La legge Gentiloni sul riassetto del sistema radiotelevisivo
Testo dell’audizione del presidente di Mediaset nelle commissioni congiunte della Camera, Cultura e Trasporti, sulla legge Gentiloni sul riassetto del sistema radiotelevisivo
Ringrazio il Presidente Meta, il Presidente Folena e tutti i parlamentari presenti per avermi dato la possibilità di illustrare la posizione di Mediaset sul disegno di legge Gentiloni.
Parto da una breve presentazione di Mediaset nei suoi numeri e nelle attività più significative per poi passare alle nostre critiche al progetto governativo che viviamo come fortemente punitivo per la nostra Azienda, incapace di aprire e sviluppare il settore, così come si propone, ma capace invece di mortificare la ricchezza dell’offerta tipica della televisione terrestre, l’unica gratuita, la piattaforma universale del servizio televisivo in Italia, diffusa al 99% delle famiglie.
Tutto quanto dirò in questa mia relazione è sviluppato per esteso nel contributo scritto che consegneremo alle Commissioni.
Carta d’identità
- dati principali
Mediaset è il maggior gruppo televisivo commerciale del Paese che gestisce l’ offerta di televisione free commerciale analogica e digitale in Italia e Spagna (con il 50% di Telecinco).
È quotata alla Borsa di Milano dal luglio 1996. Il suo capitale è posseduto per il 35,54% dal Gruppo Fininvest. Il capitale flottante, pari a circa il 65% del totale, è per la metà in mano straniere, soprattutto fondi americani. Dall’ultima distribuzione del dividendo risulta che siano ancora oltre 250.000 i piccoli investitori di Mediaset.
I ricavi netti dell’anno 2005 sono 3.678 milioni di euro, al 30/09/06 2.672,5 milioni. Per quanto riguarda l’esercizio 2005 2.748,1 milioni di euro sono di pertinenza della televisione italiana. Il resto proviene dal consolidamento di Telecinco.
Al 30/09/06 sono stati investiti 1.137,1 milioni di euro, di cui 745,8 in diritti.
I dipendenti del Gruppo sono oltre 4.681 al 31/12/06, con un indotto diretto di oltre 3.500 persone circa.
L’audience media totale delle reti analogiche di Mediaset nel 2006 è del 40,3%. Oltre il 48% delle ore emesse è di autoproduzione, sono 5.000 le ore di informazione prodotte in un anno.
La quota di risorse di Mediaset sul totale mercato televisivo (includendo pubblicità, canone, proventi da abbonamenti alle pay tv) è per il 2006 del 30%, 35% per la Rai e 25% per Sky.
La quota di fatturato sul totale mercato pubblicitario televisivo nel 2006 è il 56,7% (ricavi al netto delle agenzie).
Mediaset ha investito nel digitale terrestre oltre 1,2 miliardi di euro, di cui 500 milioni per frequenze e digitalizzazione, il resto in diritti.
Nel 2006 ha destinato 950 milioni di euro all’acquisto e alla produzione di programmi audiovisivi europei, di questi circa 80 milioni sono per film prodotti in Europa (67 in Italia). Parte rilevante dell’investimento in opere europee è destinata a prodotti nazionali (circa 220 milioni di euro solo per le fiction).
Alla tradizionale attività delle reti storiche, dal 2003 Mediaset opera con successo nella trasmissione di contenuti digitali. Ha creato tre multiplex digitali, di cui uno interamente destinato alla televisione in mobilità in standard DVBH. Sono stati lanciati due canali gratuiti solo digitali, Mediashopping e Boing, quest’ultimo interamente dedicato ai bambini.
Mediaset ha lanciato nel gennaio 2005 un’offerta di servizi a pagamento con carta prepagata che consentono la visione di eventi principalmente di sport e cinema.
Le tessere vendute per i servizi Premium al 31.01.07 sono 2.686.726 con 5.807.518 ricariche, introiti complessivi di 177,4 milioni di euro di cui 89 nel 2006.
Mediaset versa poi 22,2 milioni di euro per canone di concessione, 4 milioni di euro circa per il mantenimento dell’AGCom, 55 milioni di euro alla SIAE per diritti d’autore, 16 milioni di euro a SIAE e IMAIE per l’equo compenso e 3 milioni di euro all’AFI.
Molto attiva la presenza del Gruppo anche in iniziative di formazione che vedono la realizzazione di tre Master annuali: due con il Consorzio IULM (in Management Multimediale e in Giornalismo), l’altro quello di Marketing di Publitalia, attivo dal 1988.
Completano il quadro il Laboratorio di Comunicazione e Nuovi Contenuti RTI, la scuola di Televisione tesa a formare figure specifiche della creatività televisiva, il Laboratorio di ricerca del linguaggio televisivo.
In questi dati ho segnato il perimetro di un’azienda di successo, che ha saputo conservare il core business, ma innovarsi profondamente con l’entrata nell’era digitale. Un’azienda profittevole, con alta occupazione molto specializzata, un indotto concentrato in settori strategici per l’audiovisivo, un impatto virtuoso irrinunciabile sulla produzione nazionale, un potentissimo aiuto per le imprese italiane, un’abitudine per il pubblico.
Nello stesso tempo un’Azienda parte integrante del cambiamento che sta coinvolgendo l’intero sistema di media e telecomunicazioni, in cerca di un posizionamento nuovo, trasversale alle diverse piattaforme tecnologiche, ancora quasi completamente finanziata da pubblicità e per questo maggiormente esposta ai vincoli normativi di quanto non succeda ad aziende con risorse diversificate.
Un’azienda fortemente ancorata all’ambito nazionale di due Paesi europei Italia e Spagna, ma fuori, per il fattore linguistico, dall’immenso bacino di lingua anglosassone.
Un’azienda grande in Italia, media se comparata con i gruppi mondiali di televisione o con i mercati televisivi e pubblicitari degli altri Paesi europei.
Un’Azienda, per finire, che ha investito moltissimo in tecnologie ed è stata alla testa mondiale di due iniziative esclusive: la televisione sul telefonino in tecnica DVBH (usando cioè le frequenze televisive) e l’offerta di eventi in pay per view tramite l’utilizzo della carta prepagata.
