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Paolo Mieli sul Corriere della Sera prova ad accreditare la corsa solitaria di Veltroni e del suo Pd come un’occasione storica per la sinistra e per il sistema politico italiano.

La tesi è la seguente: sin dalla nascita dello Stato unitario, la sinistra ha trovato la sua legittimità al di fuori dal sistema. Garibaldi e Mazzini sono stati, al tempo stesso, padri della patria ma anche nemici del sistema costituzional-monarchico. E questa contraddizione originaria si è di fatto perpetuata fino ai nostri giorni. Nessun uomo politico di sinistra che volesse restare legittimato agli occhi della sua parte è riuscito a sfuggirvi. Chiunque, da Depretis a Craxi, abbia provato a governare il Paese cercando per quanto possibile di riformarlo, nel migliore dei casi è stato classificato come trasformista, nel peggiore come traditore. Da qui una debolezza congenita del riformismo italiano: l’unico in Europa a non aver secolarizzato il peccato originale. E per questo l’unico a non riuscire ad affrontare e superare la prova del governo.

Da qui scaturiscono le speranze per il presente. Dice Mieli: è incontrovertibile che Veltroni abbia deciso la corsa in solitario non per scelta ma per necessità. Tale costrizione è però provvidenziale. Impone al Pd di avere nemici a sinistra e, per questo, di rintracciare i suoi motivi di legittimazione al di fuori dell’estremismo, affrancandosi dal mito del cambiamento palingenetico del sistema. Dunque la conclusione, che potrebbe formularsi così: la storia è governata da conseguenze non volute; per questo la disfatta del governo Prodi può essere l’inizio di una sinistra riformista finalmente libera dai fantasmi che ne hanno fin qui infestato la storia.

Pur avendo simpatia per il tentativo di Veltroni (l’unico che a sinistra abbia rinunciato alla rendita dell’antiberlusconismo) mi sembra che l’analisi di Mieli pecchi d’eccessivo ottimismo. Non discuto le omissioni e le semplificazioni storiche, inevitabili nello spazio di un quotidiano. Assai più mi interessano le implicazioni immediatamente politiche del suo ragionamento.

Mi sembra ingeneroso scaricare le colpe per il fallimento del governo sul rapporto con la sinistra estrema. Nel materiale svolgimento della vicenda politica, un magistrato di Santa Maria Capua Vetere ha potuto molto più di tutti i ricatti di Giordano, Diliberto e Pecoraro Scanio. E se invece si prescinde dal contingente, bisogna ammettere che al fondo del fallimento, più dell’estremismo si trova il “dossettismo”: la presunzione fatale di stare dalla parte del bene, splendidamente incarnata dal Presidente del Consiglio uscente, e dunque di poter governare senza numeri un Paese spaccato in due, occupando senza remore ogni posto di potere.

Queste evidenze hanno consentito che il distacco dalla sinistra estrema si consumasse senza drammi. Un fatto stilisticamente apprezzabile, ma politicamente assai pericoloso, poiché allontana il momento in cui attraverso il compimento di scelte determinate (e non prendendo la scorciatoia della rottura di un patto di coalizione) la sinistra potrà assumere un abito autenticamente riformista.

Nel Pd, infatti, nonostante diaspore e scissioni, restano comunque, l’uno accanto all’altro, la laicità di Odifreddi e quella della Binetti; la concezione di giustizia e garantismo di Latorre con quella di Violante; l’idea del rapporto Stato-mercato di Morando e Enrico Letta e quella di Visco e Damiano; sui sistemi elettorali vi è chi parla “tedesco”, chi “francese” e chi “spagnolo”; vi è chi come Bassanini ritiene il premierato l’anticamera del plebiscitarismo e chi Ceccanti è disposto a “correre rischi” più rilevanti.

L’obiezione è a portata di mano: i partiti a vocazione maggioritaria si fondano tutti su adesioni empiriche e approssimative e, per questo, debbono governare la convivenza tra posizioni diverse; nel Popolo della Libertà sarebbe possibile censire divergenze di grado altrettanto elevato. Qui, però, s’introduce l’elemento che più contraddice l’ottimismo di Mieli.

Una simile complessità all’interno dei partiti rende infatti indispensabili nelle moderne democrazie leadership carismatiche che riunifichino idee, mentalità e interessi. Nessun esperimento riformistico può sfuggire a tale necessità, Max Weber lo aveva profetizzato. Il centrodestra ha dimostrato con Berlusconi di essere in possesso di questa risorsa. Per il Pd, visti gli esordi del leader, nonostante il successo delle primarie non sembra potersi dire altrettanto. La vicenda della riforma elettorale è emblematica: Veltroni è partito proponendo un sistema che avrebbe agevolato un nuovo bipolarismo per slittare gradatamente e attestarsi infine su un pasticcio proporzional-corporativo imposto innanzi tutto dalle mediazioni interne al suo partito.

Si dirà: a ognuno il suo stile. Veltroni incarna un carisma mite. Ma qui più dello stile è in discussione la sostanza della leadership, indispensabile affinché una stagione di riforme possa spingere l’Italia a rialzarsi. E su questo terreno, nonostante il ragionamento storico di Mieli, è difficile negare che Silvio Berlusconi offra ancora le maggiori garanzie.

(da Libero)