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Questo numero di Ventunesimo secolo muove da una precisa ipotesi storiografica: la politica nel Vecchio Continente così come l’abbiamo studiata, descritta, praticata per oltre duecento anni, è definitivamente tramontata. Hanno vinto, infine, modelli caratterizzati da un minor tasso d’ideologia, da passioni più fredde, da partiti concepiti come strumenti atti a far funzionare le istituzioni, piuttosto che come piccoli Stati nello Stato.

Ha avuto ragione Max Weber e non il suo allievo Robert Michels. Quando questo spiegò al suo maestro «la legge ferrea delle oligarchie», sostenendo che i partiti di massa e d’integrazione sociale avrebbero offeso e ucciso la democrazia, in quanto conquistati da ristrette aristocrazie custodi delle tavole sacre dell’ideologia, Weber gli rispose di allungare lo sguardo oltre i confini del continente per scrutare il modo anglosassone. Era lì che si sarebbe potuto cogliere – a suo dire – qualche elemento in più per comprendere il paradigma politico del futuro.

Se avesse seguito il consiglio del maestro, Michels avrebbe scoperto il ruolo delle leadership carismatiche come contrappeso delle oligarchie e attraverso quali dinamiche il carisma avrebbe potuto integrare il funzionamento di un sistema democratico. Avrebbe forse compreso, infine, che il giudizio sul ruolo dei partiti non può esser dato guardando al loro funzionamento interno ma, piuttosto, al contributo che essi sono in grado di fornire all’esplicazione della sovranità del popolo.

La svolta della politica continentale sulla quale questo numero indaga si compie nel mentre due parabole storiche vanno contemporaneamente declinando. Con gli inizi del nuovo secolo, dopo duecento anni, si è esaurito il ciclo rivoluzionario inauguratosi con la Grande Rivoluzione del 1789: quello per il quale la politica è coincisa con l’idea stessa del cambiamento palingenetico, anche per chi a questa prospettiva è stato avverso, per rigetto radicale o per approccio riformistico. Contemporaneamente in Occidente è fallito il più grande esperimento d’ingegneria sociale che la storia dell’umanità abbia mai concepito. Sono trascorsi più di vent’anni, ormai, dalla caduta del Muro. Ma in termini storici, se si tiene conto della portata del fenomeno, si tratta di un’inezia.

Una delle tesi di questo numero, però, è che non tutto si può spiegare con il 1989 e con ciò che è accaduto nei decenni da allora trascorsi. La «rottura» del paradigma classico, piuttosto, è maturata lentamente: già nel corso dell’«ancien régime» e, più precisamente, già a partire dalla seconda metà del secolo scorso. Da quel momento in poi, infatti, il contesto internazionale, i mutamenti istituzionali, le evoluzioni del quadro politico interne ai diversi Paesi hanno spinto in un’unica direzione, negando progressivamente le caratteristiche di lungo periodo che la politica aveva assunto sul continente.

Il varo della V Repubblica in Francia può essere considerato, in tal senso, il momento iniziale di un rivolgimento storico profondo che si sarebbe prolungato nei decenni successivi, superando le apparenti contraddizioni e le aporie. Sicché, si può sostenere che solo l’Italia tra i grandi Paesi continentali, per adeguare il suo sistema politico alla nuova fase, abbia dovuto attendere fino al 1989. E ciò per una molteplicità di cause storiche che nei saggi qui raccolti si cerca d’indagare, la più rilevante delle quali resta però senz’altro la presenza nel nostro Paese del partito comunista più forte e politicamente attrezzato del mondo occidentale.

Da questa ricostruzione cronologica deriva, per diretta conseguenza, l’altra tesi importante che si evince dai saggi qui raccolti: questa rivoluzione silente, lentamente progredita fino al punto da non poter più essere contraddetta, prima ancora che politica e istituzionale, ha avuto un carattere sociale, derivante dal profondo mutamento del tempo e delle forme della partecipazione alla vita pubblica nell’organizzazione delle società contemporanee. La politica, piuttosto, ha fatto da freno al cambiamento e, nel limite del possibile, continua a svolgere questo ruolo. Sono state, invece, le mutate condizioni economiche, le inedite esigenze sociali delle donne e degli uomini in carne e ossa, le loro nuove aspirazioni, le inedite aspettative di ascesa sociale e, soprattutto, i progressi della tecnica e delle comunicazioni a far fallire quel partito che integrava la persona in una sorta di piccola società, caposaldo del modello politico continentale.

Per descrivere e analizzare come questa rivoluzione silente è proceduta, per rintracciarne le scansioni interne, le grandi tappe e per capire infine come essa si sia adattata ai vari contesti nazionali, si è privilegiato un approccio comparato soffermandosi sulle transizioni di tre grandi Paesi: Francia, Spagna e Italia. Questa scelta consente di studiare il cambiamento in tre periodi storici differenti caratterizzati da contesti internazionali assai diversi.

