08 Febbraio 2011  

La Costituzione economica è da riformare?

Redazione

Cinque domande e alcune risposte sulla Costituzione economica italiana 

Le riforme costituzionali sono state negli ultimi trent’anni al centro del dibattito politico: progetti di legge, commissioni bicamerali, leggi costituzionali, referendum confermativi si sono succeduti, spesso in modo affannoso e incoerente, nel tentativo di aggiornare la Carta del 1948, adeguandola ai profondi mutamenti sociali, culturali e politici intervenuti negli ultimi sessant’anni. Eppure, la cosiddetta “Costituzione economica” è rimasta ai margini della scena. Le analisi scientifiche, le riflessioni culturali, le proposte politiche relative alle disposizioni costituzionali che governano le attività economiche e il rapporto fra Stato e mercato sono rimaste appannaggio di una ristretta cerchia di studiosi e appassionati della materia o, al massimo, si sono tradotte in sporadiche e temerarie iniziative parlamentari. Eppure, probabilmente, la sezione economica della nostra Carta fondamentale è quella che mostra di più i segni dell’usura del tempo. Nel lasso di tempo intercorso dalla sua approvazione si sono, infatti, profondamente modificati tutti gli elementi fondamentali del contesto politico ed economico, interno e internazionale, che caratterizzava l’Italia, l’Europa e il mondo stesso alla fine della seconda guerra mondiale. Avviare una riflessione seria e approfondita sulla questione appare oggi fondamentale. E non solo perché negli ultimi mesi si è verificata un’improvvisa e inaspettata ripresa dell’attenzione politica su questi temi. Il sistema politico e istituzionale italiano attraversa da diversi anni un difficile e faticoso processo di transizione. E non c’è dubbio che questo processo potrà dirsi definitivamente ed efficacemente compiuto solo quando anche sui principi e sui vincoli costituzionali in materia economica sarà stata raggiunta un’ampia condivisione su un nuovo testo che ponga  fine all’attuale stato di dissociazione fra la Costituzione economica formale e la Costituzione economica materiale.  

1. È necessaria una Costituzione economica?

Prima di affrontare il tema della possibilità e della opportunità di riformare la Costituzione economica italiana è necessario porsi una domanda di fondo: ma è poi davvero necessaria una Costituzione economica? Non si tratta di una domanda retorica o paradossale. Anzi, affrontare la questione può essere utile per meglio ricostruire i caratteri fondamentali della nostra Costituzione e per affrontare il tema delle sue prospettive di riforma. Due sono le prospettive dalle quali è possibile partire. Dal punto di vista teorico, occorre sottolineare come il nucleo essenziale di ogni Costituzione sia costituito dalla (solenne) affermazione di alcuni diritti e di alcune libertà fondamentali degli individui. Diritti e libertà la cui sanzione costituzionale determina l’indisponibilità da parte del potere politico costituito. Una società in cui la moltitudine degli individui sia sottoposta al potere assoluto – come già evidenziato da un pensatore come Hegel (Lineamenti di filosofia del diritto), che non può essere certo considerato un campione del pensiero costituzionale liberale – non ha per definizione una Costituzione in senso proprio. Libertà e uguaglianza sono le due polarità attorno a cui si struttura una Costituzione, la quale, nello stesso momento in cui riconosce e garantisce questi due valori, chiarisce e legittima anche le forme e i limiti degli interventi che comprimono, limitano o condizionano gli stessi. Conseguentemente le carte costituzionali prevedono una organizzazione dei poteri pubblici idonea a garantire il pieno rispetto delle libertà e dei diritti riconosciuti agli individui. Il principio di separazione dei poteri, la legittimazione democratica dei poteri legislativo ed esecutivo, la superiorità del governo delle leggi su quello degli uomini, sono gli strumenti fondamentali per la tutela dei diritti e delle libertà individuali e per la garanzia dell’uguaglianza dei