10 Novembre 2008  

Il patto di stabilità? Lo abbiamo già sfiorato

Redazione

Giulio Tremonti ha preso un’abitudine che aveva un suo autorevole predecessore al ministero dell’Econmia, Carlo Azeglio Ciampi: controllare in continuazione lo spread dei rendimenti tra i titoli di Stato italiani e quelli tedeschi. Più la distanza si allarga, più nei mercati finanziari si è convinti che investire in Italia e nei suoi Bot sia un affare rischioso e da remunerare con un «extra». Già Perché la recessione è una brutta cosa, bruttissima. Ma nei Palazzi di governo c’è chi comincia a temere l’arrivo di una cosa peggiore della recessione: Se i risparmiatori del mondo decidessero di non sottoscrivere più i titoli pubblici italiani, di non fidarsi della credibilità dell’Italia, per lo Stato sarebbe il dramma, con conseguenze catastrofiche per tutti. Solo nei 2009 ci sono quasi 300 miliardi di titoli pubblici che andranno in scadenza e bisognerà piazzare, convincendo gli investitori che l’Italia è affidabile o sborsando interessi pi alti. Appesantendo ancora di più debito e deficit. È con questo tipo di ammonimenti che il ministro dell’Economia ha messo a tacere la disperata voglia del Presidente del Consiglio di varare misure di sostegno all’economia e ai cittadini. Non ci sono soldi, non ci sono scorciatoie. Come spiega in modo chiarissimo il ministro del Welfare Maurizio Sacconi, «possiamo spostare risorse tra le diverse voci, possiamo raschiare il fondo del barile, ma i saldi di bilancio della Finanziaria che è già chiusa non possono essere toccati». E non c’è nemmeno da sperare un po’ di respiro dalla decisione dell’Unione Europea di consentire agli Stati piccoli sforamenti – di qualche decimale di punto – del deficit pubblico rispetto al fatidico tetto del 3 per cento del Prodotto interno lordo. «I decimali? – esplode Sacconi – Ma l’Italia è già all’ 8! È quasi sicuro che nel 2009 arriveremo al 3 per cento. Ma scusate: crolla il Pil, crollano le entrate… Come si fa a stare dentro il 3 per cento?». Insomma, c’è forse da sperare che Barack Obama riesca a trovare un’idea. Perché l’Italia non ha un soldo extra da «investire» in strategie di rilancio dell’economia o di sostegno ai consumi e alle retribuzioni dei cittadini. Ieri, Sacconi interveniva a un convegno a Vittorio Veneto, a poca distanza dalla sua Treviso: lì ha illustrato una «strategia in cinque punti» per arginare le crisi, con misure che puntano sulla stabilità dei mercati finanziari e sostegno alla liquidità delle imprese, più quel che si potrà fare per gli ammortizzatori sociali. «Il primo passo – afferma – è garantire la stabilità dei mercati finanziari e delle banche, tutelare i depositi e la stabilità. Poi, bisogna sostenere la liquidità delle imprese: stiamo pensando un tavolo di monitoraggio, perché le banche, nella misura in cui vengono sostenute dallo Stato, poi però non devono razionare il credito alle imprese. E servono anche misure a sostegno alle garanzie delle imprese, come i consorzi lidi e le cooperative di garanzia». Terzo, investimenti in infrastrutture: lo Stato farà la sua parte, utilizzando le risorse proprie e quelle della Cassa Depositi e Prestiti oltre ad alimentare la domanda pubblica, ma «tocca agli enti locali mobilitarsi, attivare risorse attraverso il project financing». Quarto, i salari, con la conferma della detassazione degli straordinari e del salario contrattato in azienda, «che può sostenere insieme i salari e la produttività in modo che i salari crescano nell’unica maniera che non fa inflazione e anzi corrisponde all’impegno del lavoratore». Infine, «la parte sociale»: allargare quanto più possibile gli ammortizzatori sociali per chi subisce i colpi della crisi, e un aiuto ai «poveri assoluti» con la ben nota «carta acquisti», la social card. Sostanzialmente è la politica economica stabilita a giugno, prima della bufera finanziaria. Sperando che la crisi non si aggravi. «Certo che temiamo la crisi – replica Sacconi – certo che temiamo le reazioni della gent e, sappiamo che la situazione è difficile. Ma come si fa ora a fare scelte diverse? La stessa opposizione, quando polemizza, si limita a recriminare sulla decisione di cancellare l’Ici sulla prima casa». E la proposta di detassare le tredicesime degli italiani? «Come si fa? Costa una cifra imponente, dai 6 agli 8 miliardi di euro, da l2mila a l6mila miliardi delle vecchie lire. Bisognerebbe rifare una manovra economica apposta. E come la finanziamo, questa misura, mettendo altre tasse? Oppure cercando magari di tagliare ancora la spesa, mentre stiamo già faticosamente tenendo sui tagli di bilancia che abbiamo già varato?» 

(Tratto da La Stampa del 10 novembre)

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