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Perché risulti proficua, la discussione sui compiti che attendono il “Popolo della Libertà” non deve limitarsi alle prospettive politiche future, ma deve cercare d’intendere le ragioni che hanno portato alla nascita di un nuovo soggetto politico. Inoltre, in questo sforzo di comprensione converrà porsi non dalla parte dei dirigenti politici, ma tentare di ragionare dal punto di vista dell’elettore. In modo da illuminare il quadro da una prospettiva diversa.

In premessa occorre tenere sempre presente che il PdL nasce in ritardo rispetto alle aspettative dell’opinione moderata e conservatrice. Quella messa su per iniziativa di Berlusconi nella primavera del 1994 non era un’alleanza precaria, ma rispondeva a un bisogno diffuso nel paese. Certo l’alleanza era tecnicamente improvvisata, ma questo per una ragione prosopografica, ma non per una incoerenza progettuale. Il cartello elettorale, infatti, riuniva spezzoni di ceto politico di provenienza diversa. Gli ex-missini, da sempre abituati ai rituali della prima repubblica (pur restandone ai margini); i leghisti, in genere politici di quarta o quinta fila in cerca di spazio, che interpretavano in modo gretto il disagio sociale dei ceti produttivi del nord; infine la nebulosa di forza Italia dove quadri aziendali convivevano con transfughi e reduci di vecchi partiti di governo. Tuttavia quell’alleanza ha retto nel tempo, facendo ricredere molti commentatori.

Il fatto è che l’aspirazione ad un partito che raccogliesse i moderati era sempre stata forte nella vicenda dell’Italia repubblicana, ma non si era mai potuta realizzare. La situazione che più si avvicinò a questo risultato furono le elezioni del 18 aprile 1948. In quella circostanza elettori conservatori e anche reazionari, dimentichi per un momento della loro appartenenza, fecero confluire il loro voto sul partito democristiano. Non casualmente in quella prima legislatura ci fu una stabilità politica e una continuità nell’azione di governo che non si è mai più ripetuta. Questo conato di unione tra i moderati e i conservatori non ebbe però seguito. A partire dalla seconda legislatura il sistema si stabilizzò su quell’equilibrio centrista che tendeva a ghettizzare i conservatori, mettendoli nel recinto dei nostalgici, e a penalizzare i moderati, costringendoli nel calderone del grande partito dello scudo crociato. La svolta del 1994 è anche la liberazione di questo elettorato dalla gabbia centrista. Liberazione che si conferma e si rafforza con il passar del tempo. Nel 1996, nel 2001, gli elettori che votavano per la Casa della libertà votavano quello che consideravano già un partito. Per questo le beghe che le componenti ex democristiane o leghiste hanno messo in scena in alcune fasi sono risultate poco comprensibili ancora più che sgradite all’elettore comune.

Lo spontaneo orientamento dell’elettorato spiega anche perché il processo di creazione del nuovo partito sia andato avanti in tempi anche più rapidi di quelli preventivati (all’indomani delle elezioni del 2008 si parlava di un paio d’anni). Non è solo un calcolo elettoralistico che ha portato a bruciare le tappe, ma anche la consapevolezza di dover fare i conti con un’opinione che, per quanto poco politicizzata, aveva però le idee chiare su di un punto, voleva un grande e moderno partito conservatore e lo ha avuto. Per poter avviare e condurre in porto questo processo, poter disporre di una leadership carismatica ha costituito una risorsa essenziale.

Il fatto che il nuovo partito corrisponda a un orientamento diffuso nell’opinione non deve però far dimenticare che l’Italia di oggi è molto diversa da quella del dopoguerra. Sul piano culturale ma ancora più su quello sociale. Un partito potenzialmente maggioritario, se deve avere un’identità riconoscibile, deve anche saper formulare proposte capaci di conquistare elettori incerti o ondivaghi, il cui numero tenderà necessariamente ad aumentare. Per questo è importante avere un partito plurale che, partendo da una base comune, sappia presentare un ventaglio di posizioni articolato. Ma la partita decisiva si gioca sul piano della cultura di governo. La necessaria diversificazione delle posizioni non deve portare ad un’allegra anarchia interna, ma deve saper produrre sintesi convincenti nelle politiche pubbliche. In una democrazia dell’alternanza non si può fare soltanto affidamento sulla debolezza dell’avversario, perché il potere logora e non ci sono più rendite di posizione durevoli.

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