cittadini. La stessa Dichiarazione dei diritti del 1789, all’articolo 16, chiarisce che “Ogni società in cui la garanzia dei diritti non è assicurata e la separazione dei poteri non è stabilita non ha una Costituzione”. Alla luce di queste premesse non appare facilmente iscrivibile nella prospettiva costituzionale classica la previsione di un dettagliato quadro di norme costituzionali dirette a regolare per linee generali i diversi settori del sistema economico del Paese. È naturale che le Costituzioni svolgano anche un’essenziale funzione identitaria, perché, prima e al di là della fissazione di regole sovraordinate rispetto a quelle prodotte ordinariamente dai pubblici poteri, esprimono l’idea di sé di una collettività. Definiscono l’identità di un popolo che è un prerequisito perché il medesimo popolo senta di appartenere ad una collettività e, quindi, riconosca la cogenza di tali regole. È però da sottolineare come tale funzione “identitaria” rappresenti l’in sé della Costituzione. Più che tradursi in puntuali previsioni normative, caratterizza ed attraversa l’intero testo della Carta. E in ogni caso un’eventuale traduzione testuale viene normalmente svolta in sede di preambolo o di principi generali. Rappresenta, viceversa, un elemento di originalità la scelta della nostra Costituzione di declinare tale profilo “identitario” attraverso numerosi e puntuali articoli dedicati alle attività economiche. Articoli che spaziano dall’attività di impresa alla programmazione economica, dalla funzione sociale della proprietà pubblica e privata alla bonifica delle terre ed alla trasformazione del latifondo, dalla tutela delle zone montane alla piccola proprietà contadina, dal diritto alla giusta e sufficiente retribuzione alla partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese, dal credito all’azionariato popolare, dalla cooperazione all’artigianato. E che si tratti di un elemento di originalità della nostra Carta fondamentale (certo non il solo, forse non il più rilevante) è del resto confermato volgendo lo sguardo alle Costituzioni dei più avanzati ordinamenti stranieri, le quali o ignorano del tutto le attività economiche o si limitano a rendere esplicita la garanzia costituzionale della proprietà privata, prevedendo le condizioni per l’espropriazione per pubblica utilità, e della libera iniziativa economica. Si prenda, ad esempio, la coeva Costituzione della Repubblica Federale Tedesca, adottata nel medesimo periodo storico e in un contesto socio-politico per molti versi analogo al nostro, la quale alla materia economica dedica un articolo, l’articolo 14, che sancisce la tutela della proprietà privata e fissa i limiti per l’esproprio dei beni privati, ed un altro, l’articolo 15, che prevede genericamente la possibilità di nazionalizzare imprese previo indennizzo. Oppure si consideri anche la Costituzione della V Repubblica francese del tutto priva di disposizioni in materia economica. E quando, come nel caso della Costituzione della Repubblica confederale elvetica (della fine del XIX secolo e da allora ripetutamente modificata), si riscontra una serie articolata e puntuale di norme in materia economica, si tratta di disposizioni essenzialmente finalizzate a regolare i rapporti fra la Confederazione ed i cantoni. Tra le costituzioni vigenti nei paesi dell’Unione europea l’unica che contiene una sezione economica paragonabile alla Costituzione economica italiana è quella portoghese del 1976, la quale, peraltro, si avvicina molto al modello delle costituzioni socialiste e, già in sede di preambolo, sancisce solennemente la volontà costituente (rimasta inattuata) di “intraprendere la strada verso una società socialista”. E del resto, occorre ricordare come la Costituzione della Repubblica portoghese sia stata oggetto negli ultimi trentacinque anni di numerose revisioni, alcune delle quali dirette proprio ad eliminare quella “accentuazione anticapitalistica” (come la definisce il costituzionalista portoghese Jorge Miranda) sconosciuta alle altre costituzioni europee stabilizzate. 