Non vi è dubbio che un cambiamento del quadro normativo, così drammatico quale quello ipotizzato dal disegno di legge Gentiloni, sarebbe in grado di sconvolgere l’assetto di riferimento attuale, togliendo all’Azienda le sicurezze anche normative di cui ha profondamente bisogno.
Commenti alla Relazione introduttiva
Passando ai rilievi al disegno di legge partirei dalla Relazione relativa: il primo riguarda l’incompletezza e strumentalità dei riferimenti alla giurisprudenza costituzionale, alle leggi esistenti e all’Europa. Si omette, ad esempio, il costante richiamo della Corte al nesso stretto tra livello di antitrust e sviluppo tecnologico presente nel settore televisivo.
Altro fatto importante la legittimità di leggi e situazioni di mercato rilevata dalla Corte e che copre tutte le leggi fino alla fine del 2003.
Impossibile, pertanto, continuare a parlare dell’ambito normativo italiano come di una selva indisciplinata dove ha prevalso la legge del più forte o quella dei fatti compiuti. E parlare altresì di una giurisprudenza costituzionale sempre contraria alle norme approvate, tutte invece, Maccanico compresa, chiaramente legittimate dalla Corte.
L’analisi della giurisprudenza costituzionale permette di smentire la tesi secondo cui il sistema televisivo italiano si caratterizzerebbe per una situazione di perdurante deficit di pluralismo, corrispondente ad una protratta violazione del dettato costituzionale. La Corte infatti ha affermato la legittimità delle discipline transitorie via via succedutesi dal 1990 al 2003 e mai ha imposto soluzioni che comportassero il rischio di dispersione di risorse d’impresa.
La Corte ha attribuito invece al legislatore il compito non di punire imprese esistenti per favorire il pluralismo, bensì di sfruttare al massimo le possibilità offerte dall’evoluzione tecnologica in modo che il pluralismo sia conseguenza dell’aumento delle voci presenti e non della loro soppressione.
Stesso dicasi per i riferimenti alle Autorità di garanzia.
Si continua ad esempio a citare l’indagine Antitrust del 2004 sul mercato pubblicitario, niente si dice invece delle pronunce della Autorità che hanno seguito l’approvazione della legge 112/04 e gli sviluppi del sistema televisivo negli ultimi tre anni.
Citiamo le autorizzazioni all’acquisto di frequenze per il digitale da parte di RTI, approvate dall’Antitrust con il parere positivo dell’AGCom, l’autorizzazione all’acquisto da parte di RTI delle frequenze di Europa Tv per dedicarle alle trasmissioni della tv mobile con standard DVBH. Tale delibera è basata sulla constatazione di quote di frequenze in mano a Rai e RTI lontane dalla dominanza e sull’accertata presenza nel Paese di un bacino di frequenze locali ancora ricco, a disposizione degli altri operatori interessati al trading.
Pragmaticamente, nel caso di istruttorie (vedi i diritti del calcio) dove alcune condotte di mercato rischiavano di alterare la concorrenza, l’Antitrust ha condiviso i comportamenti di RTI sulla base dell’assunzione da parte degli operatori di impegni capaci di rimuovere i rischi anticompetitivi (è il caso di RTI e i diritti sportivi, dove AGCom e AGCM hanno accettato gli impegni spontaneamente assunti da RTI durante l’istruttoria e relativi a durata dei contratti e cessione al mercato dei diritti di piattaforme fuori dalla disponibilità di Mediaset).
L’AGCom è intervenuta, quindi, incisivamente sulla base delle leggi esistenti ogni volta che se ne sia ravvisata la necessità. Dopo la legge del febbraio 2004 ha certificato l’esistenza delle condizioni di legge per l’applicazione del nuovo Antitrust misto analogico e digitale; ha chiuso l’istruttoria sulle posizioni dominanti nel 2005 non ravvisandone il verificarsi, ma rilevando che esistevano i rischi di riproposizione degli assetti dell’analogico nel nuovo ambiente digitale.
A correzione di possibili rischi per il pluralismo, ha approvato la delibera 136/05 in cui impone a Rai e Mediaset obblighi in ordine allo sviluppo della rete digitale, all’affollamento e alla raccolta pubblicitaria delle nuove trasmissioni in DTT.
Da ultimo, la recente delibera, sottoposta a consultazione pubblica e relativa alla disciplina della cessione del 40% di capacità trasmissiva da riservare a terzi, calcolata su ciascun multiplex. La delibera punta all’esclusione della discrezionalità dell’operatore tv nella scelta dei programmi da trasportare, rendendo aperto e disponibile spazio utile per le trasmissione ai terzi.
Una reale misura di abbassamento delle barriere all’ingresso per gli editori terzi che, concretamente e velocemente, ottengono la disponibilità del servizio di distribuzione della loro offerta televisiva.
Molto più incisiva ci pare questa direzione rispetto a quella scelta dal disegno di legge con l’ipotizzata restituzione delle frequenze da parte di Rai e Mediaset e la loro ridistribuzione a terzi nuovi entranti.
Erronei appaiono i presupposti richiamati nella Relazione e relativi alla messa in mora dello Stato italiano sulla disciplina delle frequenze. Di per sé una lettera di messa in mora non comporta l’obbligo di modifiche normative.
È una scelta politica quella che ha portato l’attuale Governo a non difendere il diritto italiano, a non rappresentare correttamente la situazione presente nel Paese e alla fine a condividere pedissequamente i rilievi europei.
Alla fine, l’Europa è stata usata strumentalmente laddove offriva pretesto per intervenire con una nuova legge.
Alcune osservazioni sulla lettera di messa in mora. Prima di tutto, l’Europa ignora la natura transitoria delle norme già esistenti su frequenze e switch-off. Queste sono tese a:
- velocizzare la transizione;
- pianificare frequenze e reti digitali;
- consentire l’accesso di nuovi fornitori di contenuti a reti digitali aperte, gestite da operatori di rete, con funzioni di carrier per il trasporto del segnale altrui;
- reperire tramite il trading delle frequenze gli spazi necessari alla transizione.
