albania, Montenegro, Serbia e Kosovo. Tale approccio ha avuto la funzione di sostegno all’attuazione degli accordi di pace di Dayton.  Nel 1999 la Commissione europea definisce i termini, ponendo le basi per un processo di stabilizzazione e di associazione fondato su:

  1. Accordi di Stabilizzazione e Associazione, nella prospettiva di una adesione europea, una volta rispettati i “Criteri di Copenhagen”.
  2. Sviluppo delle relazioni economiche  e commerciali con la regione.
  3. Aiuti economici e finanziari.
  4. Collaborazione al processo di democratizzazione, alla società civile, all’istruzione e allo sviluppo istituzionale.
  5. cooperazione nel settore della giustizia e sviluppo del dialogo politico.

I diversi Accordi prevedono i passi che ciascun Paese richiedente deve compiere per l’ingresso globale nell’Unione Europea: si tratta di accordi bilaterali, attinenti le questioni politiche, commerciali, le questioni relative ai diritti umani, per i quali i richiedenti si impegnano ad adottare le riforme di legge necessarie  per uniformarsi alla piattaforma  dell’acquis comunitario. Al termine di un periodo transitorio, ogni Accordo si traduce in un Accordo Europeo di associazione, del quale si pone i medesimi obbiettivi.  Su questa linea, il Consiglio di Feira (Portogallo) del 19-20 giugno 2000 ha confermato che “Tutti i Paesi dei Balcani occidentali sono candidati potenziali all’adesione all’UE”. Ma è con l’adozione dell’Agenda di Salonicco (2003) che si assiste ad un salto di qualità nei rapporti tra l’UE e i paesi balcanici occidentali.

A tal proposito, oltre alla Bulgaria e Romania, Stati membri dal 1 gennaio 2007 e candidati dal 1997, vi sono alcuni Paesi candidati, la Croazia (giugno 2004), la Macedonia (novembre 2000), altri candidati potenziali, quali Albania, Bosnia-E., Serbia e Kosovo, e Montenegro. In prospettiva, ricongiungendo tutti i Paesi  della Penisola Balcanica sotto l’egida di Bruxelles, si raggiunge lo scopo di primaria necessità di contribuire all’equilibrio geopolitico del continente, oltre ad evidenti ragioni di sicurezza interna, quali le connessioni mafiose, i traffici, di droga, basi militari strategiche nei territori di impronta islamica, quali la Serbia – Montenegro, la Bosnia, Kosovo, Albania e Macedonia occidentale, dove sono state individuate cellule terroristiche di impronta jihadista.

Oggi è possibile verificare i risultati, valutare gli obiettivi da raggiungere per una completa attuazione dell’Agenda.

  1. Il Processo di Stabilizzazione e di Associazione:

La maggior parte degli impegni  sono stati onorati, sia da parte dell’EU sia da parte dei paesi Si sono intensificati il dialogo politico bilaterale ed esteso a tutte le regioni e la cooperazione , dando vita al forum politico UE-Balcani Occidentali. In materia di sicurezza e di difesa, l’Europa svolge missioni di mantenimento della pace e di prevenzione dei delitti. Sostegno attivo è stato garantito alla missione della Nato in Kosovo(MINUK)

2.  In materia di giustizia, libertà  e sicurezza, è stato garantito il sostegno comunitario per il problema del rientro dei profughi del conflitto, al sistema scolastico, e massima cooperazione con il Tribunale Penale Internazionale.  Per consentire un allineamento alla normativa comunitaria in termini amministrativi e di giustizia, sono stati attivati strumenti quali il gemellaggio (esperti e  consiglieri  in missione presso le amministrazioni interessate).

Duplice è stato lo scopo da raggiungere:

(1)   potenziare  la stabilità dei governi, attraverso la riconciliazione  regionale, e avvicinare  i Paesi all’UE,nella prospettiva  di una loro adesione.

(2)   prossimi obiettivi: il rafforzamento del partenariato europeo e dell’assistenza finanziaria. In concreto, il Partenariato definisce il quadro di  strategia rafforzata di preadesione, ovvero  tutti i piani di azione e le modalità di riforma al Paese Partner candidato, da seguire per recepire l’acquis, e, contemporaneamente, fornisce l‘assistenza finanziaria, autorizza il Paese meritevole alla partecipazione ai Programmi e alle Agenzia della Comunità, in particolare il programma CARDS e, per il periodo 2007-2013, dallo IAP, il programma TAIEX per la ricerca tecnologica e l’industria, il programma CAFAO per l’assistenza fiscale e doganale.