2. Perché l’Italia ha una Costituzione economica?  

Le ragioni storiche e politiche di tale originalità risiedono, a mio avviso, nei caratteri fondamentali della nostra Costituzione, i quali a loro volta derivano dal particolare contesto storico, politico e culturale in cui avvenne la stesura del testo costituzionale. Volendo inquadrare la Costituzione del ’48 attraverso le categorie classificatorie elaborate dalla dottrina, potremmo dire che la nostra è una Costituzione di natura chiusa, assiologica e “armistiziale”. “Chiusa” ovvero fondativa di un ordine giuridico e non, come nel modello delle Costituzioni aperte, tipico del costituzionalismo del XVIII e XIX secolo, ricognitiva di un ordine presupposto. Ma la nostra Costituzione, a differenza delle altre Costituzioni di tipo chiuso, tipiche del costituzionalismo del XX secolo, non si limita a definire un sistema di regole limitative dei poteri pubblici e regolative dei rapporti fra questi ultimi, nella prospettiva di garantire la pacifica convivenza civile. La nostra è una Costituzione con spiccata valenza assiologica ovvero esprime un complesso sistema di valori secondo un modello nel quale iussum coincide con iustum. E questa valenza assiologia trova proprio nella sezione economica la sua manifestazione più esplicita. A complicare la situazione, tuttavia, vi è anche un’altra circostanza: il generale contesto storico dell’Italia e le concrete vicende che accompagnarono l’elaborazione e l’adozione della Costituzione determinarono anche il carattere evidentemente “armistiziale” della nostra Carta fondamentale. Un carattere “armistiziale” che derivava non tanto dal conflitto fra vincitori e vinti, che portò alla nascita della Repubblica, quanto dal conflitto interno all’alleanza delle forze politiche, sociali e militari risultate vincitrici. E non si trattò del fisiologico conflitto fra soggetti portatori di posizioni politiche diverse ma uniti da una comune visione del mondo. Il conflitto aveva natura “esistenziale”, perché relativo ai principi fondamentali del vivere comune e perché ciascuno temeva che dal successo dell’altro potessero derivare pericoli per la propria stessa sopravvivenza. Ma proprio il carattere al tempo stesso chiuso, assiologico e “armistiziale” della nostra Costituzione ne condizionò in profondità i contenuti iniziali e le vicende successive. Si pensi, in primo luogo, al carattere indefinito, quando non ambiguo, di alcune sue solenni affermazioni, la cui puntuale definizione fu il prodotto della faticosa ricerca di un punto di equilibrio fra concezioni politiche inconciliabili. Una faticosa attività di composizione che, da un lato, conferì al testo un’elevatissima qualità lessicale e linguistica ma, dall’altro, determinò il carattere ambiguo, quando non evanescente, di alcune norme. Già l’incipit, “L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro”, derivante dai successivi affinamenti della iniziale proposta di sancire “L’Italia è una Repubblica democratica dei lavoratori”, rappresenta un raffinato tentativo di conciliazione di opposte visioni politiche, che però finisce per scolorire il valore normativo della disposizione e per rendere sfuggente lo stesso suo valore semantico. Si pensi ancora al fondamentale articolo 42, primo comma, “La proprietà è pubblica o privata”, che, riletto oggi, si presenta come una mera tautologia, a meno di non volerne rintracciare il valore semantico nell’ordine (evidentemente non alfabetico) nel quale le due categorie di proprietà sono indicate. E del resto il carattere di “indeterminatezza” di alcune parti della Costituzione (ed in particolare della sua sezione economica) è stato anche alla base dei due diversi modi di leggere la nostra Carta, che, in modo differente, hanno attraversato tutto il periodo della sua vigenza. Da un lato, quello di chi, ancorato ai modelli consolidati del Costituzionalismo liberal-democratico, nell’interpretazione delle norme costituzionali pone l’accento sulla loro funzione di limite alla discrezionalità del legislatore ordinario. Dall’altro, quello di chi, esaltando la funzione assiologia della Carta. è indotto a configurarla come una sorta di programma costituzionale di governo, il quale deve conformare l’azione dei governi e la produzione legislativa del Parlamento. E in questa prospettiva deve essere inquadrato tutto quel filone di riflessione culturale e scientifica e di polemica politica che in questi anni ha in vario modo denunciato non – come sarebbe lecito attendersi – la violazione ma l’inattuazione (?!) della Costituzione.

