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Quest’anno ricorre il ventennale della scomparsa di due uomini che indirettamente hanno a che fare con Magna Carta. L’8 febbraio è l’anniversario della morte di Pinuccio Tatarella, il prossimo 6 settembre quella di Paolino Ungari. Entrambi se ne sono andati prematuramente.

Pinuccio Tatarella proviene da una tradizione politica diversa dalla nostra. E’ stato però uno dei padri del centro-destra di governo – quello poi protagonista del ventennio bipolare – e un teorico della contaminazione tra cultura liberale e cultura conservatrice: una delle linee di ricerca privilegiate dalla Fondazione.

Paolo Ungari, un liberale classico, è stato un riferimento accademico per molti dei protagonisti di Magna Carta. Nella sua vita ha fatto molte cose ma, soprattutto, per quanto concerne le istituzioni rappresentative, è stato in grado di mettere in comunicazione in modo profondo e originale la “ragion pratica” e la “ragion teorica”. A lui, nella seconda parte dell’anno, dedicheremo un momento di riflessione sul “parlamentarismo degli antichi e il parlamentarismo dei moderni”.

Di Tatarella e Ungari vi proponiamo oggi due ritratti, scritti in tempi e circostanze differenti, per ricordarli, farli rivivere, proporli a chi non ha avuto la fortuna di conoscerli.

 

Gaetano Quagliariello in ricordo di Pinuccio Tatarella

Quella di Pinuccio Tatarella è innanzi tutto una vicenda pugliese. In particolare essa ha ricevuto l’imprinting di Bari, città che non gli diede i natali (Pinuccio è nato infatti a Cerignola, la patria di Di Vittorio) ma nella quale egli visse e che fu sempre il suo terreno d’impegno principale e prediletto. Quel che vorremo qui dimostrare è che anche quando la sua azione assunse un respiro nazionale, la matrice originaria che l’aveva generata non andò mai dispersa al punto che, a una analisi attenta, la si può rinvenire in controluce.

Bari, nel contesto meridionale, si è da sempre caratterizzata per essere patria privilegiata di una borghesia commerciale e produttiva, dotata di una grande concretezza e di un correlato riflesso anti-ideologico. Collegata a una provincia ricca, prevalentemente agricola, che ha saputo comprendere e della quale ha saputo rispettare l’autonomia, Bari ne è diventata la capitale naturale e un ponte per le relazioni, i commerci, i mercati nell’area del Mediterraneo. Prima di cadere in disgrazia, la Fiera del Levante è stata a lungo l’emblema di questa condizione. Non a caso, per antica consuetudine raramente tradita, ancora oggi il Presidente del Consiglio in carica è presente alla sua annuale inaugurazione per svolgervi un impegnativo discorso, centrato sulla condizione economica del Paese con particolare riferimento alle questioni del Mezzogiorno.

Bari, in questo suo modo d’essere, ha in un certo senso – e paradossalmente – incarnato la dicotomia marxiana tra struttura e sovrastruttura: molto più attenta al sistema delle relazioni economiche, la città ha a lungo considerato la cultura con un’attitudine quasi strumentale e, per questo,  non ha commesso l’errore di contrapporla al mercato e in particolare al profitto. Non a caso la si può considerare la capitale dell’editoria meridionale – basti pensare a Laterza, Dedalo, De Donato: pubblicare libri, in fondo, è un modo per far circolare il pensiero ma anche un’attività produttiva che avrebbe dovuto rispettare precise regole economiche.

Dal punto di vista politico, in assonanza con questa antropologia operosa e intraprendente, la città ha da sempre coltivato una naturale propensione verso quello che, con linguaggio attuale, si suole definire “centrodestra”. L’ha fatto in modo prosaico, aderendo d’abitudine agli orientamenti governativi e divenendo terreno di sperimentazione di nuove soluzioni ogniqualvolta questi hanno iniziato a perdere di sostanza e di stabilità.