Qui va ricordato che il trading introdotto dalla legge 66/2001 era l’unica soluzione possibile e pragmatica per reperire le frequenze necessarie alla transizione, in uno spettro elettromagnetico già pienamente utilizzato.
Non è corretta, poi, la tesi secondo cui nuove imprese non potrebbero accedere alle frequenze. Ciò è consentito attraverso i consorzi possibili tra editori di prodotti multimediali che possono acquisire impianti come operatori di reti digitali o attraverso l’ottenimento, aperto a tutti, di una licenza di operatore di rete che di nuovo abilita all’acquisto di impianti. Questa è la strada utilizzata da H3G per la creazione dell’infrastruttura DVBH per la tv mobile.
Infine, va ricordato che per le leggi vigenti in Italia chiunque può acquisire la titolarità di un’impresa televisiva subentrando alla quota di proprietà dell’emittente: è la strada attraverso la quale L’Espresso, Telecom Italia Media, il gruppo Ben Ammar/TF1 hanno potuto divenire proprietari di reti tv nazionali analogiche preesistenti.
Sul reale stato delle frequenze del Paese, sulla numerosità delle stesse e sulle quote di frequenze in possesso ai diversi operatori (locali compresi, che ne hanno più del 50%), si fa riferimento alla memoria illustrata davanti alla Commissione da Elettronica Industriale, l’operatore di rete di Mediaset.
Un’ultima osservazione riguarda il totale misconoscimento del valore di facilitazione dell’accesso alle reti per soggetti terzi, contenuto nell’obbligo, in capo agli operatori con più di due reti analogiche, di cedere loro il 40% della capacità trasmissiva, ottenuta digitalizzando le frequenze.
La farraginosità dei meccanismi che presiedono alla ‘confisca’/redistribuzione delle frequenze, l’assenza di norme che governino la pianificazione delle frequenze stesse, fanno sì che il disegno di legge fornisca all’Europa, pur condividendone i rilievi, una risposta fiacca e inefficiente, oltre che punitiva degli interessi degli operatori attuali.
Critica al ddl attraverso i princìpi generali e l’articolato
Venendo al contenuto del disegno di legge, esso parte dal presupposto non corretto, a nostro avviso, che negli ultimi anni il sistema televisivo sia rimasto congelato nella staticità del duopolio, a tutto danno di concorrenza e pluralismo e dell’accesso di nuovi protagonisti nell’offerta televisiva.
Questo presupposto giustificherebbe il contenuto pesante e punitivo della proposta governativa, presentata come necessaria per lo sviluppo tecnologico foriero di maggior competitività.
Vale la pena anzitutto sottolineare come il duopolio televisivo abbia da tempo lasciato spazio ad una situazione caratterizzata da tre soggetti, Mediaset, Rai, Sky, che sul mercato delle risorse televisive complessive, a fine dell’anno prossimo, avranno ognuno un terzo dei fatturati.
A nostro avviso non c’è bisogno di una nuova legge, bensì le leggi attuali consentono già di puntare alla rapida digitalizzazione della televisione terrestre.
Al riguardo, sembra quanto meno contraddittorio nel disegno di legge lo spostamento della data dello switch-off al 2012: per sviluppare un processo se ne ritarda la conclusione!
Alcune altre osservazioni.
La diversificazione delle nuove piattaforme e delle modalità di visione dei contenuti video (digitale terrestre, satellite, cavo, tv mobile e IPTV) accelera di per sé il confronto della televisione tradizionale con i nuovi player e intensifica, quindi, le dinamiche concorrenziali.
Già da oggi è innegabile, poi, l’apertura del settore televisivo a nuovi soggetti: 3G, Vodafone, Telecom tramite il DVBH offrono contenuti televisivi ai clienti telefonici usando frequenze terrestri; ReteA e Telemarket sono confluiti in gruppi come L’Espresso e Telecom Italia Media; si sono costruiti 10 multiplex digitali terrestri che ospitano oggi quasi 30 canali, simulcast delle reti analogiche compreso.
Con l’attuazione della delibera AGCom relativa alla cessione del 40% delle frequenze digitalizzate, ci sarà un nuovo impulso alla presenza di editori nuovi entranti nella televisione. Da sottolineare che, nel caso di cessione della capacità trasmissiva, il servizio di trasporto del segnale offerto ai fornitori di contenuti è completo e non richiede investimenti aggiuntivi, ma è ottenuto a prezzi di mercato assolutamente competitivi.
- Sulla costituzionalità del disegno di legge
Si rileva al riguardo come uno dei princìpi fondamentali della correttezza costituzionale delle norme sia quello della validità erga omnes dei contenuti, della generalità dei contenuti stessi, della necessarietà e della ragionevolezza delle norme, soprattutto quando la legge abbia le caratteristiche di concretezza tipiche di un provvedimento amministrativo.
A nostro vedere, il disegno di legge si caratterizza come una legge-provvedimento palesemente mirata ad infliggere danno al Gruppo Mediaset. In particolare, mira ad impoverirlo:
a) sottraendogli risorse pubblicitarie di cui nessun altro beneficerà;
b) imponendo la migrazione al digitale di una rete in tempi non omogenei con lo switch-off generale e senza un ancoraggio alla diffusione minima dei decoder, in più senza meccanismi in grado di assicurare un utilizzo più efficiente delle frequenze così liberate.
Ridefinisce poi in modo arbitrario il SIC, tanto da avvicinarne in maniera sospetta il limite alle dimensioni attuali di Mediaset.
L’inflizione di un danno non fondato su concreti interessi pubblici è incompatibile, a nostro avviso, con i due princìpi di uguaglianza e libertà d’impresa, costituzionalmente protetti (articoli 3 e 41).
- Rispondenza ai princìpi comunitari
Un altro passaggio è opportuno sulla rispondenza del disegno di legge ai princìpi comunitari. Quando nella proposta si parla di puntare ad una “più equa distribuzione delle risorse economiche” e si mira a dirottare risorse da un soggetto ad un altro, si va in aperto contrasto con l’articolo 49 del trattato della Commissione europea a proposito di libera prestazione dei servizi.