3. Quale è stata la resa della nostra Costituzione economica?

La successiva domanda a cui occorre dare risposta per affrontare la questione delle prospettive di riforma della Costituzione economica riguarda la sua “capacità propulsiva”. Ovvero, in che misura la Carta fondamentale è riuscita a sostenere e a favorire lo sviluppo economico realizzato dall’Italia, pur con limiti e contraddizioni, negli ultimi sessant’anni? E in che misura i problemi economici che oggi abbiamo di fronte (alto debito pubblico, scarsa competitività, apparati pubblici pletorici e inefficienti, iperegolamentazione delle attività economico- produttive, burocratizzazione della vita sociale) si sono determinati con il concorso delle previsioni costituzionali? La risposta a queste domande è naturalmente assai più complessa e incerta ma si possono svolgere almeno due considerazioni. Da un lato, è indubitabile che le singole norme della Costituzione economica, ed in particolare quelle che più presentano un carattere ambivalente e indeterminato, negli ultimi sessant’anni siano state interpretate, anche con il concorso della Corte costituzionale, in modo sostanzialmente coerente con i principi del libero mercato, e che ciò ha reso possibile l’importante progresso economico e sociale realizzato dall’Italia a partire dal secondo dopoguerra. Al tempo stesso appare difficile contestare che almeno alcuni dei problemi e delle criticità che caratterizzano in modo strutturale il nostro sistema si sono potuti verificare anche perché gli argini costituzionali erano assenti o si sono rivelati insufficienti. Si prenda, ad esempio, lo stato della finanza pubblica, che rappresenta l’esempio più evidente di fallimento delle previsioni costituzionali. Nonostante i vincoli rigorosi posti dall’articolo 81 (natura formale della legge di bilancio e obbligo di copertura finanziaria delle leggi di spesa), il nostro Paese registra il secondo debito pubblico fra tutti i paesi avanzati. Ed infatti, il meccanismo delineato in Costituzione, che rappresenta un’originale applicazione del principio di “spontaneità ed unanimità nell’approvazione delle imposte”, elaborato sul finire del XIX secolo da Knut Wicksell per garantire la responsabilità finanziaria delle decisioni di spesa, doveva servire nelle intenzioni dei proponenti (Luigi Einaudi e Ezio Vanoni) ad assicurare il pareggio tendenziale del bilancio pubblico. Tale meccanismo, tuttavia, si rivelò ben presto del tutto incapace di governare le impetuose tendenze all’espansione della spesa pubblica e alla lievitazione del deficit di bilancio registratesi in tutti i paesi occidentali. E così, dopo decenni di crescita ininterrotta dei disavanzi annuali di bilancio, l’Italia è riuscita finalmente a mettere la finanza pubblica sotto controllo solo quando, grazie all’introduzione di un vincolo esogeno, è stato posto un argine efficace alla nostra discrezionalità finanziaria. In altri casi è possibile, invece, ritenere che il verificarsi di criticità del nostro sistema economico sia stato consentito, se non favorito, dalla mancanza di precise indicazioni costituzionali. Rileggendo oggi la Costituzione, colpisce, ad esempio, il carattere condizionato del riconoscimento della libertà di iniziativa economica, la mancanza di un qualunque richiamo ai principi della libera concorrenza come essenziale meccanismo di funzionamento del mercato o l’ampiezza della previsione relativa alle forme e ai contenuti dell’intervento diretto dello Stato nell’economia. Il baricentro dell’impianto culturale della Costituzione economica è rappresentato dai produttori (lavoratori, imprese pubbliche, imprese private) mentre è del tutto assente la categoria del consumatore, che viceversa rappresenta l’architrave dell’economia di mercato. Ed anche la scarsa competitività del sistema Paese, frenato dalla regolamentazione a volte eccessiva e burocratica delle attività economiche, ha trovato una legittimazione istituzionale nell’ampiezza della previsione costituzionale sui programmi e i controlli che possono essere introdotti per indirizzare a fini sociali l’attività economica (ancora una volta, prima, pubblica e, poi, privata, secondo l’articolo 41). Da questo punto di vista il testo della Costituzione risente in modo evidente del contesto storico nel quale fu redatto. Un paese da ricostruire dopo la fine della seconda guerra mondiale e un’economia internazionale bloccata dagli eventi bellici, con un basso interscambio commerciale, rendevano inimmaginabile quello spettacolare processo di crescita che le economie occidentali avrebbero realizzato a partire dagli anni Cinquanta. In particolare, l’assenza di qualunque segnale che potesse far prevedere il processo di globalizzazione economica, l’integrazione economica europea, l’emersione di nuovi protagonisti dell’economia mondiale, limitavano l’orizzonte culturale dei costituenti all’interno dell’orizzonte dello Stato Nazione nel cui ambito chiuso si immaginava dovesse interamente (o quasi) svolgersi il processo economico. 

