17 Aprile 2009  

La crisi come occasione per avviare il processo delle riforme istituzionali

Redazione

Gli organizzatori di questo incontro ci chiedono di pensare l’attuale crisi economica mettendola anche a confronto con quella del 1929. L’analogia esiste, perché oggi come allora tutto è partito dall’America; perché oggi come allora la crisi è stata innanzi tutto di natura finanziaria e solo in seguito è diventata economica; perché oggi come allora si è trattato di un fenomeno globale.

Per amor di precisione si potrebbe aggiungere che oggi, a differenza di allora, il confine tra finanza ed economia è molto più sfumato, e che la globalizzazione non conosce più neppure quegli ammortizzatori che nel 1929 ritardarono in alcuni casi la percezione delle conseguenze della crisi: si pensi ad esempio agli effetti degli imperi coloniali.

Tutto ciò in questi mesi è stato già abbondantemente detto. Un altro aspetto, invece, è stato fin qui meno evidenziato: così come la crisi del ’29 seguì di poco più di un decennio la frantumazione di un ordine mondiale che allora si basava su quattro imperi andati in pezzi a causa della prima guerra mondiale, anche il periodo di tempo che separa la crisi odierna dalla fine dell’ordine bipolare è solo di pochi anni superiore. Questo dato ci fa comprendere meglio la sua profondità, e perché essa non possa essere classificata solo come mera crisi economica, dal momento che investe anche l’ambito politico, sociale e morale.

Proprio così: la crisi dei giorni nostri non solo mette in dubbio la capacità di governo delle società complesse da parte degli esecutivi nazionali, ma evidenzia anche i limiti di quel modello di società secolarizzata che fino agli ultimi decenni del secolo scorso si riteneva ineluttabile. La situazione di difficoltà, infatti, mette in luce quanto sia importante per la questione sociale la riscoperta di senso, e, dunque, quanto sia necessaria l’influenza delle religioni nella vita civile, senza che ciò tuttavia sfoci in una opacizzazione delle differenze tra i ruoli della Chiesa e dello Stato.

L’ampiezza della crisi che stiamo attraversando evidenzia l’illusorietà sia di soluzioni palingenetiche che possano agire su tutti i fronti aperti annullandone gli effetti in tempi rapidi, sia di soluzioni particolaristiche – d’altra parte già smentite dal precedente del ’29 – che immaginino di risolvere in uno specifico ambito nazionale problemi posti a livello globale.

Ciò non significa ovviamente che le specificità nazionali non esistano e che non debbano essere considerate. Tutt’altro. Vi è anzi una particolarità che riguarda proprio noi italiani e che possiamo cogliere in tutta la sua portata grazie a una comparazione con il caso francese.

In Italia, infatti, stiamo vivendo un paradosso. Questa crisi morde e fa male come raramente era avvenuto in precedenza. E lo fa soprattutto in quelle aree del Paese più sviluppate e industrializzate che rappresentano i luoghi di insediamento del blocco sociale che regge l’attuale maggioranza. A fronte di questa situazione, che in un contesto normale dovrebbe determinare uno stato di difficoltà delle forze politiche al governo, si registra invece un’inedita fiducia nell’esecutivo, alla quale fa da pendant il rigetto di soluzioni demagogiche. E’ quantomeno singolare, ma è un dato di fatto: il tasso di gradimento nei confronti del governo ha toccato le percentuali più alte proprio nel momento nel quale la crisi ha scalato i suoi picchi.

Tutto ciò fa pensare che questa crisi potrebbe rappresentare per l’Italia quel che l’Algeria fu per la Francia: il momento in cui, di fronte a una difficoltà reale e avvertita come ultimativa, si verificò il rigetto delle soluzioni ideologiche, conformistiche, semplicistiche, e l’accettazione di sacrifici economici e morali in cambio della riscoperta di uno Stato.

Affinché però questo parallelo si avveri, è necessario però che in Italia si compia un passaggio ancora in fieri: che si istituzionalizzino cioè quelle “situazioni di fatto” percepite dall’opinione pubblica come virtuosi cambi di direzione. Ciò è necessario in campo economico-bancario; a fronte di quegli interventi straordinari provocati da emergenze come quelle di Napoli o dell’Aquila, dove con più forza l’assenza dello Stato avrebbe potuto provocare danni; nell’ambito delle istituzioni, laddove a una variazione del funzionamento del sistema politico che ha portato a un bipolarismo tendente al bipartitismo, corrisponde ancora la verità formale di un sistema persino più assembleare di quello incarnato dalla Quarta Repubblica francese.

C’è da chiedersi infine: chi dovrebbe consentire al Paese di compiere questo decisivo salto verso l’istituzionalizzazione di un nuovo senso comune? La risposta più ovvia è che il salto dovrebbe essere compiuto insieme dalle forze di maggioranza e di opposizione attraverso una reciproca legittimazione e una riscrittura congiunta delle regole. Ma proprio il caso francese ci dice che questa risposta contiene una buona dose di illusorietà.

Di fronte a una crisi profonda della sinistra, che investe la sua potenzialità egemonica e la capacità di prefigurare un modello di società, è evidente infatti che nessun leader di quella parte politica può rinunciare alla risorsa dell’antiberlusconismo nel tentativo di salvare il salvabile. Ma se noi rileggiamo, attraverso le pagine del suo “Le coup d’etat permanent”, il modo con cui a conclusione della crisi algerina Mitterand seppe opporsi a De Gaulle, possiamo distinguere un antiberlusconismo d’apparenza da un antiberlusconismo di sostanza.

Mitterand, in altri termini, pur condannando il Generale, si servì di quel sistema di modernizzazione delle istituzioni che solo apparentemente aveva messo sotto accusa. La verità si sarebbe svelata con il tempo: per questo egli mosse verso la rifondazione di un partito unitario della sinistra; per questo utilizzò, come strumento di tale rifondazione, proprio quel sistema di elezione presidenziale solo in apparenza giudicato un “colpo di Stato”.

E se Mitterand può essere un esempio virtuoso in una fase di crisi per i politici italiani di centrosinistra delle più giovani generazioni, sull’altro versante, quello del centrodestra, si staglia come riferimento la figura di Pompidou: colui che impedì, anche a costo di una dura sofferenza personale, che il gollismo si esaurisse con De Gaulle e che il lavoro del Generale potesse essere confinato nella categoria delle vicende eroiche che segnano una parentesi nella storia.

E’ anche grazie a questi contributi che oggi la Francia, pur meno attrezzata ad affrontare la crisi a causa delle caratteristiche del suo sistema economico, può contare su istituzioni che rappresentano un valore aggiunto. Se anche l’Italia riuscirà a dotarsene, potrà ambire ad uscire dal tunnel della crisi più forte di come vi è entrata.

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