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l fatto stesso che, da quando si è concluso il congresso costitutivo del Pdl, si parli di valori, di sfida delle idee, di egemonia culturale, come mastice del nuovo soggetto politico, dimostra che ormai il salto di qualità è realtà e non annuncio commerciale. Non ci sono più i “partiti-chiesa” e non ci sono più gli scontri ideologici, perché si sta definitivamente accantonando la stagione dei “partiti-ideologici”, che hanno diviso gli italiani e ritardato la modernizzazione. Il dibattito che “l’Occidentale” sta lanciando è, quindi, perfettamente in linea con quel concorso virtuoso che dovrebbe unire gli operatori delle idee, dell’informazione, le Fondazioni, gli esponenti della società civile e del mondo del lavoro. Ognuno facendo ovviamente la propria parte.

Una cosa è certa: il congresso di Roma ha sancito la nascita di un partito (non conservatore di massa, non tardo-Dc), ma liberale, nazionale, moderato e riformatore. Parole e paletti centrali. Un dna che attualizza, tra l’altro, la tradizione e il percorso di An e di Fi. Ma ora occorre riempire di contenuti questi perimetri generali, collegandoli al pragmatismo di governo e alle rivoluzioni de facto che sono state avviate, ad esempio, dalle riforme Gelmini e Brunetta: la meritocrazia contro l’egualitarismo astratto. Una svolta molto più di destra (moderna), rispetto a tante posizioni storicamente datate (sulla Rsi etc) e impolitiche, che hanno riguardato la comunicazione di parecchi esponenti della ex An, forse più preoccupati di galvanizzare gli iscritti e i militanti perplessi.

Su un fatto non si torna indietro: nel Pdl non ci sarà la riproposizione delle vecchie dicotomie ottocentesche: statalisti contro liberisti, socialisti contro liberisti, laici contro cattolici. Il dato è un altro ed è rappresentato plasticamente dalla differenza che molti osservatori hanno colto tra le concezioni espresse e ribadite pubblicamente dal presidente della Camera Gianfranco Fini e dal premier Silvio Berlusconi. Una differenza sulla quale molti hanno insistito, e che invece, costituisce la scommessa da vincere per il Pdl e per l’Italia futura.

Come ha avuto modo di sottolineare Angelo Panebianco, il Pdl da partito populista-carismatico (termine usato nella sua accezione descrittiva e non negativa), sta trasformandosi velocemente, anche con la burocratizzazione del berlusconismo (si legga lo statuto del Pdl che necessariamente fisserà le regole), nel “partito repubblicano” delle grandi riforme. In questo modo Berlusconi e Fini si incontreranno obbligatoriamente a metà strada. La modernizzazione economica, bandiera storica del Cavaliere, lo stesso decisionismo governativo, che sta caratterizzando la sua gestione, hanno bisogno di riforme costituzionali vere: il cambiamento radicale del Welfare e il presidenzialismo (come contraltare al federalismo), nel nome e nel segno di un mercato del lavoro sanamente flessibile (improntato all’economia sociale di mercato), che molli per sempre l’assistenzialismo, e di una governabilità con regole precise: il decisionismo diventa bonapartismo in assenza di regole. Il decisionismo con le regole diventa presidenzialismo. E ha ragione il vice presidente dei senatori del Pdl Gaetano Quagliariello, a parlare di due risposte diverse sui grandi temi del domani. La mia speranza è che, invece, le due posizioni possano combinarsi.

Sia la nuova cittadinanza, sia la società italiana, di fronte ai problemi epocali (sviluppo sostenibile, nuove povertà, integralismo islamico, immigrazione selvaggia etc), si costruiscono non col neutralismo da parte delle istituzioni (spesso vittime della dittatura relativistica del politicamente e culturalmente corretto). Ma col “senso”. Una società può riconoscere e legittimare il principio di morte (testamento biologico etc), senza condannarsi a sua volta, a morte? Una società inclusiva, può limitarsi all’integrazione giuridica (la mera cittadinanza legale), o sociale (la mera occupazione), trascurando l’integrazione culturale, che è molto più importante? E qui c’è il discrimine tra chi ritiene (la sinistra e i laicisti) che tutto si possa risolvere con le regole; e chi ritiene che ogni Stato, ogni nazione abbiano un tratto identitario non negoziabile. Quel famoso primato della “casa che accoglie”, che sono, poi, le nostre tradizioni, la nostra identità liberale e cattolica, la nostra cultura, la Costituzione, la lingua e tradizione. Le nuove sintesi si fanno guardando avanti, non indietro.

Fabio Torriero è Direttore “La Destra delle Libertà” e opinionista de “Il Tempo”.

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