4. È attuale la nostra Costituzione economica? 

E proprio il forte legame che esiste fra la Costituzione economica e il contesto sociale ed economico del tempo fa naturalmente sorgere il dubbio sull’attualità e sull’adeguatezza delle previsioni costituzionali. Nel corso degli ultimi sessant’anni sono intervenute novità così profonde da sconvolgere il quadro al cui interno si sviluppano i processi economici. E non si tratta solo delle modifiche di contesto, derivanti dall’evoluzione del sistema economico internazionale. Si tratta, soprattutto, delle fondamentali modifiche istituzionali che hanno radicalmente cambiato forme e contenuti del ruolo dello Stato nell’economia. In particolare, l’avanzare del processo d’integrazione europea e l’adesione dell’Italia all’Unione monetaria europea ha inciso in profondità sulla sovranità dello Stato in materia economica, su tutti gli ambiti di tale sovranità: la sovranità monetaria, la sovranità finanziaria, la sovranità economica. Ciò è evidente per quanto concerne la sovranità monetaria: con l’adesione all’UEM l’Italia ha del tutto rinunciato ad un potere che storicamente ha rappresentato un meccanismo essenziale (anche se usato a volte in modo perverso) della politica economica dello Stato. Ma anche in materia di finanza pubblica, con la sottoscrizione del patto di stabilità dei protocolli per il contenimento dei disavanzi pubblici eccessivi (che ha rappresentato una condizione essenziale per l’adozione della moneta unica), l’Italia ha rinunciato ad una parte della propria sovranità di bilancio. Perché se è indubitabile, come è stato segnalato dalla dottrina, che non è corretto sostenere che con il Trattato di Maastricht, e con i successivi protocolli, sia stato introdotto un formale vincolo al pareggio del bilancio dello Stato, tali innovazioni non possono essere declassate a novità di carattere meramente pattizio e procedimentale, come pure alcuni autori hanno tentato di fare. La fissazione di una regola che, per quanto articolata, “procedimentalizzata” e “flessibilizzata”, rimane una regola di natura comunque quantitativa, la previsione di una complessa trama di rapporti fra Stati ed Unione europea nella fase di fissazione degli obiettivi di indebitamento, in quella di verifica dei risultati e in quella, ancor più delicata, di applicazione delle sanzioni in caso di disavanzi eccessivi, hanno radicalmente compresso la discrezionalità finanziaria dello Stato, introducendo nella politica di bilancio elementi di eterodeterminazione che incidono profondamente sulla sua sovranità. Ma, a ben vedere, un processo analogo, ancorché meno profondo e spettacolare, ha riguardato anche la sovranità dello Stato nella politica economica. In particolare, con intensità crescente nel corso degli ultimi vent’anni, l’Unione europea è intervenuta, in forza delle previsioni di cui agli articoli 81 e 82 del Trattato, in modo assai incisivo sulla politica della concorrenza riferita alle relazioni economiche che si svolgono nella spazio economico europeo ma anche in quelle interne ai singoli Stati membri. E gli interventi comunitari in questa materia hanno determinato la progressiva erosione di una parte assai significativa dello strumentario di politica economica e industriale che era stato ampiamente utilizzato nel primo cinquantennio della Repubblica. In particolare, oggi è molto più rigoroso e delimitato lo spazio entro il quale lo Stato può far ricorso ai sussidi pubblici in favore di imprese private e alla gestione diretta di attività di impresa attraverso la partecipazione a società commerciali o la creazione di enti pubblici economici. Ed infatti, sebbene il trattato dell’Unione europea rimanga sostanzialmente indifferente rispetto al regime proprietario delle imprese (art. 295) e si occupi degli aiuti pubblici alle imprese solo in relazione ai possibili effetti negativi sul processo