Il Voto olandese alla prova dell’islamizzazione
Andranno al voto domani gli olandesi, chiamati ad elezioni anticipate dopo la crisi di governo del 29 giugno scorso. L’esecutivo di centrodestra guidato da Jan Peter Balkenende era infatti caduto per quella che è apparsa come la prima crisi di governo “multikulti” d’Europa, che ha visto uno dei partiti della coalizione, il social-liberale Democraten 66 (“Democratici 66”), ritirare la fiducia in relazione all’“affaire Hirsi Ali”.
Balkenende ha formato un esecutivo di minoranza sostenuto dal suo partito, il CDA (Christen Democratisch Appèl, “Appello cristiano-democratico”) e i liberali del VVD (Volkspartij voor Vrijheid en Democratie, “Partito popolare per la libertà e la democrazia”), in attesa di una nuova consultazione elettorale.
Il governo dell’“Harry Potter dei Paesi Bassi” (così è stato più volte soprannominato il premier olandese) può vantare eccellenti risultati macroeconomici, con un tasso di disoccupazione fra i più bassi d’Europa, un debito pubblico che vale il 48% del Pil, un avanzo di bilancio per l’anno a venire dello 0,2%, e, soprattutto, una crescita prevista del 3%, frutto di una politica rigorosa fatta di riforme e misure di austerity. «Il numero di posti di lavoro aumenta, l’economia cresce, un sistema di sanità solido e sociale è stato istaurato, il numero di assegni (per disoccupazione e assistenza sociale) è in diminuzione. Mi rendo conto che tutto ciò è stato possibile grazie all’investimento personale dei cittadini negli anni di restrizioni di bilancio, ma penso che siano arrivati dei tempi migliori. Una cosa del genere non è accaduta che una volta negli scorsi quarant’anni. I Paesi Bassi hanno di nuovo guadagnato una posizione di testa, con un basso debito pubblico, un’inflazione debole, un mercato del lavoro flessibile e un miglior clima per gli affari. Possiamo essere fieri del risultato che abbiamo ottenuto insieme», ha dichiarato con soddisfazione e pieno di fiducia per le prossime elezioni Balkenende lo scorso 19 settembre, in occasione del tradizionale discorso annuale della Regina Beatrice.
Il 26 settembre il World Economic Forum ha confermato l’ottimismo di Balkenende, piazzando l’Olanda al nono posto fra le economie più competitive del globo. Secondo Henk Volberda, del WEF, il risultato è stato garantito da un ottima politica economica, da infrastrutture eccellenti e da un continuo investimento nell’insegnamento superiore.
Wouter Bos, leader del socialdemocratico PvdA (Partij van de Arbeid), si guarda bene dal contestare i frutti dell’attività del governo conservatore, anche perchè, probabilmente terrorizzato dall’idea di doversi alleare con l’estrema sinistra guidata da Jan Marijnissen, leader del Socialistische Partij (membro della Sinistra Europea bertinottiana), non vede l’ora di potersi accaparrare una poltrona accanto al pur acerrimo nemico Balkenende. Si limita, piuttosto, a proporre forme di redistribuzione del nuovo reddito prodotto che rischiano tuttavia di mettere in dubbio l’appetibilità e la dinamicità del sistema olandese.
I sondaggi
Nonostante i successi, la maggioranza formata da liberali e democristiani rischia di non essere riconfermata. Se infatti i D66 scontano il prezzo della defezione riducendo il loro consenso a un terzo, ottenendo, secondo quasi tutti i sondaggi, un miserrimo 1,4% e un paio di seggi sui 150 in palio alla camera bassa (contro i 6 del 2003), i liberali del VVD pagano lo scotto della virata progressista impressa al partito da Mark Rutte, eletto il 26 giugno scorso nuovo segretario del partito, a cui però la base elettorale preferisce la più conservatrice “Rita la rossa”, il Ministro per l’Immigrazione e l’Integrazione Rita Verdonk, che per la sua inflessibilità nei confronti dell’immigrazione clandestina e del fondamentalismo si è meritata il nomignolo di IJzeren Rita, “Rita di ferro”, che ha finito per sostituire il vecchio soprannome guadagnato grazie alla giovanile militanza sinistrorsa. Il partito (che porta avanti una politica fatta di riduzioni fiscali) rischia il peggior risultato degli ultimi trent’anni, faticando a superare il 14%, con soli 20-22 seggi, contro i 28 della passata legislatura (e il 24,6% ottenuto nel ’98 sotto la guida del mitico Frits Bolkestein).