L’articolo 2 ritaglia ‘su misura’ per Mediaset un’inedita presunzione insuperabile di dominanza delle imprese che superino il 45% dei ricavi pubblicitari televisivi, ciò sino al termine dello switch-off.
La norma, sospetta anche di incostituzionalità, non si basa su un’analisi dei mercati rilevanti condotta secondo adeguati criteri economici, bensì sulla predefinizione normativa di un mercato (quello della pubblicità televisiva) e sull’individuazione di una soglia massima di ricavi, determinata in via del tutto discrezionale, a prescindere da qualsiasi valutazione dell’effettivo potere di mercato dei diversi soggetti.
L’indicazione per via legislativa di un tetto di fatturato pubblicitario, che equivale a posizione dominante vietata, è estranea ad ogni logica antitrust. L’applicazione della disciplina antitrust deve fondarsi su considerazioni tecniche, non politiche, sulla situazione economica del mercato e sulla necessarietà, per salvaguardare l’interesse pubblico, di limitazioni alla libertà di impresa.
Per questo esistono Autorità indipendenti con il compito di accertare l’esistenza di posizioni dominanti lesive di concorrenza e pluralismo e reprimere eventuali abusi di potere di mercato.
Le direttive telecom, poi, per prevenire abusi di posizione dominante, impediscono di imporre misure ex ante fuori da specifiche analisi dei mercati rilevanti. Le Autorità AGCom e AGCM dispongono già di poteri pragmatici e regolamentari in tal senso.
La proposta governativa, assegnando alla legge interventi già rimessi dall’ordinamento nazionale e comunitario alle Autorità amministrative, compie una forzatura di dubbia legittimità.
Un rilievo necessario riguarda la possibilità concreta da parte delle singole aziende di osservare il tetto del 45%. Sino alla certificazione a fine anno dei fatturati delle altre imprese, non è dato conoscere su quale base debba essere calcolata la soglia invalicabile del 45% e di questo Gentiloni non si cura.
Non esiste, poi, alcun elemento di fatto che permetta di raccordare l’imposizione di una soglia del 45% ai fatturati pubblicitari televisivi, con l’esigenza di salvaguardia di pluralismo e concorrenza.
Si è detto in ambiti governativi che il 45% non costituisce una soglia al fatturato e che i rimedi proposti (abbassamento dell’affollamento pubblicitario e/o spostamento di una rete su piattaforma digitale) non bloccano i fatturati delle imprese. Non è vero: la formulazione prescelta dalla legge, che individua nel raggiungimento del 45% del fatturato pubblicitario una posizione dominante vietata ai sensi dell’articolo 43 del Testo Unico della radiotelevisione, va invece nel senso di rendere definitivamente insuperabile tale tetto.
Nel caso in cui riduzione dei fatturati e spostamento di una rete al digitale lasciassero un soggetto al di sopra della soglia considerata vietata, l’AGCom sarebbe obbligata a disporre ulteriori misure anticoncentrative, senza poter in tal caso esercitare la discrezionalità che le è propria nell’individuare l’effettiva esistenza di posizioni dominanti. E non è dato capire se AGCom sia addirittura obbligata ad intervenire prima e indipendentemente dall’applicazione delle misure.
Per quanto riguarda la tutela della concorrenza, il disegno di legge non spiega quali siano le carenze normative che rendono necessario un ulteriore intervento di legge.
Il risultato, poi, che la norma ipotizzata porterebbe – quello cioè della riduzione del mercato e dell’aumento dei prezzi – è quanto di più contrario allo spirito della concorrenza.
Si invoca anche la necessità del tetto al fatturato a fini di salvaguardia del pluralismo. È assolutamente indimostrato l’automatismo ‘parcellizzazione maggiore dei fatturati uguale ad aumento del pluralismo’. Di per sé limitare i fatturati di Mediaset non crea necessariamente le condizioni per l’entrata sul mercato di altri soggetti in grado di proporre reti e programmi al livello di quelli offerti attualmente dalla stessa Mediaset.
A proposito di pluralismo, esiste un ulteriore grado di collisione del disegno di legge con la normativa comunitaria.
Si parla di “consolidare la tutela del pluralismo” senza dare elementi utili per definire e misurare il pluralismo stesso. Un recente documento della Commissione Europea arriva alla conclusione dell’assenza di nozioni comuni di pluralismo nei diversi Paesi dell’Unione e fa scaturire da questo un piano d’azione volto ad accertare entro l’anno gli indicatori concreti per misurarlo.
Il disegno di legge parte da un presupposto apodittico – l’assenza di pluralismo – e, non offrendo indicazioni per valutarlo, si espone alla fondata censura di sproporzione delle misure adottate per ripristinarlo.
Nel quadro comunitario, sono diversi i diritti considerati fondamentali che è necessario garantire negli ordinamenti nazionali. Va ricordato che l’articolo 11 della Carta europea dei diritti fondamentali include tra questi non solo il principio del pluralismo, ma anche quello della “libertà dei media” che, a nostro avviso, viene irragionevolmente conculcato dal disegno di legge.
- Le telepromozioni
L’inclusione delle telepromozioni negli affollamenti orari anziché giornalieri è norma che collide con la direttiva “Televisione senza frontiere” e con la revisione della stessa in corso a Bruxelles.
Come si dirà meglio più avanti, il sacrificio delle telepromozioni arrecherebbe un danno certo a Mediaset, agli investitori, al mercato, ma nessuno ne godrebbe: non i broadcaster; non gli utenti pubblicitari, privati di una forma piacevole di pubblicità; non i consumatori, che si troverebbero con un’offerta televisiva sempre più povera.
Una considerazione generale: impedire di fatto forme di pubblicità più creativa e moderna porterà sempre di più certe tipologie di prodotti (film, sport, programmi per bambini) ad essere appannaggio esclusivo della pay tv, con l’assurdo di un danno fortissimo per il consumatore finale, obbligato dalla legge, per godere di questi programmi, ad indirizzarsi alla televisione ‘per ricchi’.
- Sulle frequenze
L’articolo 3 del disegno di legge prevede diverse modalità di ‘liberazione’ delle frequenze televisive, prima fra tutte lo spostamento su piattaforma digitale di reti Rai, Mediaset e Telecom Italia Media.