di costruzione del mercato unico (art. 87), negli ultimi anni la politica di apertura dei mercati e di promozione della concorrenza ha indotto l’Unione a porre limiti molto stringenti all’intervento degli Stati. In particolare, sia l’erogazione di sussidi alle imprese (pubbliche o private) sia la gestione diretta di attività economiche da parte dello Stato (anche nella forma della partecipazione indiretta o della società mista) sono state rigidamente ancorate alla categoria del servizio di interesse economico generale ovvero del servizio che, per la presenza di un market failure, non può essere completamente remunerato dal mercato. Ma in tal modo, pur partendo dalla semplice prospettiva della tutela del mercato e della concorrenza interna, l’Unione europea ha finito per assumere su di sé la funzione, assai più delicata e tipicamente costituzionale, di delimitare l’area e di fissare i criteri dell’intervento dello Stato in economia e di regolazione dei rapporti fra Stato e mercato, che poi altro non sono che una specifica categoria di rapporti fra autorità e libertà. 

5. Occorre cambiare la nostra Costituzione economica?  

Alla luce delle considerazioni svolte, la risposta a tale domanda potrebbe apparire scontata. Rispetto al 1948 sono profondamente cambiati tutti gli elementi fondamentali del contesto in cui la Costituzione economica è stata redatta, e sembrerebbe, quindi, naturale procedere ad un suo aggiornamento. È, in primo luogo, cambiata in profondità la cultura politica generale dell’Italia. Oggi sono venute meno le ragioni storiche della Costituzione “armistiziale” e i valori dell’economia sociale di mercato, per quanto declinati in modo differente, sono entrati stabilmente a far parte della coscienza politica condivisa del nostro Paese. È cambiato anche il contesto economico internazionale, che, in forza della sua sempre maggiore integrazione, riduce per forza di cose gli spazi di autonomia delle politiche economiche nazionali, tendenti, per i forti legami di interdipendenza, necessariamente a convergere. Ma sono probabilmente i vincoli di natura monetaria, finanziaria ed economica, derivanti dalla nostra partecipazione all’Unione europea, ad avere maggiormente inciso nel processo di obsolescenza della nostra Costituzione economica. Nonostante l’evidenza di tali ragioni, tuttavia, il tema della Costituzione economica non è mai riuscito ad entrare stabilmente da protagonista nel dibattito politico. Se gli ultimi vent’anni sono stati caratterizzati da tentativi, più o meno riusciti, di porre mano ad un aggiornamento, anche profondo e complessivo, della nostra Costituzione, il tema della riforma della Costituzione economica è sinora rimasto ai margini, terreno per la riflessione degli studiosi o, al massimo, per iniziative politiche temerarie o, comunque, episodiche. Eppure, per il raffreddamento del confronto politico sui temi economici e per la minore incidenza della Costituzione economica sugli immediati equilibri politici e di potere, dovrebbe essere più agevole raggiungere un’ampia intesa costituente proprio su questo terreno. Viceversa sembra quasi di essere di fronte ad una sorta di interdetto linguistico, ad una rimozione culturale del tema. Quali sono le cause di tale fenomeno? Probabilmente, la ragione del prevalente disinteresse sui temi della Costituzione economica è di mera tattica politica e risiede nella diffusa convinzione che la questione presenti un rapporto costi-benefici assai sfavorevole. Nonostante l’evoluzione della cultura politica italiana, nonostante il tramonto delle ideologie novecentesche, nonostante la generale accettazione dei sistemi economici capitalistici (pur con tutte le sfumature, le correzioni e i distinguo possibili), nonostante la convinta adesione all’Unione europea, alla sua cultura economica e ai suoi vincoli politici, è probabile, infatti, che l’apertura