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Cittadinanza e integrazione: non è questione di ideologia e neppure di bon ton. Al di là delle parolacce e dei falli di reazione, inizia a intravedersi un’autentica linea di frattura.

Fin qui si è ritenuto che cittadinanza e integrazione fossero fenomeni correlati. Che, dunque, la cittadinanza debba essere considerata uno strumento attraverso il quale agevolare l’integrazione, evitando la ghettizzazione dell’immigrato e, ancor più, il riflesso razzistico nei suoi confronti.

Quest’idea – che, lo diciamo subito, non condividiamo – ha prodotto in automatico alcune conseguenze politiche: gli appelli a non inseguire la Lega; la ricerca d’intese bipartisan e l’orgoglio politicamente corretto d’averle raggiunte a prescindere dal proprio partito e dal sentire del proprio elettorato; le leggi per accorciare i tempi d’acquisizione della cittadinanza; la disponibilità a concedere agli immigrati il diritto di voto, magari accompagnandolo col divieto alquanto bislacco di promuovere liste fondate su presupposti identitari.

Negli stessi ambienti in cui tali proposte maturano, si è diffusa l’idea per cui chi vi si oppone sia in realtà ostaggio di paure ancestrali, sia incapace di fare i conti con un fenomeno epocale ineluttabile, di gestire i conflitti dovuti all’arrivo massiccio di immigrati considerando la sicurezza l’unica possibile chiave di lettura.

Si tratta, però, di una contrapposizione di maniera, distante da una comprensione effettiva delle caratteristiche che il fenomeno migratorio ha assunto nel nuovo secolo. Oggi, infatti, non è più vero – o non è per nulla scontato – che quanti approdano nel nostro Paese spinti dalla convenienza, e a volte dalla disperazione, abbiano intenzione di rimanere in Italia a lungo. E tanto meno che intendano condividere gli oneri e gli onori dell’essere cittadini italiani.

Nell’età della globalizzazione, mentre le identità nazionali si scoloriscono e si fanno più incerte, i flussi migratori diventano più ampi, veloci e complessi. Sempre più spesso gli immigrati dopo aver lasciato il Paese d’origine intraprendono percorsi che li conducono da un luogo all’altro prima di scegliere l’approdo finale. Altri ancora – anche in questo caso in misura maggiore rispetto al passato – vivono l’esperienza migratoria come una parentesi più o meno lunga in vista di un ritorno nella terra d’origine.

Se ne può trarre una conclusione: cittadinanza e integrazione sono termini che si vanno allontanando, uniti nel vissuto concreto da correlazioni sempre più labili e incerte. E poiché la politica molto spesso è governata dalle conseguenze non volute, è facile prevedere che la concessione della “cittadinanza facile”, rendendo sempre più liquida la nozione dell’interesse nazionale, sul lungo periodo potrebbe rivelarsi un fattore di disgregazione assai più che uno strumento per integrare.

La vera linea di frattura, dunque, non è tra buoni e cattivi. E neppure tra chi ritiene l’immigrazione una risorsa e quanti invece la considerano un pericolo. Per rendersene conto basta dare uno sguardo al dibattito che si svolge in Gran Bretagna e Francia, le vecchie potenze imperiali. Il vero spartiacque è tra quanti ritengono che l’acquisizione della cittadinanza possa discendere dal trascorrere del tempo – di un tempo sempre più breve -, e quanti vorrebbero legarla a comportamenti attivi che testimonino la volontà di entrare a far parte di una comunità nazionale.

Solo in presenza di simili comportamenti, infatti, c’è una vera integrazione; e solo in questo modo il rischio delle liste etniche e religiose, denunziato da Angelo Panebianco qualche giorno fa sul Corriere della Sera, può essere prevenuto senza ricorrere a inutili e ridicoli divieti o a dichiarazioni d’intenti che lasciano il tempo che trovano.

La proposta lanciata ieri dal ministro Sacconi della cittadinanza a punti va in questo senso. Essa riprende una suggestione contenuta in un documento della Fondazione Magna Carta. Ha registrato l’interesse di Pier Ferdinando Casini e anche negli ambienti ecclesiali inizia ad essere considerata con interesse, mettendo in crisi l’approccio superficialmente buonista degli Sciortino e dei Marchetto. Mi sembra giunto il momento di precisarla e articolarla, costruendo intorno ad essa un fronte culturale, politico e infine anche parlamentare.