Bari città politicamente pragmatica, dunque. Bari però è anche città che non dimentica e che, per questo, sa onorare un debito di riconoscenza. E certamente non ha mai dimenticato la propria obbligazione nei confronti di Araldo di Crollalanza, il ministro fascista e poi Senatore di Bari “a vita” che, in buona misura, è stato colui che ha “inventato” la Bari moderna.  Di Crollalanza, da Ministro dei Lavori Pubblici del fascismo, è stato l’alfiere e uno degli ultimi grandi interpreti europei delle cosiddette “città di fondazione”. Da qui derivava quell’idea per cui le città possono essere plasmate – e persino create – dall’attività dello Stato. Il lungomare di Bari è una traduzione empirica di questa impostazione: la sua bellezza, la sua grandiosità, sono dovute alla presenza preponderante se non esclusiva di edifici pubblici. Il che ne ha fatto allo stesso tempo un grande monumento di fronte al mare e una grande barriera tra il mare e la città vissuta: quella delle abitazioni, dei commerci, delle professioni.

D’altro canto, il “connubio” tra le attitudini politiche più superficiali e  la volontà di onorare un debito, negli anni Cinquanta portò Bari a trasformarsi, per brevi ma intensi anni, in una roccaforte del  Qualunquismo e in un terreno di sperimentazione di un’alleanza di destra (missini, monarchici e qualunquisti) che nella vicina Fasano vide ascendere alla carica di Primo Cittadino – terza donna in Italia – Maria Checo Bianchi, al secolo “Donna Maria”.

Nonostante la presenza di Aldo Moro e di altre eminenti figure della sinistra democristiana, il lungo periodo durante il quale la Dc mantenne l’egemonia nelle terre del barese va letto in continuità con questa storia. Nell’essenza, non vi fu rottura né nella base sociale né nelle attitudini sub-culturali prevalenti del corpo elettorale. E questa tendenza alla continuità si è affermata persino al momento della grande vittoria dei socialisti, agli albori degli anni Novanta: l’affermazione socialista, infatti, è stata un modo per modernizzare una tradizione senza rinnegarla, perché si è basata ancora una volta sulla conquista dei ceti commerciali e produttivi della città, in chiave punitiva nei confronti della sinistra ideologica.

Bari, insomma, in politica ha cambiato sovente, fondamentalmente per restare fedele a sé stessa. Pinuccio Tatarella questo lo sapeva, e la sua azione politica in città e per la città partiva dalla comprensione profonda della sua essenza. Così come, anche nei momenti di più profonda delegittimazione del partito politico nel quale ha a lungo militato, egli sapeva che la vicenda politica barese mal si conciliava con la storia ufficiale di un Paese che aveva posto le sue fondamenta nell’anti-fascismo militante e aveva visto affermarsi una egemonia politico-culturale interamente sbilanciata verso sinistra. Ed è proprio da questa doppia consapevolezza che  si genera l’originalità politica della quale Pinuccio Tatarella ha saputo farsi interprete.

Nelle temperie della fine degli anni Settanta e dei primissimi anni Ottanta, io ero un giovane studente barese che stava ultimando un apprendistato adolescenziale nelle fila del Partito Radicale. Incontravo Pinuccio spesso in compagnia dell’avvocato Franco De Cataldo, mio indimenticato maestro, qualche altra volta da solo. Ricordo in particolare due cose, che allora comprendevo a stento e che negli anni della maturità mi sono apparse invece sempre più chiare: innanzi tutto la previsione che un giorno ci saremmo ritrovati, in quanto forze “escluse” dai confini ufficiali della Prima Repubblica; e poi l’affermazione – per il tempo quasi eversiva – per la quale  lui non si considerava un fascista bensì un anti-antifascista!

Tale definizione – lo compresi più tardi – esprimeva l’esigenza di allargare i confini della storia d’Italia, di dilatare la nozione di “arco costituzionale”, di giungere a una lettura più inclusiva che potesse comprendere anche l’essenza di quella che era stata la storia contemporanea e controcorrente della sua città.

