10 Febbraio 2005  

Il Trattato costituzionale europeo: unione di Costituzioni nazionali?

Redazione

 

1. Con la firma degli Stati che hanno approvato il Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa, sia pure ancora in attesa della “controfirma” parlamentare o referendaria, si è avuto il passaggio da un ordinamento internazionale a uno di tipo costituzionale? Ci sono alcuni indici rivelatori che consentono di dare una risposta tendenzialmente positiva, e ora li esamineremo. Prima però occorre dire una cosa. Il Trattato è un accordo fra Stati, la Costituzione è un patto fra cittadini. La differenza è profonda. Certo, si può mantenere l’ambiguità e continuare a chiamarlo Trattato costituzionale, quindi considerarlo un po’ dell’uno e un po’ dell’altra; ma proprio perché ambiguo rischia, negli anni a venire, di non essere più riconosciuto e accettato né in un modo né nell’altro. Torna alla mente quella vecchia storiella del libertino di mezza età che aveva due amanti, una giovane e una meno giovane: la prima gli strappava i capelli bianchi perché voleva che gli restassero solo quelli neri, la seconda faceva il contrario. E il libertino rimase calvo. Il Trattato costituzionale europeo rischia di fare la stessa fine. Ecco perché una definizione nominalistica più netta e precisa sarebbe stata assai opportuna; mentre sul piano del contenuto, come diremo più avanti, le ambiguità risultano essere minori, o comunque meno significative.

Comunque, al di là di questi aspetti, e per tornare a quanto detto inizialmente, gli indici rivelatori del transito da un ordinamento internazionale a uno di tipo costituzionale possono essere sintetizzati in cinque punti: a) la personalità giuridica, che fonde le due entità Comunità e Unione in un’unica entità dotata, appunto, di personalità giuridica; b) le competenze dell’Unione, che ora sono ripartite per materie, e non più per aree e politiche di intervento, secondo un modello di tipo costituzionale federale; c) gli atti dell’Unione, che sono il linea con il modello “Costituzione”, sia sotto il profilo della forma che del contenuto (è prevista la legge europea in luogo dei regolamenti comunitari, la legge quadro europea invece delle direttive e le altre fonti hanno natura regolamentare); d) la razionalizzazione e la stabilizzazione degli organi, come per il Presidente che sta in carica due anni e mezzo ovvero il Parlamento e il Consiglio dei ministri compartecipi congiuntamente del potere legislativo, il che lascerebbe prospettare un embrione di bicameralismo federale; e) le finanze dell’Unione, in particolare il bilancio, il quale deve essere approvato dal Parlamento e dal Consiglio con legge europea, e poi la previsione di fissare un quadro finanziario pluriennale assegnando così al bilancio una dimensione programmatica attraverso la possibilità di incidere sulla politica delle entrate proprie. A questi cinque “indici rivelatori”, aggiungerei senz’altro anche quelli riguardanti l’incorporazione della Carta dei diritti fondamentali europei nel Trattato e le potenzialità della Corte di giustizia europea, che potrebbe assumere sempre più il ruolo di organo di giustizia costituzionale (europea).

Fin qui gli indici che rivelano la componente costituzionalistica del Trattato; quella internazionalistica emerge laddove si prevede che ogni Stato può decidere di ritirarsi dall’Unione, e che la revisione del Trattato debba avvenire per il tramite della ratifica di tutti gli Stati membri. Tuttavia tali previsioni non appaiono certo come decisive per dimostrare la natura del Trattato. E poi, a volerla dire tutta, questa discussione sulla forma di “Costituzione” del Trattato costituzionale europeo è viziata da un errore di fondo, che è quello di voler leggere la fase in atto del diritto pubblico europeo secondo gli schemi delle categorie dominanti in Europa tra il XIX e XX secolo, all’epoca del diritto pubblico statale fondato sul principio di sovranità. Infatti, quelle categorie si basavano su di una alternativa secca: da una parte, il trattato internazionale, che fa insorgere obbligazioni per gli Stati ma non genera alcuna vera e propria forma politica sul piano sopranazionale; dall’altra, l’atto costitutivo di un nuovo Stato, che prima o poi finisce per subordinare gli Stati originariamente autori di quell’atto. La situazione che oggi si viene a presentare è diversa: ha le sue peculiarità nel fatto che si tratta di un’organizzazione strutturata attorno a un complesso di organi di governo, un parlamento eletto a suffragio universale, con una carta dei diritti e con un proprio sistema giurisdizionale.

