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Ha davvero una bella strada da fare la Gelmini. Una strada in salita. Molti, prima di lei, hanno cercato di percorrerla. Il risultato, però , è stato sempre o quasi, il disastro. Un disastro di proporzioni indescrivibili. La storia dell’università italiana si sviluppa, infatti, lungo un piano inclinato. Dai tempi di quella ormai dimenticata riforma Valitutti, che, all’inizio degli anni Ottanta, moltiplicò le figure docenti fino alla più recente riforma Berlinguer, che, nella seconda metà degli anni Novanta, moltiplicò titoli di studio, facoltà, corsi di laurea, insegnamenti. Passando, naturalmente, per tante altre maxiriforme, miniriforme, conati di riforme.
Questa moltiplicazione dei pani e dei pesci del sapere universitario non ha giovato alla qualità dell’insegnamento, Né al livello di acculturazione della popolazione studentesca. Una barzelletta goliardica presenta un professore di fisica che inaugura il corso accademico rivolgendosi serio agli studenti: “Ragazzi, cogli-ioni cominciate, cogli-ioni finite”. E’ una barzelletta, ma descrive una realtà che non è lontana dal vero. La qualità dell’insegnamento universitario italiano non è elevata perché il livello dei docenti lascia molto a desiderare. Molte cattedre, semicattedre, scranni, sono occupati da tanti Nessuno approdati fortunosamente nel sicuro porto del mondo accademico. E lo si può vedere proprio in tempi di concorsi. I baroni si riuniscono per discutere le strategie elettorali per la formazione delle commissioni concorsuali. Hanno in mano gli elenchi dei docenti dai quali dovranno saltar fuori i commissari. Subito, in molti casi, lo sbigottimento è evidente: tanti, se non la gran parte, dei potenziali commissari sono illustri sconosciuti. Chissà come, chissà dove “strutturati” (così si dice in linguaggio accademico) attraverso il conseguimento di una qualche “idoneità” di risulta di qualche concorso.
Il ministro Gelmini ha fatto benissimo a intervenire con un decreto legge urgente sulla riforma dei concorsi universitari. E ha fatto bene, soprattutto, a introdurre il criterio del sorteggio nella formazione delle commissioni. E’ l’unico criterio che, in una università degradata come quella italiana, può garantire una sorta di par condicio per i concorrenti. Tanto più che, ora, con i sorteggi elettronici, non è più possibile, come raccontava una leggenda universitaria, pilotare i sorteggi, facendo venir fuori numeri contenuti in palline riconoscibili al tatto perché tenute al fresco in frigorifero prima dell’estrazione. Il sorteggio, però, per essere veramente garantista, non dovrebbe essere contaminato da altre procedure. In altre parole, il sorteggio dei commissari dovrebbe avvenire fra tutti i professori dei singoli raggruppamenti concorsuali e si dovrebbe costituire una sola commissione nazionale per assegnare i posti messi a concorso per ogni raggruppamento. E’ una ipotesi di buon senso. Il ministro, nella decretazione d’urgenza, ha dovuto tener conto, probabilmente, del fatto che le procedure concorsuali erano già state avviate e i margini di intervento legislativo, nella patria del contenzioso legale, sono piuttosto ridotti. E ha dovuto salvaguardare, per i concorsi già banditi, il principio localistico, di tutela degli interessi dei singoli atenei, e il principio della elezione quanto meno di una piattaforma di docenti fra i quali operare il sorteggio.

BARONI E PRESSIONI
A livello di riforma generale dell’università le cose stanno diversamente. Il ministro ha il tempo e la possibilità di intervenire con determinazione e serietà imponendo il principio del sorteggio puro a ogni livello. Certo, non nascondiamo la testa nella sabbia. Un pericolo, anche con questo sistema, c’è. Da un corpo accademico composto da una maggioranza di tanti Nessuno, potrebbe sortire fuori una commissione mediocre. Che giudicherebbe mediocremente e metterebbe in cattedra altrettanti professori mediocri. Ma potrebbe anche capitare che, proprio per la sua mediocrità di giudizio, essa finisse per far vincere un candidato meritevole. E sarebbe già qualche cosa! L’importante è che, nell’accingersi a portare avanti la sua riforma, il ministro non si lasci abbindolare dagli esperti, condizionare da baroni e baronetti interessati, abbacinare dalle più svariate forme di moralismo peloso che traboccano dalle pagine dei giornali e che denunciano, a torto o a ragione, scandali, meccanismi baronali, parentopoli, concorsi truccati e via dicendo. È una manifestazione di moralismo peloso sottilmente intimidatorio che strizza furbescamente l’occhio al qualunquismo più becero, per esempio, l’affermazione plateale di chi dichiara di aver scritto in busta chiusa i nomi dei vincitori del concorso della sua disciplina e di averli consegnati a un notaio o a un direttore di giornale. In un Paese dove l’università e la ricerca fossero davvero seri, uno studioso di rango, un barone insomma, dovrebbe ben conoscerlo stato della sua disciplina e quindi dovrebbe avere presente il quadro della produzione scientifica che lo riguarda e, quindi, conoscere la rosa dei probabili vincitori dei concorsi a cattedra. Guai se così non fosse. Significherebbe che questo barone è ormai un nobilastro decaduto, un ferro vecchio arrugginito. E’ pure una manifestazione di moralismo peloso quella di chi sostiene che, per evitare il nepotismo nelle università, si debba impedire a laureato o a un dottorato di partecipare a concorsi nella università di provenienza. Come se tutti gli allievi dei baroni si concentrassero in un solo ateneo e non cercassero invece di creare punti di forza in altre sedi.

RIFORMA DELLE RIFORME
Insomma, non si lasci condizionare il ministro Gelmini dai moralisti pelosi e, ancor più , dai gruppi di pressione che si sono costituiti nel tempo e che vantano una rappresentatività inesistente, dalle società che raccolgono docenti di singole discipline alle conferenze di presidi di facoltà. Si tratta sempre di associazioni private, di fatto. La stessa Conferenza dei rettori delle università italiane, la Crui, che raccoglie i Magnifici in ermellino e che sforna a getto continuo documenti e mozioni non è altro che una associazione privata costituita nel 1963 senza alcun ruolo istituzionale, gestionale e di rappresentanza. Un gruppo di pressione, insomma, una corporazione. E nulla più . Il ministro lo tenga presente. E vada per la sua strada. Fino alla riforma delle riforme: l’abolizione del valore legale del titolo di studio, per ridare serietà agli studi.

(Tratto da Libero dell’11 novembre 2008)

*Componente del Comitato scientifico della Fondazione Magna Carta