di questo capitolo riaprirebbe vecchie fratture e causerebbe nuove lacerazioni, con ciò determinando un costo politico non giustificato dal beneficio che potrebbe ragionevolmente sperarsi di conseguire. In effetti, tutto sommato grazie a quei fattori di cambiamento descritti, e in particolare grazie alla disciplina europea, negli ultimi vent’anni il nostro Paese sembra aver raggiunto, a Costituzione invariata, un equilibrio accettabile nella finanza pubblica, nell’apertura del mercato e nelle liberalizzazioni, nell’arretramento dello Stato imprenditore. Si tratta di argomenti ispirati alla “ragion politica”, che hanno un indubbio fondamento ma che non possono far dimenticare i costi e i problemi causati dall’attuale stato di dissociazione fra la Costituzione economica formale e la Costituzione economica materiale. Se è vero, infatti, che i vincoli europei hanno consentito un assestamento del nostro sistema e un recupero delle principali criticità accumulate nel corso del tempo, è altrettanto vero che la logica stessa dei vincoli europei è intrinsecamente diversa da quella delle Costituzioni. La disciplina economica comunitaria è, infatti, essenzialmente diretta a garantire un adeguato processo di convergenza fra i sistemi economici dei paesi membri (e soprattutto di quelli dell’area Euro), al fine di scongiurare il rischio che le divaricazioni fra le aree economiche e i comportamenti opportunistici di alcuni paesi possano minare la stabilità del processo di unificazione economica e monetaria. Una logica di tipo interstatuale, “pattizio” e tutta focalizzata sul conseguimento di un risultato minimo accettabile per gli altri partner, sostanzialmente indifferente alle modalità di conseguimento del risultato medesimo. Affatto diversa è la logica costituzionale tutta incentrata sulla fissazione di garanzie nei rapporti fra lo Stato e i cittadini e nei rapporti fra i cittadini. Una logica – quella costituzionale – in cui alla fissazione di diritti e obblighi reciproci si accompagna necessariamente la definizione di regole idonee a rendere efficiente e trasparente il procedimento per il conseguimento del risultato finale. In questo senso, occorre riconoscere come l’equilibrio raggiunto grazie ai vincoli europei sia in una certa misura precario e sub ottimale. E che non si tratti un equilibrio stabile, di un traguardo raggiunto in modo definitivo ed irreversibile, appare difficilmente contestabile proprio in questa fase storica caratterizzata da turbolenze finanziarie e valutarie e da preoccupanti fenomeni di stagnazione o recessione economica. Ma si tratta, soprattutto, di un equilibrio sub ottimale poiché i vincoli europei per quanto rigorosi ed effettivi non hanno, e non possono avere, quella capacità conformativa propria di una Costituzione. Basti pensare alle tematiche di finanza pubblica relativamente alle quali i vincoli europei si concentrano esclusivamente sul risultato quantitativo in termini di indebitamento delle pubbliche amministrazioni e sono del tutto indifferenti alle procedure, ai rapporti istituzionali fra Governo e Parlamento, alle relazioni fra i diversi livelli di governo, al rapporto fra Stato impositore e cittadino contribuente, la cui puntuale definizione influisce non solo sulla concreta possibilità di conseguire l’obiettivo quantitativo definito in sede europea ma anche, e soprattutto, sulla qualità e sulla trasparenza delle scelte operate per conseguire tale obiettivo quantitativo. Ma analoga debolezza si può riscontrare anche sul terreno delle politiche per la concorrenza e per il mercato, relativamente alle quali la disciplina di fonte europea, oltre a concentrarsi per forza di cose sui profili generali e sulla dimensione continentale, appare soprattutto assistita da meccanismi di tutela e di garanzia molto più complessi e meno efficaci di quelli nazionali. Non possono, ad