Pare di riconoscere nell’ipotesi di legge una tardiva riedizione dello schema anticoncentrativo della legge Maccanico, basato sul presupposto erroneo dell’esistenza di reti eccedenti.
In un contesto digitale, il riferimento al numero delle reti analogiche come misura del potere di mercato di un gruppo televisivo non ha alcun senso.
Quello che succederebbe, soprattutto in mancanza di un ancoraggio, per lo spostamento, all’effettiva penetrazione dei decoder digitali terrestri, sarebbe un ingiustificato e dannoso impoverimento del sistema televisivo, in generale, e, in particolare, della televisione di tutti, quella gratuita.
Incondivisibile totalmente la presunzione che la restituzione di frequenze analogiche possa costituire scorta per l’entrata di nuovi soggetti e condizione per l’abbassamento delle barriere all’ingresso del settore televisivo.
Più o meno l’iter sarebbe il seguente: si spostano le reti analogiche sul digitale, si assegnano le frequenze così liberate a nuovi soggetti analogici e, di lì a tre anni, lo standard analogico spira. Chi ripaga gli eventuali entranti di alti costi e tempi lunghi necessari all’approntamento della rete di impianti per la diffusione dei nuovi contenuti? Senza contare i rilevanti investimenti necessari per offrire un palinsesto appetibile. Quando tutto fosse pronto, anche la data più lontana di switch-off sarebbe alle porte.
Quindi, si tratta di una norma punitiva per gli operatori esistenti, per gli utenti, ma insieme totalmente inefficace rispetto alla richiesta europea relativa alla ridistribuzione delle frequenze.
Altra mancanza che colpisce è l’assenza di qualsiasi riferimento ad una attività di pianificazione e alle procedure sulla futura assegnazione delle frequenze liberate.
L’esclusione di Rai, Mediaset e Telecom Italia Media dal trading delle frequenze, costituisce un ingiustificato ostacolo al completamento della copertura dei multiplex digitali. Questo con il doppio effetto negativo di lasciare parte dell’utenza televisiva fuori dall’offerta digitale e compromettere gli investimenti altissimi per la digitalizzazione, sopportati dalle emittenti sulla base di precedenti leggi dello Stato.
Vengono poi resi più onerosi i limiti anticoncentrativi nel settore digitale.
Il limite alla capacità trasmissiva in capo ad ogni soggetto, l’equiparazione dei servizi pay per view ai “canali” utili per il calcolo dell’antitrust, sono ambedue misure non necessarie, capaci invece di deprimere l’innovazione e di ridurre l’offerta per i consumatori.
È evidente che, se questa norma fosse legge, Mediaset sarebbe posta nell’impossibilità di continuare ad offrire il servizio Mediaset Premium (eventi pay con carta prepagata), che costituisce, oltre che l’unica alternativa all’abbonamento Sky, un vantaggio per l’utente che può avvicinarsi ad un’offerta pay a prezzi flessibili.
- L’Auditel
La norma ipotizza la creazione di un ‘Auditel di Stato’ di cui sfuggono totalmente le motivazioni; né basta a condividerne l’ipotesi la definizione dell’attività di rilevazione dei dati d’ascolto come “servizio di interesse generale”.
Il nostro servizio di rilevazione è agli standard tecnici più elevati d’Europa. La società cui è affidata la ricerca di base è la stessa che svolge uguale servizio nel Regno Unito.
La composizione del capitale, che vede in posizione di rilievo l’associazione degli utenti pubblicitari (UPA) è tale da garantire l’obiettività dei sistemi di controllo.
Vi è poi di già (a seguito delle delibere dell’AGCom n.85/06 del 29/05/06 e n.130/06 del 28/07/06) una sorta di corporate governance imposta all’Auditel stessa, in forza della quale un rappresentante dell’AGCom siederà nel comitato tecnico Auditel.
Questo, unito alla sorveglianza sulle rilevazioni che già la legge 249 affida all’AGCom, dovrebbe essere garanzia sufficiente di obiettività, pur nel mantenimento di un assetto privato dell’Auditel stessa.
Esiste, comunque, assoluta disponibilità da parte di Mediaset ad accogliere in seno al Consiglio di Amministrazione di Auditel i suggerimenti e le sollecitazioni che l’AGCom ritenga di rivolgere ai fini di una maggior garanzia di tutti, utenti, investitori pubblicitari, imprese.
- Il Sic rimane
Contrariamente alle bandiere sventolate contro, il Sic sopravvive con nome cambiato e con una pesante riduzione delle voci che lo compongono.
Si è parlato tanto dell’inutilità del Sic, della necessità di sopprimerlo, ma, se serve a costituire un ulteriore paletto alle risorse delle aziende, ben venga anche nel disegno di legge Gentiloni!
Si chiama “settore delle comunicazioni” e non contiene più le “iniziative di comunicazione di prodotti e servizi”, pari a 3.494 milioni di euro nel 2005, un 15,7% sul totale.
Come dire: “Sic, purché piccolo, è bello!”. Grazie a questa operazione, infatti, il totale delle risorse da 22,2 miliardi di euro passa a 18,7 miliardi di euro, con una quota del 20% sul totale che guarda caso è vicinissima (3,7 miliardi di euro) alla quota Fininvest attuale (3,6 miliardi di euro).
Da rilevare anche la rimozione dell’asimmetria che consentiva a Telecom solo una quota del 10% contro il 20% di tutti gli altri e la sostituzione a questa di una norma che vieta all’ex monopolista “situazioni di collegamento o controllo verso imprese in posizione dominante nel settore televisivo”. Un bel vantaggio concorrenziale per l’ex monopolista delle telecomunicazioni, a cui, a differenza delle televisioni, i limiti vengono tolti.
Rilievi di ordine economico
Lasciando ad un momento successivo le considerazioni di analisi economica, partirei senza infingimenti dalla quantificazione degli impatti su Mediaset del disegno di legge, capace di mettere a rischio fino ad un terzo dei nostri fatturati. Gentiloni dice che questa è un’iperbole: non è così e facciamo un po’ di conto.