La transizione francese si compie, infatti, alla fine degli anni Cinquanta; quella spagnola nel corso degli anni Settanta e quella italiana, infine, nell’ultimo decennio del secolo scorso.

Non solo: le tre transizioni, sotto il profilo istituzionale, avvengono secondo modalità assolutamente differenti al punto da descrivere, tutte insieme, una sorta di catalogo ideale delle «transizioni possibili». Quella francese si produce, infatti, per «rottura», con il varo della V Repubblica che, almeno nelle apparenze, giunge a contraddire il regime precedente spregiativamente denominato «repubblica dei partiti». Quella spagnola, di contro, è caratterizzata da un patto tra i protagonisti del vecchio e del nuovo tempo politico, al punto che le istituzioni della nuova democrazia utilizzano, per affermarsi, le regole istituzionali fissate dal precedente regime autoritario. Quella italiana, infine, descrive un caso ancora differente. Perché un cambiamento profondo dei vecchi soggetti politici – dei partiti non meno che degli uomini – ha convissuto con una continuità istituzionale quasi assoluta in quanto, nei suoi meccanismi di fondo, il funzionamento della Repubblica non si discosta troppo da quello fissato nel 1948 dai padri costituenti.

L’analisi di questa combinazione di casi storici presenta un indiscutibile pregio: da un canto fa comprendere quale peso abbiano avuto le istituzioni nel determinare gli sviluppi dei differenti contesti nazionali, impedendo di considerarle mere «sovrastrutture» così come da tentazione marxiana. Dall’altro sottolinea anche l’azione di forze storiche più profonde in grado d’indirizzare, infine, il corso delle cose pur non potendo certo annullare il peso delle variabili cronologiche, politiche, culturali e delle conseguenze di breve periodo. L’analisi delle differenti transizioni, dunque, nei saggi raccolti, si perfeziona attraverso l’interazione tra questi motivi di fondo.

Infine, vorrei soffermarmi brevemente su due aspetti: rispondere a un’obiezione sull’architettura del numero che si propone naturale e avanzare una considerazione più generale sul tema in oggetto, che esula da un coerente approccio storico

Tra i Paesi indagati manca la Germania. E per il peso che essa ha avuto nella politica continentale – basti pensare alla nascita e all’evoluzione del welfare state – l’assenza potrebbe apparire una lacuna grave. Se però ci si pone dal punto di vista delle transizioni interne al modello democratico, e l’indagine si concentra sull’evoluzione delle democrazie a partire dall’immediato secondo dopoguerra, l’omissione trova una sua giustificazione. La Germa-nia, infatti, non ha conosciuto il problema delle forze antisistema e del loro progressivo assorbimento, centrale nell’approccio analitico qui privilegiato. Quel nodo, infatti, venne sciolto a monte dal contesto storico-politico e da come esso fu recepito dalle Leggi Fondamentali. Il passato recente della nazione determinò la messa al bando dell’estrema destra mentre la divisione del Paese in due, nonché l’influenza degli alleati, risolse il problema della presenza comunista. Sicché la Germania nel corso del secondo dopoguerra non ha avuto bisogno di alcun mutamento – né formale né materiale – dell’originario modello di funzionamento istituzionale. Al più, dopo la riunificazione, ha sperimentato il non facile adattamento dello schema originario a una realtà più complessa.

Per finire, la considerazione d’ordine generale. Il mutamento sul quale questo numero concentra l’attenzione non viene certo indagato qui per la prima volta. Esso, però, è stato fino ad oggi oggetto di approcci prevalentemente pubblicistici o politologici, piuttosto che storici. Si è così discusso del passaggio da una fase in cui la democrazia si è svolta prevalentemente all’interno dei partiti a una nuova realtà nella quale lo scettro è passato, piuttosto, nelle mani degli elettori. E questa transizione è stata riassunta con la formula: dalla democrazia dei partiti alla democrazia degli elettori. Con più coerenza, per i mutamenti sociologici connessi a questa dinamica, c’è chi ha definito il nuovo paradigma «democrazia del pubblico».

Sono pochi, però, coloro i quali hanno espresso un’opinione positiva su questa formula. I più hanno ritenuto che essa incarni una definizione negativa, in quanto rimanderebbe a una concezione leaderistico-plebiscitaria della politica. Non compete alle analisi storiche esprimere giudizi di valore e, tanto meno, riportarli al dibattito attuale. Ma se questo numero, incidentalmente, riuscirà a sollevare qualche dubbio e far riflettere, in controtendenza, su come la trasformazione della politica alla quale stiamo assistendo nel Vecchio Continente abbia incrementato il grado di rappresentatività dei sistemi politici – caratterizzati oggi da una organizzazione e da una gestione delle istanze e del consenso molto più rapida ed efficace di quanto avveniva nei sistemi in cui tutto era filtrato da organizzazioni d’integrazione sociale articolate e complesse – esso avrà offerto un piccolo contributo per rendere più critico e meno aprioristico il dibattito su un aspetto rilevante della nostra attualità.