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Dopo l’enciclica sull’amore, ecco la seconda lettera di Benedetto XVI, sulla speranza, Spe Salvi: un messaggio che oggi appare controcorrente. Viviamo in un tempo che è sotto il segno della crisi, letto addirittura come tempo della «fine» – fine della cultura occidentale, della modernità, della cristianità -, un’epoca caratterizzata da un senso di precarietà del presente e di incertezza del futuro, un tempo in cui l’incognita che ci sta davanti ci spaventa per l’imprevedibilità e per gli orizzonti asfittici che la caratterizzano.
Abitiamo un mondo che sembra sfuggire al nostro controllo e impedirci di capire dove stiamo andando. Tutto questo però non ha assopito la domanda che, magari con fatica, si apre un varco nel cuore umano: «Che cosa posso, cosa possiamo sperare?».
Ecco, la nuova enciclica di papa Benedetto XVI è una salda conferma della fede cristiana che è speranza, ma è anche un grande invito a sperare: con molta forza il testo torna a parlare delle «realtà invisibili», della «vita eterna», dell’escatologia come di un orizzonte che non può essere dimenticato né sottovalutato dai cristiani.
Un’enciclica di non facile lettura, certo, un testo che richiede dei «lettori» che sappiano veicolare il suo messaggio ai cristiani quotidiani e semplici, ma un testo magisteriale che con molta forza e audacia rimette al centro della vita cristiana verità su cui si balbettava appena qualcosa, quando addirittura non erano confinate nel silenzio.
C’è anche una rilettura della trasformazione della fede-speranza nel tempo moderno, nell’illuminismo e soprattutto nelle ideologie messianiche, rilettura che precisa meglio lo specifico della speranza cristiana e fa intravedere le derive possibili e l’affacciarsi della barbarie ogni volta che la speranza è riposta in realtà idolatriche e alienanti come il progresso e la rivoluzione, l’idolatria della ragione e della libertà.
Ma di altissima importanza restano le pagine finali che indicano luoghi di apprendimento e di esercizio della speranza: la preghiera, certo, la lotta contro il male e la sofferenza, ma soprattutto il «giudizio». Sì, il giudizio finale che Dio compirà nel suo giorno sulla storia e sull’umanità intera. Tema tralasciato anche dalla predicazione ordinaria eppure tema che non da oggi reputo decisivo per la responsabilità cristiana. I cristiani affermano nella loro professione di fede che in questo giudizio credono e che lo attendono come l’evento che instaurerà la giustizia, rendendola a tutti coloro che nella storia hanno subìto ingiustizie e oppressioni. Sì, se si toglie il giudizio emesso da Cristo sull’umanità, tutta la fede cristiana diventa risibile utopia.
Ma la consapevolezza e la fede nel giudizio innesca innanzitutto una responsabilità dell’uomo nella storia, alimenta l’attesa di un atto di Dio che metta fine al male e instauri la vita piena anche per quelli che nella vita si sono visti defraudare del bene, della pace e della felicità. Non a caso Benedetto XVI cita il grande filosofo Adorno che nel suo ragionare ateo afferma che una vera giustizia proveniente da uno sviluppo, da un progresso rivoluzionario, richiederebbe un mondo «in cui non solo la sofferenza presente fosse annullata … ma anche la sofferenza e l’ingiustizia del passato». E questo richiederebbe ciò che lui non poteva affermare, cioè la «risurrezione dei morti».
Sì, più che mai i cristiani devono avere il coraggio di esercitarsi alla speranza, nella consapevolezza del temibile e glorioso giudizio di Dio: non per averne paura o per incuterla agli altri, non per dare a Dio un volto perverso, ma per essere responsabili nella storia del bene e del male che possono operare.
L’invito che scaturisce da questa enciclica non è allora un’esortazione a sperare in modo individualistico, ma un appello a «sperare per tutti» e, quindi, a immettere energie di speranza nelle situazioni concrete in cui è dato ai cristiani di vivere: una speranza che ha fiducia, che si nutre di autentica fede. Passione per ciò che è possibile: questa è l’autentica speranza.

(da “La Stampa”)