03 Novembre 2006  

La laicità crocifissa ovvero l’apologetica drammatica del Papato

Redazione

 

Lo spazio di esperienza che definisce il contenuto storico del discorso di Benedetto XVI al IV° Convegno ecclesiale nazionale di Verona è rappresentato dalla storia come percorso drammatico di compimento della testimonianza espressa dalla Chiesa di Dio al suo Signore. E’ il Papa stesso a segnare il presente come luogo storico: “L’Italia di oggi si presenta a noi come un terreno profondamente bisognoso e al contempo molto favorevole per un tale testimonianza”. Invano si cercherebbe nelle riflessioni del Santo Padre un accenno alla crisi della fede e della Chiesa come orizzonte di intelligenza del presente. L’oggetto della sua meditazione teologica è la storia concepita come complessità talvolta indecifrabile e, nel contempo, come arena dei futuri possibili. Il Vaticano II riemerge strategicamente nell’ordito di questo pensiero come contesto, mentre il testo torna ad essere prepotentemente la storia. Le origini di una simile impostazione sono originali e devono essere comprese per quel novum che rappresentano. Non è più qui in campo la classica teologia della storia che da Gioacchino da Fiore fino a Daniélou, passando per Balthasar, ha dominato da sempre la teologia cattolica. Benedetto XVI a Verona riapre la storia del Papato come declinazione e figura storica della Chiesa crocifissa e, in forza di ciò, vittoriosa. E’ questo il modo più autentico per superare i rumori ideologici della retorica della crisi e della sociologia, anche di origine clericale, della secolarizzazione (un solo accenno di qualche rilievo a questa deriva, letta soprattutto come immanente alla Chiesa stessa, e alla fine del discorso: “secolarizzazione interna” che insidia la Chiesa nel nostro tempo”). La teologia ecclesiale più avvertita, del resto, non può trascurare la condizione dell’uomo del nostro tempo che già circa sessant’anni fa il padre De Lubac descrisse come “il dramma dell’umanesimo ateo”. Oggi sarebbe forse più adeguato descrivere questo stato di cose, insieme ontologico e creaturale, come ha efficacemente fatto Marramao concludendo il suo studio sulla “genealogia della secolarizzazione”: l’io si situa “sullo sfondo di (uno) spaesamento cosmico e di (una) contingenza etica che segna questa fine di millennio”, come segna ancora l’inizio di un’epoca come quella attuale che appare l’apologia del “senno del post”. Una nuova retorica, quella del “post”, che tuttavia, non colpisce l’assetto strutturale immanente alla teologia di Ratzinger, soprattutto quando quest’ultima riesca ad afferrare saldamente il toro per le corna: l’Italia di oggi. In termini essenziali: la nostra storia. Il presente come storia. Il tutto nel frammento: il terminus a quo è determinato dall’Italia, il terminus ad quem è vincolato alla figura della Chiesa come soggettività e comunione ad un tempo storica e cristocentrica. La realtà dei valori cristiani non si declina dunque come imperativo categorico astratto, ma, al contrario, come terminale concreto di un’Origine non originata (Ulrich). I valori tradizionali non possono essere vissuti al di fuori di un contesto e di un metodo, così che l’unico esito non possa che essere la confusione etica ed intellettuale e, pericolo non trascurabile, il sincretismo religioso e culturale. La posizione più adeguata risulta essere infine l’anti-ideologismo, vale a dire il rifiuto radicale tanto della dimensione astrattamente apocalittica, tanto della nuova ideologia neoclericale kenòtica, la quale, inventando di sana pianta un San Paolo heideggeriano, svuota il fatto della Croce e della Resurrezione di Cristo, da sempre unitariamente compreso dalla Chiesa di Dio. Nel discorso di Verona, la Resurrezione di Cristo viene infatti definita per quel che è, un “fatto” e ciò, si badi, stabilisce immediatamente il richiamo essenziale della missione del laico cristiano. Per intendere meglio il fraseggio teologico rinvenibile nel discorso del Papa, occorre cogliere la radicale determinazione della missione apologetica della Chiesa, volta cioè a “dare ragione della speranza” in Cristo. “Dobbiamo essere sempre pronti, si afferma nel discorso, a dare risposta (apo-logia) a chiunque ci domandi ragione della nostra speranza, come ci invita a fare la prima Lettera di San Pietro (3,15) (…)”. Si badi che qui l’apologetica non deve essere intesa come la tautologica confessione dei precetti dogmatici della fede, ma, ben più attivamente e drammaticamente (nel senso balthasariano), la risposta alle sfide del nostro tempo, le sfide provenienti sì dal secolarismo, male ormai ben noto, ma anche e soprattutto da quello sfinimento della ragione che, lungi dal ricomprendersi secondo la tradizione illuministica, produce una deriva a-razionale e dis-umanizzante. Alla domanda, chi salverà la ragione?, Benedetto XVI non ha dubbi: la Chiesa. Nella figura storica e concreta, immanente alla società, del Papato. L’apologetica razionale è la vera risposta laica, drammatica e insieme crocifissa, del Papato nella persona del Vicario di Cristo. Si tratta di un “potere crocifisso” (Clément). Mentre oggi un altro versante dell’ideologia neoclericale, di cui è profeta un autore come Enzo Bianchi, concepisce di fatto la laicità come un vuoto sociale e pubblico del tutto neutrale ed avalutativo, Ratzinger, latore di una “giusta laicità” (Giovanni PaoloII), afferma, apertis verbis, il senso stesso della laicità come posizione del credente ai piedi della Croce di Cristo, sul Golgota. Posizione, questa, drammatica e vertiginosa, che, proprio in quanto autenticamente laica, interpella la libertà dell’io di fronte ad un Tu. Siamo al “Tu devi scegliere!” di Kierkegaard, con evidente riferimento all’adesione a Cristo. Anche Girard ha seguito un’impostazione analoga, riaffermando anch’egli, mutatis mutandis, la necessità di un’ autentica apologetica razionale. Tutto si tiene quando in gioco è l’uso corretto della ragione, e su ciò è imprescindibile la rilettura accurata dell’enciclica Fides et ratio di Giovanni Paolo II. Dalla tradizionale sorgente apologetica scaturisce, di fatto, il dettato della cultura cattolica come militanza civile e religiosa, dunque ultimamente il senso politico della fede come motore dell’evoluzione e del progresso della società e dello Stato. La communio ecclesiale, in definitiva, diventa “il principio organico della materialità dell’esistenza” (Scola). Bianchi, per contro, riflettendo sulle accuse quotidiane ed incessanti alla Chiesa, conclude: “C’è il rischio che questo ingeneri nella Chiesa il timore di sentirsi assediata e, quindi, costretta a esprimersi in modo difensivo, apologetico: una Chiesa non più capace di sostenere nel pacifico confronto la sua collocazione nella compagnia degli uomini” (La differenza cristiana, Einaudi, Torino, 2006, pp. 4-5). Il priore di Bose considera negativamente, in ultima analisi, l’apologetica, trascurando così l’essenza intrinsecamente missionaria della stessa e, nel contempo, la novità introdotta da Benedetto XVI in questo campo. La “differenza cristiana” come in-differenza alla vera differenza, all’essenza del Cristianesimo! Aveva, dunque, ragioni da vendere Péguy: il clericalismo progressista è il vero cancro spirituale della Chiesa. Il “partito degli intellettuali clericali”. Un fondamentalismo spiritualistico ultimamente inadeguato a percepire il fatto cristiano come criterio ordinatore dell’intera esistenza umana. Inoltre, la stabilità tetragona e dottrinaria delle argomentazioni “critiche” di questa vera e propria sètta intellettuale, i clerico-progressisti, non possiamo non scorgere il nemico di sempre, cioè la religione civile, considerata l’anticamera del secolarismo e/o della strumentalizzazione della religione da parte della politica. Come se la teologia della liberazione, condannata dal Card. Ratzinger, Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, e la “scelta religiosa” colonizzate, sul versante sociale, dalle ideologie dominanti di turno, ieri il marxismo oggi il soggettivismo relativistico, non fossero, direttamente o indirettamente, strumentalizzazioni della religione da parte dei ceti ideologici e politici più influenti nella società. Ecco, a fronte di questa congerie di equivoci intellettuali e teologici, Benedetto XVI lancia la sua sfida apologetica alla tarda modernità sfinita dal nichilismo violento e illiberale, rinviando alla sorgente inestinguibile della Traditio come dono dello Spirito e seme di creatività culturale, politica e sociale. E’ possibile accostare a questa impostazione quella del Tocqueville de L’Ancién Regime et la revolutiòn, il quale non solo attacca a fondo la logica rivoluzionaria e giacobina come disgregatrice della forma stessa della societas, ma, ancor più radicalmente, individua nella religione come professione pubblica ed educazione civile diffusa un fattore di coesione sociale e di unità del popolo.
Non si tratta di un progetto calato dall’alto, ma di un’avventura umana e spirituale, come còlse perfettamente Balthasar nel 1971: “Come uomo il cristiano è ovviamente obbligato a prender parte allo sforzo di tutta l’umanità volto all’umanizzazione del mondo, di cui si è indicata prima la permanente problematicità e tragicità. Egli poi in questi campi non ha alcuna terapia definitiva o soluzioni da offrire, deve invece lottare come tutti gli altri per decifrare l’enigma della natura e della storia. In questo sforzo è solidale con gli altri uomini. Conoscendo, però, l’impegno di Dio per il mondo egli ha un orizzonte più vasto, che pur senza risolvere l’aspetto problematico e tragico della situazione, lo comprende. Da esso viene sul mondo l’unica luce che può effettivamente illuminare e soccorrere. Di questa luce egli deve dare testimonianza non solo astrattamente attraverso la professione di fede, ma concretamente nel proprio impegno di lavoro e di cooperazione” (H.U. von Balthasar-L. Giussani, L’impegno del cristiano nel mondo, Jaca Book, Milano, 19711, p. 92).

Raffaele Iannuzzi è giornalista e saggista, collabora con il coordinamento nazionale di Forza Italia. Ha pubblicato “Il Dio cercato” (2003) e insieme a Gianni Baget Bozzo “Tra nichilismo e Islam” (2006).