Vediamo di seguito la quantificazione economica dei danni per Mediaset provenienti dall’applicazione delle misure previste nel ddl.
- Obbligo per i gruppi televisivi di rimanere al di sotto della soglia dominante vietata del 45% del fatturato pubblicitario televisivo. Per come la norma è scritta, al di là di ambigue interpretazioni dell’ultima ora, il dato è chiaro: indipendentemente dai rimedi suggeriti per legge, la soglia del 45% è invalicabile, pena misure deconcentrative immediate da parte dell’AGCom. Portare Mediaset al di sotto del 45% significa meno 600 milioni di euro di fatturato. E il calcolo è semplice. Prendiamo un dato medio di presenza Mediaset sul mercato pubblicitario televisivo del 60% sul totale: applicando una semplice proporzione tra i dati:
60 : 100 = 45 : X
Il risultato è 75
Il che significa meno un quarto dei nostri fatturati.
- Calcolo delle telepromozioni nell’affollamento orario: a rischio 200 milioni di euro. Tanto più inaccettabile questa misura quando l’Europa anche nella nuova direttiva in discussione non tocca le telepromozioni.
- Decalage di 2 punti dell’affollamento orario se si supera il 45% di fatturato pubblicitario televisivo = circa 300 milioni di euro in meno.
- Trasferimento di una rete su piattaforma digitale = meno 350/400 milioni di euro. Si indica l’intero fatturato di Retequattro, perché con lo stop dato dal Governo alla transizione digitale non sarà possibile recuperare granchè dall’emissione in digitale della rete stessa.
E’ evidente che non avrebbe senso parlare di un danno uguale al risultato aggregato di queste diverse voci, tuttavia nelle diverse combinazioni delle misure previste, anche di tipo temporale, il danno risultante dall’applicazione dei rimedi, anche se disaggregato, raggiunge sempre 7/800 milioni di euro.
E dai conti abbiamo escluso l’impatto negativo di frequenze restituite, quali asset più o meno espropriati, e l’impossibilità di continuare l’offerta pay (altri 89 milioni di euro a valori 2006).
Tornando al 45% come posizione dominate vietata e analizzandola in termini antitrust, l’imposizione di un tetto invalicabile alla raccolta pubblicitaria rappresenta una misura contraria ai princìpi di promozione e tutela della concorrenza.
Anche preventivamente alla posizione assunta dal Presidente Catricalà nella recente audizione, la giurisprudenza e i princìpi a base della concorrenza sono totalmente “contrari a misure che fissino tetti alle quote di mercato e freni alla possibilità di espansione delle imprese”, perchè tali tetti “possono congelare il mercato e aver effetti in termini di efficienza” e farlo pone “ostacoli ingiustificati alla crescita dell’impresa la cui quota dipende oltre che dai comportamenti delle aziende, dall’evoluzione del mercato e dalle scelte delle imprese concorrenti”.
Si va poi totalmente fuori strada quando, per analizzare la concorrenza di un dato settore, si consideri solo un versante (quello pubblicitario) mentre Mediaset agisce in concorrenza con gli altri operatori (satellite in testa) su un altro versante, quello delle audiences.
Il ruolo dell’editore televisivo è quello di mettere in contatto tramite il palinsesto, da una parte i telespettatori, dall’altra i produttori di contenuti. La remunerazione dell’attività televisiva classica avviene sotto forma di canone per la televisione pubblica, di introiti pubblicitari per la televisione commerciale.
Con l’avvento poi della pay tv i ricavi della televisione, oltre che dagli investitori pubblicitari, hanno iniziato a scaturire dal versante dei telespettatori. Questo impone di riconsiderare i confini del mercato rilevante per la televisione ai fini antitrust e di inserire nelle risorse utili al calcolo quelle derivanti da tutte le relazioni esistenti sui diversi versanti. Sia nel caso della free tv, dove i ricavi vengono da pubblicità e canone, sia in quello della pay tv, in cui i ricavi vengono principalmente dalle sottoscrizioni, l’attività degli editori è volta essenzialmente ad attirare il più alto numero di telespettatori (l’audience).
Questo impone una definizione del mercato rilevante che tenga conto dell’intero ammontare delle risorse televisive.
Porre vincoli solo sul versante pubblicitario (il tetto del 45%) per imprese che operino su di un mercato a più versanti determina significative distorsioni al funzionamento del mercato quali la riduzione degli investimenti pubblicitari effettuati sul mezzo televisivo, l’incremento del prezzo per contatto praticato agli inserzionisti, la riduzione del volume delle transazioni.
L’essenza del mercato televisivo come ‘mercato a più versanti’ ha come diretta conseguenza per l’antitrust la necessità di considerare tutte le risorse che gli operatori utilizzano per assicurarsi il tempo di attenzione del pubblico, quindi (ad oggi) pubblicità, canone, abbonamenti alla pay tv.
L’entrata di nuove imprese televisive su piattaforma terrestre analogica è estremamente improbabile e il disegno di legge non determina condizioni idonee a superare la naturale concentrazione del mercato televisivo e favorire nuovi ingressi.
Molto più probabile invece che il disegno di legge, ritardando il pieno sviluppo del digitale terrestre, ostacoli il debutto di nuove imprese televisive e diminuisca il grado di pluralismo esistente nel sistema. In tal senso vedi la mancata fruizione da parte di molti utenti non digitali delle reti spostate dall’analogico fino allo switch-off totale.
Sicuramente il maggior beneficiato della proposta governativa è Sky, che può operare senza limiti nella raccolta pubblicitaria.
Val la pena di sfatare l’ancora sbandierata opportunità di incremento dei fatturati pubblicitari stampa, a seguito di un taglio alle risorse di Mediaset.
Sono trent’anni che Fieg sostiene questa tesi e trent’anni che è incapace di dimostrarla, mentre la realtà del mercato e la dimostrata non sostituibilità dei mezzi televisivi e stampa portano a pensare che effetti depressivi sul versante della raccolta televisiva, prodotti dal disegno di legge, non comportino un innalzamento degli investimenti sulla stampa.
Di conseguenza si rileva la non efficacia del disegno di legge sull’aumento delle risorse stampa.