Solo il CDA di Balkenende si salva, mantenendosi attorno al 30%, sopra il risultato del 2003 (e sempre sopra il PvdA), ma avendo ormai raschiato il fondo delle sue potenzialità. Il partito si mantiene su un programma rigorosamente basato sul principio di sussidiarietà, secondo la parola d’ordine della trasformazione dello Stato sociale in una “società della partecipazione”.
A guadagnare dall’emorragia liberale sono altri partiti d’orientamento libertario ma con un atteggiamento più duro nei confronti dell’immigrazione e dell’Islam. A parte l’ormai insignificante lista ispirata a Pim Fortuyn (che perderebbe quasi tutti i suoi 8 deputati) e il neonato EénNL del fortuyniano Marco Pastors (che a Rotterdam nelle scorse amministrative ha toccato il 30%, ma che oggi s’aggira attorno all’1%), si segnala il Partij voor de Vrijheid (“Partito per la libertà”), guidato da Geert Wilders, ex deputato del VVD, che si presenta alle elezioni con una piattaforma rigorosamente conservatrice e liberale, basata su tre punti-cardine: «Lagere belastingen, betere scholen, immigratiestop (“meno tasse, scuole migliori, stop all’immigrazione”)», concentrandosi in particolare sulla necessità di ridurre l’ingresso di immigrati non occidentali. Il partito, supportato dalla Edmund Burke Stichting, la fondazione dedicata al fondatore del conservatorismo moderno e nata per iniziativa di due fra i più prestigiosi intellettuali olandesi (Andreas Kinneging e Bart Jan Spruyt), viene dato fra il 2,5 e il 3,5%, con un potenziale stimato attorno all’8%. Negli ultimi giorni, il VVD sembra aver riconquistato una parte del consenso perduto in favore del PvdV riproponendo il bando del burka suggerito proprio da Wilders. Una manovra, non a caso, messa in campo da Rita Verdonk.
Se il centrodestra traballa, il centrosinistra non se la passa certo meglio. E se i liberali, convergendo al centro (occupato saldamente dal CDA), perdono voti verso la destra liberalconservatrice, i socialdemocratici del PvdA rischiano un crollo inedito per le posizioni ambigue quanto alla possibilità di un accordo di governo con i democristiani. Tradizionalmente attestati attorno al 25-30%, non lontani dai democristiani, e gratificati dal voto islamico alle scorse comunali, hanno goduto fino a poche settimane fa di ottime proiezioni, attorno al 27-29%, ma negli ultimi giorni, quando sono divenute più insistenti le voci di una possibile Grosse Koalition con il CDA data l’impossibilità, secondo i sondaggi, di formare sia un governo di sinistra (con l’SP e i verdi del GroenLinks) sia uno di destra (CDA–VVD), il partito di Wouter Bos è scivolato al 20%, a tutto vantaggio dell’estrema sinistra, schizzata dal 6,3% del 2003 al 17-18%. Un chiaro messaggio dell’elettorato progressista, che pare non apprezzare l’ipotesi di un governo centrista PdvA–CDA. Il congresso dei socialdemocratici si è chiuso con una canzone di Marco Borsato, Rood (“Rosso”): se l’SP continuerà la sua inarrestabile ascesa, per i Paesi Bassi il futuro sarà nog roder, “ancor più rosso”…
Fra gli altri partiti in gara, i verdi restano al palo attorno al 5%, così come i socialconservatori del Staatkundig Gereformeerde Partij, espressione del calvinismo ortodosso, fermi al tradizionale 1,5%, mentre avanza (dal 2,1% al 3,5%) l’altro partito calvinista, la ChristenUnie.