Questa sua propensione all’apertura, all’ampliamento dei confini, all’inclusione, presentava anche dei risvolti molto pratici. Per diverse ragioni. Perché Tatarella faceva politica per strada, nei bar, nei caffè, nei ristoranti, nelle botteghe: per lui la politica era innanzi tutto contatto umano. E poi perché Pinuccio ha sempre rivendicato il suo ruolo di punto di riferimento politico della terra di Puglia, ma non ha mai preteso di esercitarlo in esclusiva e soprattutto non ne ha mai fatto discendere un atteggiamento escludente. Sapeva insomma che la Puglia era troppo grande per poter essere controllata da un uomo solo e da un solo uomo. Del resto, anche questo insegnamento gli derivava dalla conoscenza di Bari: se qui avevano potuto convivere Moro e Lattanzio, figuriamoci se nel centrodestra non ci sarebbe potuto essere spazio per più personalità di spicco!

Se si considera tutto ciò, non soltanto si coglie la robustezza delle radici popolari di Tatarella, ma si comprende anche per quale ragione la sua figura sia stata così importante nel 1994, al momento dell’avvento di una nuova stagione. In quella fase, infatti, in qualche modo si inverò a livello nazionale ciò che lui aveva elaborato nel laboratorio pugliese: la possibilità, cioè, che la storia d’Italia si aprisse, che abbattesse gli steccati, che arrivasse a legittimare e a ricomprendere realtà e propensioni che fino a quel momento ne erano state escluse. E, allo stesso tempo, la necessità che questo processo si compisse armoniosamente. Non come conflittuale rivendicazione ideologica, ma come necessità storica di andare oltre confini che non trovavano più una giustificazione nemmeno nelle dinamiche della geopolitica mondiale così come si erano sviluppate dopo la rottura dei blocchi.

Pinuccio seppe proiettare questo afflato nelle dinamiche della politica contingente. Lo seppe trasmette all’interno del suo partito, diventando uno dei motori della trasformazione del Movimento Sociale in Alleanza Nazionale. Lo seppe trasmettere nella coalizione, ritenendo che essa fosse ancor più importante delle forze che la componevano, e affermando per questo l’esigenza di allargarsi ancora di più, andando “oltre il Polo” (l’allora Polo delle Libertà). Lo seppe trasmettere nel governo, che in quella stagione tentò in tutti i modi di mettere al riparo dalle pur comprensibili istanze revansciste e ideologiche, cercando di promuovere quell’armonia che discende innanzi tutto dall’arte del buon governo (da qui l’appellativo di “ministro dell’armonia”).

Tatarella era refrattario all’affermazione di una identità fine a sé stessa, che avesse come scopo esclusivo la contrapposizione ad altre identità di segno opposto. Era dunque lontanissimo dalla tentazione di “rendere la pariglia” a chi aveva escluso una parte politica e una parte della storia d’Italia dal perimetro della legittimazione. Allo stesso tempo, però, non ha mai avuto l’attitudine a sottomettersi al solo fine di farsi accettare. Toccava alla politica allargare il proprio perimetro ricomprendendo ciò che era rimasto escluso, non agli esclusi inchinarsi per essere ammessi nel campo da gioco.

La sua essenza, insomma, era un riuscito amalgama di fermezza nei convincimenti di fondo e di duttilità rispetto alle strategie d’azione. Era la politica, che lui considerava a tutti gli effetti una risorsa, a dover trovare di volta in volta il punto di caduta e la sintesi possibile.

Questo amore per la forza della politica, questa capacità di interpretarla, e allo stesso tempo questa attitudine ad allargare e a includere, sono le caratteristiche che hanno fatto grande Pinuccio Tatarella e lo hanno reso indimenticato e indimenticabile. Forse è la lezione di uomini d’altri tempi. Forse non tornerà più. Ciò non toglie che oggi vi sarebbe un disperato bisogno di chi la sappia rinnovare.