esempio, sorprendere, nonostante la produzione normativa e giurisprudenziale europea in materia di imprese pubbliche, aiuti di stato e servizi economici generali, i dati pubblicati dal Dipartimento della Pubblica amministrazione e dell’Innovazione secondo i quali il numero complessivo di società o di consorzi controllati o partecipati dallo Stato, o da altri enti pubblici, nel 2009, è passato da 6.752 a 7.106 con un aumento del 5 per cento su base annua. Non è cioè un caso che terminata da tempo la stagione dello Stato imprenditore, delle partecipazioni statali e dei fondi di dotazione in favore degli enti di gestione, assistiamo, comunque, da diversi anni, all‘espansione di quella sorta di “socialismo municipale”, rispetto al quale i ripetuti tentativi di riformare i servizi pubblici locali si sono rivelati insufficienti. Negli ultimi mesi si è improvvisamente acceso il dibattito sull’opportunità di riformare l’articolo 41 della Carta, da alcuni ritenuto causa di eccessiva regolazione delle attività economiche e, quindi, di scarsa competitività del sistema. La questione è complessa. Da un lato, non c’è dubbio che la formulazione dell’articolo, ed in particolare quella del suo terzo comma, indichi l’orientamento in favore di un forte interventismo dello Stato in economia. E del resto, rileggendo i lavori dell’Assemblea costituente, non stupisce il fatto che non siano state accolte le proposte avanzate da Luigi Einaudi, e dagli altri costituenti liberali, finalizzate a restringere l’intervento pubblico alle situazioni di monopolio di fatto o a sancire in via generale che la legislazione in materia economica deve essere finalizzata a “difendere gli interessi e la libertà del consumatore” (emendamento dell’onorevole Cortese). Dall’altro lato, non deve essere dimenticato che la formulazione dell’articolo nasce come tentativo di arginare le proposte dirette a sancire in modo organico il principio della pianificazione economica, al punto che l’onorevole Arata, nell’illustrare il testo dell’emendamento, che poi diverrà la formulazione definitiva del terzo comma, richiami (anche se con una qualche forzatura) nientedimeno che Friedrich August von Hayek. Si tratta di un terreno assai delicato rispetto al quale, al di là della ricostruzione della genesi dell’articolo 41, non può essere trascurato il rischio che una malintesa cultura del mercato, l’ipostatizzazione della categoria astratta della concorrenza perfetta, la dilatazione impropria del concetto di fallimento del mercato, la tentazione costruttivistica di affidare alla legislazione la creazione dell’ordine sociale (ed economico) ottimale, finiscano per produrre esiti opposti rispetto alle intenzioni. In particolare, in forza di quello che è stato efficacemente definito il “paradosso della libertà di concorrenza” (Cintioli), la riscrittura delle norme in materia di libertà di impresa e, in particolare, la sanzione costituzionale del principio della concorrenza, potrebbero paradossalmente finire per appesantire il carico regolatorio e burocratico che grava sulle attività economiche. Ma le ragioni che militano a favore di un intervento riformatore della Costituzione economica non sono solo di natura concreta. Proprio la funzione identitaria e assiologia della nostra Costituzione ci induce a ritenere che solo quando la maturazione della coscienza economica nazionale, registratasi negli ultimi decenni, avrà trovato un’adeguata traduzione in principi e precetti costituzionali, potremo ritenere compiutamente concluso il lungo processo di transizione compiuto dal Paese. E da ultimo non si può fare a meno di osservare che ritenere inutile porre mano alla Costituzione economica, che, secondo alcuni, risulterebbe oramai irrilevante rispetto ai processi economici in atto, quasi fosse un ferrovecchio ormai irrecuperabile, sarebbe – per la nostra Carta fondamentale – il peggiore insulto.