2. Dopo essermi soffermato sulla qualificazione concettuale dell’atto che dà vita all’ordinamento giuridico dell’Unione europea, passo ora a esaminare i rapporti che verranno a intercorrere fra l’ordinamento europeo e gli ordinamenti degli Stati membri. Sul punto, è stato di recente affermato che verrebbe a nascere una unione di Costituzioni, perché la Costituzione di ciascuno degli Stati membri si verrebbe a integrare con una Costituzione comune, trasversale, che sarebbe poi la Costituzione europea. Ma questa non avrebbe propria autonomia se non in connessione agli ordinamenti costituzionali degli Stati nazionali; e questi sarebbero ormai comprensibili solo se letti nella cornice di un ordinamento costituzionale europeo. La tesi è sicuramente suadente ma tutta da dimostrare: sarà soltanto l’evoluzione del processo costituente europeo – anche e soprattutto in senso materiale – a dirci se saremo in presenza di una unione di Costituzioni oppure no. Per adesso ci troviamo di fronte l’articolo I-5 del Trattato costituzionale, il quale, a leggerlo, non mi pare possa offrire largo spazio a una interpretazione come quella prima prospettata. La norma così recita: “L’Unione rispetta l’uguaglianza degli Stati membri davanti alla Costituzione e la loro identità nazionale insita nella loro struttura fondamentale, politica e costituzionale, compreso il sistema delle autonomie locali e regionali. Rispetta le funzioni essenziali dello Stato, in particolare le funzioni di salvaguardia dell’integrità territoriale, di mantenimento dell’ordine pubblico e di tutela della sicurezza nazionale”. Una norma cautelativa, senz’altro, del rapporto fra ordinamento europeo e ordinamenti nazionali, dove l’uno, quello europeo, è bene attento a non incidere troppo sull’altro; infatti, più che a volersi atteggiare a Costituzione comune, trasversale, sembra quasi volersi ritagliarsi uno spazio costituzionale tutto suo, e comunque limitato e circoscritto rispetto all’agire costituzionale degli ordinamenti nazionali. Sul punto, però vorrei provare ad andare oltre un’ipotesi statica del rapporto fra ordinamento europeo e ordinamenti nazionali. E quindi, il rapporto sarebbe meglio se si muovesse secondo una concezione dinamica, che dovrebbe essere fondata sul “costituzionalismo multilivello europeo”, inteso come un nuovo ordine giuridico sui generis su base non gerarchica ma interattiva e cooperativa. In tal modo, potrebbe venire meno sia la concorrenza che la uniformità tra ordinamenti per far prevalere i principi costituzionali, che oggi si appuntano sul singolo ordinamento nazionale ma che domani si livelleranno su più piani a seconda del diritto costituzionale da tutelare. In questo senso, è opportuno rilanciare l’idea di ordinamento giuridico quale articolazione complessa di entità diverse che recupera le differenze nella qualificazione ordinante della giuridicità.

3. La norma del Trattato immediatamente successiva a quella prima esposta e riguardante il rapporto fra ordinamenti, ovvero l’articolo I-6, introduce per la prima volta nella storia dell’integrazione comunitaria il principio – di origine giurisprudenziale – del primato del diritto europeo sul diritto degli Stati membri. Vale la pena ricordare, sinteticamente, alcune significative tappe del percorso giurisprudenziale, che hanno portato al primato del diritto comunitario, il quale rappresenta il pilastro portante dell’integrazione. Si può partire dalla sentenza Costa/Enel del 15 luglio 1964, laddove la Corte di giustizia precisava che “il diritto nato dal Trattato non potrebbe, in ragione appunto della sua specifica natura, trovare un limite in qualsiasi provvedimento interno senza perdere il proprio carattere comunitario e senza che ne risultasse scosso il fondamento giuridico della stessa Comunità”. Questo significativo assunto verrà poi specificato nella sentenza Internationale Handelsgesellschaft, sempre della Corte di giustizia, ove si osserva che l’invocazione “ai diritti fondamentali, per come formulati nella Costituzione di uno Stato membro, oppure ai principi costituzionali nazionali non può sminuire la validità di un atto comunitario o la sua validità nel territorio dello Stato”. L’applicazione si avrà molto più di recente nella sentenza Tanja Krei, in cui si è ammesso che la direttiva 76/207/CEE, relativa all’attuazione del principio della parità di trattamento fra gli uomini e le donne per quanto riguarda l’accesso al lavoro, la formazione e la promozione professionali e le condizioni di lavoro, osta all’applicazione di disposizioni nazionali, come quella dell’articolo 12 della Costituzione tedesca, che escludono in generale le donne dagli impieghi militari comportanti l’uso di armi e che ne autorizzano l’accesso soltanto ai servizi di sanità e alle formazioni di musica militare.