 

 

 

Gaetano Quagliariello in ricordo di Paolo Ungari

 

Incontrai il professor Ungari nel 1982. Allora lavoravo alla tesi di laurea sulla storia della politica studentesca in Italia. E di quella storia Ungari era stato per una lunga stagione tra i maggiori protagonisti. Andai a trovarlo per raccoglierne la testimonianza e, eventualmente, per ricevere da lui qualche carta e qualche documento. Parlammo per quattro ore. Quando giunse il momento del congedo mi disse che, con ogni probabilità, la sua biblioteca ed il suo archivio custodivano molto di più di quanto lui era stato in grado di comunicarmi. Dopo un attimo di riflessione, mi consegnò un mazzo di chiavi. Mi fece presente che la sua vita era disordinata e senza orari. Se ci fossimo dati altri appuntamenti, avrei corso il rischio di attendere spesso invano fuori dalla porta di casa. Con le chiavi, invece, vi sarei potuto entrare a mio piacimento; avrei potuto rovistare tra carte e libri; rintracciare documenti ufficiali ed appunti fugaci.

Sulle prime restai perplesso di fronte a tanta disponibilità. Ma, ripresomi, accettai con entusiasmo: mi era stata offerta una possibilità unica di provare il mestiere del ricercatore. Iniziò così per me un lavoro di scavo si prolungò per molti mesi. Ogni giorno mi recavo alla mia miniera e me ne ritiravo sempre con un carico di materiale prezioso. Capitava che incontrassi il professore, o nelle stanze della sua abitazione ovvero sotto il portone, mentre io stavo entrando nei locali del suo “Centro Studi” (che si trovava al piano terra dello stesso immobile) e lui stava uscendo, quasi sempre trafelato, in ritardo sui tempi di un appuntamento. Le prime volte restò meravigliato, quasi dovesse fare uno sforzo per ricordarsi cosa ci facessi nei suoi territori. In seguito, i nostri incontri degli appuntamenti ritmati da una disordinata consuetudine. Ma sia che dovesse sforzare la sua memoria, sia che si trovasse in grave ritardo, non vi fu una sola volta che il professore evitò di soffermarsi per chiedermi delle mie ricerche, per arricchire i suoi precedenti racconti con un nuovo aneddoto, per propormi un caffè (o, preferibilmente, un gelato) nella adiacente Piazza Navona. Aveva voglia di continuare a stupirmi con la narrazione delle sue gesta goliardiche; aveva curiosità per cosa percepissi io di quella storia; desiderava ritrovare un legame con una stagione della sua vita nella quale erano racchiusi quasi tutti i suoi sogni. E dalla quale, anche volendolo, non avrebbe saputo distaccarsi.

In questi mesi mi è capitato spesso di ripensare a quell’incontro che ha generato una vicinanza prolungatasi per quasi vent’anni. Oggi che il professore non c’è più, esso mi appare come una metafora di un modo particolare e irripetibile di essere “maestro”. La metafora di un rapporto fatto di grande generosità intellettuale ed umana, ma incapace di sopportare la responsabilità accademica. Un rapporto in qualche modo fuori dal tempo dalle regole e pure, a suo modo, rispettosissimo delle tradizioni. Che ha evitato quasi tutte le tensioni legate alla vita universitaria e alle scadenze della “carriera”, ma che nemmeno una volta ha smarrito la consuetudine di auguri non formali per il Natale o la Pasqua. Un magistero che è stato anche a lungo interrotto da silenzi e distrazioni. Ma che sul lungo periodo ha preservato la sua continuità, grazie ad una prodigiosa capacità di “ritrovare il filo” e di colmare in un attimo le distanze.