Un ulteriore effetto negativo del disegno di legge si ripercuote sui diversi mercati collegati alla televisione.
La forte limitazione dei ricavi di Mediaset comporta, innanzitutto, una riduzione delle sue disponibilità a mantenere gli attuali alti livelli d’investimento, con effetti depressivi sulle produzioni italiane ed europee (si ricordano gli investimenti di Mediaset in fiction pari a 220 milioni di Euro nel 2006 e gli 80 Milioni di Euro in film italiani ed europei).
Il disegno di legge contribuisce a creare un ambito economico giuridico incerto, non favorevole all’adozione di piani di investimento rischiosi e innovativi da parte delle imprese. Ciò si traduce nel rallentamento della crescita economica e in ostacolo all’occupazione del settore. Pensiamo anche alla credibilità della nostra azienda e del nostro Paese presso gli stranieri che di Mediaset possiedono oltre il 50% del capitale flottante.
Il ruolo dei broadcaster nel passaggio dalla tv analogica alla tv digitale
L’ultima parte di questo intervento contiene un’analisi del mercato televisivo europeo, dell’evoluzione dell’offerta multicanale e multipiattaforma e l’esame del ruolo dei broadcaster nella transizione; in ultimo i vantaggi, per concorrenza e pluralismo, di una veloce transizione al digitale.
In ciascuno dei 5 principali Paesi europei, l’assetto del mercato televisivo presenta aspetti simili, ma anche, e soprattutto, profonde diversità e caratteristiche singolari o di unicità.
L’analisi comparata fra le quote di mercato dei diversi operatori dovrebbe dunque tenere conto di queste caratteristiche peculiari che riguardano, ad esempio, il ruolo sul mercato pubblicitario dell’operatore di servizio pubblico, la numerosità dei canali nazionali e locali distribuiti su rete terrestre, il grado di diffusione delle abitazioni che ricevono il segnale in tecnica digitale, il tipo di piattaforma distributiva disponibile, etc.
La sola estrazione delle quote di mercato mette, comunque, in evidenza che, con riferimento all’anno 2005:
- in Germania, in Italia e in Gran Bretagna gli operatori pubblici hanno le quote di mercato (sul totale mercato tv ottenuto sommando pubblicità, canone e proventi da pay tv) più elevate, rispettivamente del 48% (ARD e ZDF), del 36% (RAI) e del 31% (BBC);
- in testa alla classifica, con quote di mercato (sul totale mercato tv) pari o superiori al 30%, si collocano, oltre ai citati operatori di servizio pubblico, anche l’operatore di pay tv BSkyB (36%), il broadcaster commerciale Mediaset (31%) e altri due operatori di pay tv (CanalPlus e Sogecable) con il 30% a testa. La quota di CanalPlus è destinata ad aumentare dopo la fusione con il concorrente TPS;
- considerando i soli ricavi da pubblicità televisiva, sono 4 gli operatori commerciali che hanno una quota superiore al 45%. Questi sono: ProSiebenSat1 (46%), ITV (47%, ma in realtà superiore includendo l’insieme dei canali prodotti e collegati ad ITV), TF1 (50%) e Mediaset (56%).
Ciò porta a rilevare come, se il limite del 45% del mercato pubblicitario tv fosse applicato in Germania, UK e Francia, i principali operatori tv sarebbero costretti a ridurre i propri ricavi.
Le principali tendenze del mercato che faranno variare le quote, al di là delle specifiche performance dei singoli canali e Gruppi, sono:
- lo spostamento significativo, a seguito della maggiore penetrazione delle piattaforme di tv digitale multicanale, delle risorse dalla televisione free-to-air verso quella a pagamento, che, ad esempio, in UK si appresta nel 2008 a sorpassare come valore percentuale la televisione gratuita;
- la conseguente crescita delle quote degli editori di canali e servizi di televisione a pagamento e l’ incremento delle loro quote di mercato sia sul totale mercato che, marginalmente, su quello pubblicitario;
- la conseguente riduzione delle quote di mercato (sia sul totale mercato che sul solo mercato pubblicitario) di quegli operatori a prevalente offerta free-to-air che non diversificano e non sviluppano linee di ricavi tramite la distribuzione di nuovi canali e servizi specializzati (gratuiti e a pagamento).
Il mancato o ritardato sviluppo della piattaforma di televisione digitale terrestre (DTT) indebolisce notevolmente la capacità competitiva dei broadcaster terrestri a prevalente offerta free-to-air, mentre rafforza la posizione di mercato di piattaforme configurate come ‘proprietarie’ (satellite, cavo e IPTV), che permettono cioè l’accesso degli utenti alla tv digitale sulla base di offerte premium veicolate tramite decoder proprietario.
Nel processo di formazione della televisione multicanale e multipiattaforma, le quattro piattaforme digitali (satellite, cavo, IPTV e rete terrestre) si trovano in differenti stadi di sviluppo, ma soprattutto hanno caratteristiche strutturali e di configurazione diverse. La piattaforma digitale terrestre è l’unica a non essere configurata come proprietaria e ad essere basata su un’offerta prevalentemente gratuita (si ricorda che il decoder digitale terrestre abilita alla visione di tutti i programmi indipendentemente dalla tv emittente, Rai, Mediaset, Telecom Italia Media, DiFree, emittenti locali che siano).
Nel contesto competitivo di sviluppo della tv multicanale e multipiattaforma, gli operatori che presidiano la piattaforma terrestre, già arretrata per i tempi lunghi e per le difficoltà della migrazione al digitale, sono esposti a una doppia sfida:
- fronteggiano il passaggio alla tv digitale multicanale (investendo nell’aggiornamento delle reti e nella creazione di nuovi canali e servizi);
- competono con nuove piattaforme che offrono servizi integrati in virtù delle loro caratteristiche proprietarie.
In tutti i Paesi europei il nascente mercato della televisione digitale terrestre ha ottenuto una configurazione che ha garantito agli operatori della televisione analogica un ruolo centrale e di traino affidando ad essi il maggior numero di canali disponibili.