Certo, l’enunciazione del primato del diritto europeo non rappresenta soltanto la consacrazione di un principio giurisprudenziale acquisito, ma vuole altresì accentuare il carattere costituzionale del Trattato, volto a stabilire il riparto di competenza tra l’Unione e gli Stati, tra le fonti europee e quelle nazionali e quindi i criteri di validità delle une e delle altre. L’articolo I-6 del “Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa”, relativo al primato del diritto comunitario, afferma che: “La Costituzione e il diritto adottato dalle istituzioni dell’Unione nell’esercizio delle competenze a questa attribuite prevalgono sul diritto degli Stati membri”. A leggerlo così, e cioè sganciato rispetto alle altre norme e specialmente rispetto al precedente (art.I-5) già prima esaminato, parrebbe di trovarsi di fronte a un riconoscimento pieno e senza condizioni della primauté del diritto comunitario. Invece, l’articolo deve essere letto insieme sia all’articolo I-5, già riferito, che all’articolo II-113, il quale dispone che: “Nessuna disposizione della presente Carta deve essere interpretata come limitativa o lesiva dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali riconosciuti, nel rispettivo ambito di applicazione, dal diritto dell’Unione, dal diritto internazionale, dalle convenzioni internazionali delle quali l’Unione o tutti gli Stati membri sono parti, in particolare la Convenzione europea di salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, e dalle costituzioni degli Stati membri”. In tal modo, cioè leggendo in combinato disposto le tre norme del Trattato costituzionale citate, ne emerge una visione dinamica della primautè, che ammette limiti costituzionali nazionali. Si tratta, in pratica della legittimazione della dottrina dei controlimiti, sia per quel che riguarda i principi supremi degli ordinamenti costituzionali sia per i (maggiori livelli di tutela dei) diritti inviolabili. Certo, la concezione dei controlimiti è sempre da ritenersi quale extrema ratio, che può legittimare anche la secessione di uno o più Stati dall’Unione (ipotesi oggi prevista positivamente dall’articolo I-60 del Progetto di trattato costituzionale, nella forma del recesso dall’Unione). Un ultimo aspetto, concernente le competenze diritto europeo/diritti nazionali, vale la pena affrontarlo. E’ quello riferito al principio di sussidiarietà. Si tratta di un principio di origine comunitaria, che venne esplicitato già nel Trattato di Maastricht e che serve da criterio regolatore per quanto riguarda l’esercizio legittimo del potere normativo dell’Unione e, soprattutto, per quanto concerne la distribuzione delle competenze tra l’ordinamento europeo e quelli nazionali. Secondo l’articolo I-11 del Trattato costituzionale, al di là degli ambiti di competenza esclusiva, e quindi negli ambiti di competenza concorrente, così pure nell’esercizio delle azioni “intese a sostenere, coordinare e completare l’azione degli Stati membri”, l’Unione europea interviene, in virtù del principio di sussidiarietà, “soltanto se e nella misura in cui gli obiettivi dell’azione prevista non possono essere sufficientemente raggiunti dagli Stati membri, né a livello centrale, né a livello regionale e locale, ma possono, a motivo della portata o degli effetti dell’azione in questione, essere meglio raggiunti a livello di Unione”. Custodi del rispetto del principio di sussidiarietà, così come previsto nel Trattato, sono innanzitutto i Parlamenti nazionali, attraverso un particolare iter, e poi la Corte di giustizia, che si pronuncia sui ricorsi contro gli atti legislativi europei per violazione del principio di sussidiarietà.