Nel momento del ricordo – che è, per forza di cose, anche un po’ quello del bilancio – proprio queste peculiarità rendono più agevole ritrovare e isolare quanto di non effimero Ungari mi ha saputo trasmettere. A iniziare dalla impressione quasi immediata, e preservatasi nel tempo, di quanto fosse importante per lo studio trovare un alimento costante nella curiosità intellettuale. Una curiosità che in Ungari fu sentita al punto da rendere veramente difficile scorgere il confine tra la passione civile del politico e l’impegno del ricercatore. Si potrebbe persino ritenere che il professore non percepisse una reale distinzione tra i ruoli. Per lui, passione civile e studio hanno descritto un rapporto circolare: la ricerca ha rappresentato anche uno strumento per raggiungere immediati obiettivi d’avanzamento civile; la conoscenza della politica – delle sue costanti così come delle sue dinamiche – è stata un patrimonio del quale si è avvantaggiato per i suoi approfondimenti scientifici. In fondo, proprio da questa sua concezione dell’impegno sono derivate sia la sottovalutazione costante dei confini con i quali si suole suddividere in accademia le discipline, sia un senso di fastidio per le insistite discussioni sulla metodologia. Basterà solo un esempio per esemplificare il punto: nessuno più di Ungari è stato innamorato della politica e ha compreso il significato profondo della sua autonomia; ma non per questo nei suoi studi ha evitato di considerare la comunicazione costante che lega la decisione politica con l’evoluzione sociale. Le ricerche sulle società anonime, quelle sul diritto di famiglia, quelle consacrate all’evoluzione degli istituti e dei costumi parlamentari sono tutte sorrette dalla consapevolezza dell’obbligatorietà di questo rapporto. Alla medesima origine si può far risalire un’ulteriore caratteristica dei suoi studi: la convinzione dell’importanza relativa che, per la comprensione storica dei fenomeni, riveste la completezza della ricerca d’archivio.

Ungari, non casualmente, derivò da questa convinzione una grande considerazione per le fonti cosiddette minori. Chi ha consuetudine con i suoi archivi sa di quanti ritagli, documenti in apparenza marginali, scritti occasionali, può avvantaggiarsi la comprensione di uno studioso. Ricordo che nei primi tempi della nostra frequentazione, di fronte alla pedanteria del neofita, soleva dirmi: «Gaetano, è sempre meglio scrivere un libro senza note che delle note senza libro!». La sua produzione potrebbe persino far ritenere che, in qualche occasione, questa propensione sia sfociata nella presunzione. I suoi scritti più geniali, infatti, sono più degli “abbozzi di libro” che dei libri. Ma, d’altra parte, il segreto della loro attualità è racchiuso in questa caratteristica. Basterà pensare a quante curiosità inedite, voglia di approfondire e completare è stato in grado di suscitare il suo studio su Alfredo Rocco. C’è un’ultima ma non minore ragione per la quale il magistero di Paolo Ungari va ricordato. Un numero del 1966 della rivista «Il Cannocchiale» aiuta ad evidenziarlo.

In esso vi è contenuto un dibattito sul fascismo originato dalla pubblicazione del libro di Alberto Aquarone L’organizzazione dello Stato totalitario. A quel dibattito presero parte Rosario Romeo, lo stesso Aquarone, Franco Gaeta, Renzo De Felice e, per l’appunto, Paolo Ungari. L’accostamento dei nomi evidenzia come Ungari sia stato il più giovane esponente di una generazione di storici – forse l’ultima – per la quale le passioni e gli ideali risorgimentali hanno ancora avuto un significato di attualità. Anche per la consapevolezza d’incarnare gli ideali di una grande stagione che andavano sempre più trasformandosi in ideali minoritari, essi hanno avuto il merito di salvaguardare la criticità degli studi storici in un periodo della nostra vicenda nazionale nel quale il compito fu reso arduo dal dilagare del conformismo intellettuale. Ungari, per la sua collocazione generazionale, ha rappresentato il traid-d’union tra questi uomini e la generazione della quale anch’io faccio parte. Per onorarne la memoria ci si dovrà impegnare a non scordare che se oggi il nostro lavoro è meno difficile, se di fronte a noi l’orizzonte intellettuale ci appare più ampio, lo si deve anche all’opera di questi nostri “maggiori”. Ricordarlo significa assumere consapevolezza di quanta passione, di quanto coraggio ma anche di quanta solitudine sia stato nutrito il loro impegno.