Concepita non come una ‘nuova piattaforma digitale’ simile alle altre, ma come la piattaforma di sostituzione e di aggiornamento tecnologico di quella analogica terrestre – che si ricorda ha la configurazione di servizio universale – la piattaforma digitale terrestre ricolloca gli operatori analogici in un contesto di maggiore concorrenza e pluralismo, permettendo la moltiplicazione degli editori e dei canali disponibili.
Il confronto fra 4 Paesi europei mette in evidenza come:
- il peso degli operatori nazionali di televisione analogica, in termini di numero di canali, sia simile in ciascun Paese;
- il numero degli editori attivi con disponibilità di canali nazionali sia in forte crescita grazie alla piattaforma DTT.
Un’accelerazione della conversione al digitale permetterebbe una riduzione del numero di quelle famiglie solo-analogiche che, nel corso degli ultimi anni del periodo di migrazione, costituirebbero una parte rilevante del mercato.
Con la data dello switch-off posticipata al 2012, fra il 2007 e il 2008 ci sarà circa metà delle famiglie italiane ancora solo analogiche e l’altra già in grado di ricevere attraverso le diverse piattaforme, servizi di televisione digitale.
Inoltre, il posticipo dello swicth-off ha un impatto significativo anche sull’emittenza locale che, come è noto, costituisce sul mercato italiano una sorta di televisione multicanale analogica che non ha pari in Europa e che ha, in maniera significativa, incrementato la ricchezza della offerta televisiva fruibile da ogni singola famiglia.
Per le televisioni locali analogiche che non hanno disponibilità di trasmettere in simulcast (cioè in contemporanea tramite segnale analogico e digitale) uno switch-over rallentato e posticipato significa una drastica perdita di audience e dunque di ricavi pubblicitari. Infatti, la progressiva affermazione dell’uso del decoder digitale spinge gli utenti a ricorrere sempre meno alla visione dell’offerta analogica sacrificando così le emittenti presenti solo su questa. Al contrario, se gli utenti passano continuamente dal segnale digitale a quello analogico (per poter vedere canali che non sono trasmessi in tecnica digitale), la stessa offerta digitale si impoverisce di audience e ne fanno le spese quei canali trasmessi solo in tecnica digitale che dovrebbero garantire maggiore pluralismo proprio in virtù di un incremento dell’audience.
Il ritardo dello switch-off impoverisce allo stesso tempo la televisione analogica e quella digitale gratuita a evidente vantaggio delle piattaforme digitali proprietarie a pagamento che diventano l’unica via per accedere a un’offerta ricca.
In conclusione
- Il modello sotteso al ddl appare arretrato e quindi incapace di comprendere la reale portata e gli effetti dei fenomeni tecnologici in atto.
- Intervenendo sul solo mercato della televisione terrestre (analogica e digitale), il ddl trascura completamente le dinamiche complessive del mercato televisivo, di quello audiovisivo e del più ampio mercato della comunicazione, nel momento in cui questi sono esposti a radicali processi di trasformazione. Il ddl ignora le specifiche forme di evoluzione dello stesso mercato della televisione terrestre, sul quale vuole intervenire, non considerando che esso ‘si immette’ nel più ampio e integrato mercato della televisione digitale, multicanale e multipiattaforma. Addirittura, a testimonianza della parzialità dell’intervento normativo proposto, si evita di occuparsi dell’assetto della Rai, magna pars del sistema televisivo, rimettendolo ad un futuro, quanto fantomatico ddl specifico.
- Non è la prima volta che in Italia la riflessione sul sistema televisivo, ma anche la stessa attività dei decisori, risulta influenzata da pregiudizi ideologici e da una scarsa comprensione delle dinamiche reali del mercato. Alla componente ideologica si aggiunge anche l’indiscutibile difficoltà nel comprendere le più recenti trasformazioni di un sistema che è attraversato da numerosi e forti processi di evoluzione strutturale, che alterano i confini fra i diversi ambiti che compongono l’intero mercato della televisione. L’insieme di questi elementi spinge parte degli ‘osservatori’ (ma anche dei decisori politici e dei regolatori) del sistema televisivo a preferire punti di osservazione e posizioni di retroguardia, ripiegando nella comoda osservazione di ciò che è più facilmente conosciuto, individuabile e/o riconoscibile: la televisione terrestre per come era negli anni Ottanta e Novanta.
- In una fase di forte evoluzione tecnologica e strutturale, come quella attuale, un sistema di regole dovrebbe mostrare ‘cautela e prudenza’ e soprattutto dovrebbe tenere in attenta considerazione il contesto evolutivo dei mercati e le prospettive di crescita dei diversi operatori che li presidiano. Al contrario, il ddl propone un approccio punitivo verso Mediaset, leader di mercato dell’offerta televisiva gratuita, che è esposta alla difficile sfida del passaggio alla televisione digitale, su una piattaforma aperta, in un contesto di forte incremento della concorrenza.
- L’opinione di Mediaset è che l’applicazione integrale delle leggi esistenti e una transizione veloce al digitale sarebbero misure in grado di favorire – più delle ipotesi contenute nella proposta governativa – l’apertura del mercato televisivo, l’ingresso di nuovi soggetti, un maggior pluralismo di presenze nel settore.
In conclusione, come ho cercato di argomentare dal punto di vista giuridico ed economico, le nostre osservazioni sul disegno di legge sono critiche.
Sono più di trent’anni che il Parlamento italiano periodicamente rivolge la propria attenzione al settore televisivo. E ogni volta, indipendentemente dalle maggioranze politiche del momento, ha comunque individuato soluzioni che hanno reso possibile l’esistenza di un sistema televisivo che ha un’offerta tra le più ricche di Europa, all’avanguardia tecnologica in un settore vivo e competitivo.
Mi auguro che anche questa volta, al di là delle prese di posizione ideologiche e delle naturali contrapposizioni politiche, alla fine si legiferi tenendo conto delle logiche industriali, degli interessi dei telespettatori e delle aziende che ruotano intorno al settore della comunicazione.
Spero, infine, che l’invito ad una discussione serena del Presidente Meta trovi in voi convinta adesione al fine di creare regole rispettose di quei princìpi di efficacia e proporzionalità che stanno alla base della nostra Costituzione e dei princìpi costitutivi dell’Europa.