É improbabile, nonostante tutto, che i tre partiti storici (CDA, PvdA, VVD) vengano danneggiati significativamente dai partiti minori (SP, PvdV, CU), quantomeno nella misura indicata dai sondaggi. Storicamente, ad esempio, i piccoli partiti cristiani hanno visto riversare il proprio elettorato (timoroso di sprecare il proprio voto e di consentire la vittoria delle sinistre) nelle liste del CDA. Presumibilmente, i dati non fanno che riflettere un chiaro messaggio dell’elettorato olandese, poco propenso a vedere un’edizione in nederlandese della Grande Coalizione, e pronto a ritornare sui propri passi nel caso vengano chiarite le ambiguità in questo senso.
In questa tornata elettorale, tuttavia, emergono fattori differenti. La scarsa praticabilità di coalizioni “bipolariste” potrebbe spingere all’emorragia di voti dai partiti principali. Il prestigio guadagnato dal leader della CU, André Rouvoet, potrebbe assicurare un buon piazzamento al partito: e già si parla di una coalizione definita della “Sinistra cristiana”, con socialdemocratici, socialcomunisti e verdi. Soprattutto, se prima delle elezioni non venissero sciolte le riserve sulla Grande Coalizione, non si verificherebbe nessun “effetto polarizzante”, così da convincere l’elettorato a sentirsi libero di votare per i partiti minori. Al contempo, il serbatoio di voti del VVD potrebbe continuare ad assottigliarsi a causa del progressismo di Mark Rutte, a cui viene preferita l’istanza “antislamica” della Verdonk (il calo del partito va messo senza dubbio in relazione alle questioni “eurabiche”).
La morte dell’Olanda
Ma se giornali e tv parlano di economia e simmetrie in seno alla Tweede Kamer, il tema dell’alba del nuovo millennio olandese è l’immigrazione o, meglio ancora, l’islamizzazione dei Paesi Bassi. Le scorse elezioni comunali hanno reso se possibile ancor più evidente il problema. Dopo Pim Fortuyn, dopo l’assassinio di Theo van Gogh, dopo le condanne a morte di Ayaan Hirsi Ali e a Geert Wilders, dopo gli infiniti casi di prepotenza e dhimmitudine, la partecipazione al voto di un milione di immigrati alle consultazioni amministrative ha confermato la situazione disintegrata della società olandese. Il 95% dei nuovi votanti (perlopiù marocchini e turchi) non solo si è rivolto alla sinistra, ma ha dato la propria preferenza a candidati di religione islamica, col risultato che il mangiapreti PvdA si è ritrovato una buona metà dei propri eletti schierata su posizioni fondamentaliste. Lo stesso Bos si era detto preoccupato, per poi accusare la stampa di razzismo per aver riportato le sue dichiarazioni.
E l’esodo è iniziato. Centinaia di migliaia di olandesi hanno lasciato una delle più floride economie occidentali. Nel 2004 sono stati 40000, l’anno successivo 121000, il 2006 ne ha contati 100000 entro ottobre. Terrorizzati dalla crescita dell’intollerante comunità islamica, maggioritaria nelle periferie delle maggiori città. In cerca di sicurezza negli Stati Uniti e in Canada.
Non sono bastate le misure severe della Verdonk, intese a ridurre il numero degli ingressi, a rassicurare gli olandesi. Forse anche perché nulla possono fare contro il pericolo già esistente, contro l’odio dilagante. Forse perchè le proiezioni demografiche non lasciano grandi margini di speranza.
L’Islam è già divenuto maggioritario nel settore della popolazione sotto i quattordici anni d’età. Uno studio del Sociaal en Cultureel Planbureau indica che, mentre i calvinisti nel 2020 si ridurranno al 4% della popolazione, sarà ben l’8% a rivolgersi per le sue preghiere verso la Mecca. Geert Wilders propone di fermare l’immigrazione non occidentale almeno per cinque anni, e di perseguire il radicalismo islamico. Dal canto suo, il governo di destra finanzia la costruzione di moschee, e ad Amsterdam se inaugurano di sempre più grandi gestite dai settori più radicali della fede di Maometto. E i socialdemocratici insistono per la sanatoria degli irregolari.
L’ex-Ministro della Giustizia, Piet Hein Donner, democristiano, ha dichiarato che se i due terzi della popolazione olandese lo chiedesse, il paese potrebbe applicare la sharia.
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