La Commissione europea, in collaborazione con la Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo dei Balcani(BERS), la Banca europea e per gli investimenti(BEI), la Banca Sviluppo Consiglio d’Europa(CEB), ha istituito un gruppo direttivo, composto da rappresentanti di codeste Banche, con lo scopo di creare in tempi brevi, un sito internet comune, che fornisca ai paesi beneficiari un canale di comunicazione e entro il 2008, uno sportello unico, quale punto di sostegno finanziario a favore del processo di sviluppo socioeconomico della regione, ha inoltre di recente promosso un programma per una completa liberalizzazione dei regime dei visti di ingresso, ha intensificato le iniziative tese alla lotta al crimine organizzato, al terrorismo, ha aumentato le risorse destinate alle borse di studio per i giovani dei Balcani, ha accelerato l’iter di trasformazione dell’Istituto regionale di Pubblica Amministrazione.

Nel febbraio 20008, il Consiglio europeo ha ribadito la volontà di portare avanti il processo di preadesione, definendo nuove iniziative per promuovere i contatti interpersonali bilaterali, come la liberalizzazione dei visti e le borse di studio, affinché i cittadini della regione conoscano meglio l’UE,i suoi valori, le sue norme e il suo stile di vita, e i contatti fra cittadini dei Balcani per favorire la conciliazione, invitando le governance  dei singoli Paesi a  compire ulteriori progressi in termini di riforme giudiziaria e amministrativa, ed economica, di lotta  alla criminalità interna e interfrontaliera e alla corruzione, di tutela delle minoranze e di intensificare il dialogo con le diverse comunità.

Per il periodo 2005-2007, il sostegno globale alla società civile dei Balcani occidentali, nell’ambito dei programmi nazionali e regionali, è ammontato a 27 milioni di euro. Per il periodo 2008-2010, i finanziamenti sono  pari a circa 80 milioni di euro. Nel documento sulla strategia di allargamento del 2007, la Commissione pone l’accento sulla costituzione di partenariati e auspica lo sviluppo di reti fra organizzazioni della vita civile, imprese, sindacati dei paesi beneficiari e le rispettive controparti nell’EU, per familiarizzare con le procedure dei membri  EU, sollecita al dialogo con le varie chiese e i gruppi religiosi. Viene attivata la cooperazione tra i Parlamentari europei e Parlamentari delle regioni  attraverso riunioni miste e comitati parlamentari interregionali, viene ampliata  la versione dell’Accordo centroeuropeo di libero scambio (CEFTA) per stimolare il commercio interregionale, attrarre capitali esteri,migliorare l’integrazione economica tra i paesi. Negli ultimi due anni, il Fondo e. per l’Europa sudorientale ha erogato microcrediti a più di 65000 piccole imprese, fornisce crediti alle banche commerciali e istituti finanziari.

Nell’ambito del “ processo di Bucarest” sono proseguiti i lavori delle politiche occupazionali, di ciascun paese e si è iniziato ad occuparsi della salute e della sicurezza sul lavoro, concordando priorità strategiche comuni (conclusioni di Budva 2007).

Nel 2007 si è svolta una conferenza sugli investimenti nelle infrastrutture energetiche sulla base del quadro normativo del Trattato sulla Comunità dell’energia del 2006. La Commissione ha presentato una proposta di direttive per creare progressivamente una rete di trasporto integrato stradale e ferroviario, e fornisce assistenza tecnica per l’applicazione dell’accordo sullo Spazio aereo comune europeo, firmato nel 2006, che integra i Paesi dei Balcani occidentali nel mercato interno della Ue.

La frequenza dei vasti incendi forestali dell’estate 2007 e delle inondazioni cui è soggetta la regione balcanica hanno spinto la Commissione a varare nel 2008 una iniziativa per la riduzione dei rischi di catastrofi, in stretta collaborazione con la Banca mondiale, l’ONU, il CCR per l’adozione delle misure di adattamento, promuovendo una partecipazione totale e tempestiva dei paesi candidati agli strumenti di protezione civile, beneficiando dell’assistenza del Fondo di solidarietà dell’Ue.

La Commissione ha invitato il Consiglio ed il Parlamento delle seguenti conclusioni:

– Il futuro dei Balcani occidentali è nell’Unione europea.

L’Ue sottolinea l’importanza della pace, della stabilità e della sicurezza in questa parte dell’Europa e accoglie con favore tutti gli sforzi prodigati dai West Balkans per avvicinarsi all’Ue.

I Balcani occidentali sono potenzialmente in grado di accelerare i loro progressi verso l’adesione alla Ue, purché proseguano sulla via delle riforme e della riconciliazione e soddisfino le necessarie condizioni. L’Ue sosterrà i loro sforzi.