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Cari ragazzi provenienti da Forza Italia, una scuola di formazione politica che vede insieme chi viene da percorsi diversi è l’occasione per una riflessione sul nostro passato, ma soprattutto sul nostro futuro insieme. “Noi siamo indistruttibili”. Così disse Marzio Tricoli, giovane e forte dirigente siciliano di Alleanza Nazionale, come me proveniente dalle organizzazioni giovanili della destra. Eravamo, per una delle solite manifestazioni, nella sala del Castello di Carini, quello della Baronessa. Era il 16 giugno 2001. Mentre ascoltavo Marzio quella parola fu per me come un lampo. Si, siamo proprio indistruttibili, pensai. Abbiamo superato l’attacco fisico dei nemici negli anni di piombo, abbiamo affrontato, con orgoglio, discriminazioni e ghettizzazioni umane, politiche e culturali, abbiamo avuto più sconfitte che vittorie. Eppure non ci hanno distrutto.

In quel momento ero ministro del governo Berlusconi. Ma mi sarei sentito indistruttibile anche se non avessi avuto un incarico così importante e gravoso. L’aggettivo di Marzio mi aveva convinto e dopo la manifestazione commentammo scherzando questa affermazione che lui aveva fatto davanti al pubblico. Venti mesi dopo Marzio morì. Un episodio assurdo, gas da una stufa in una casa di montagna vicino Palermo. Fece in tempo a salvare i due bambini, ma non a trovare l’aria che avrebbe fatto vivere anche lui. Quando ci trovammo per ricordarlo pensai che non era vero che eravamo indistruttibili e che quell’episodio, molto diverso da quelli quasi di guerra del nostro passato, dimostrava che siamo molto più deboli di quanto pensiamo. Ma ho subito superato il dubbio. L’importante è sentirsi indistruttibili nella nostra vita quotidiana, pensare di essere più forti degli eventi che ci assalgono. Poi forse non siamo indistruttibili. Ma pensando di esserlo e come se lo fossimo davvero.

Questa vicenda mi torna spesso in testa. Certo anche per il ricordo di un amico che oggi sarebbe nella prima linea del PdL. Ma come metafora di una vita che può avere dietro ogni angolo insidie impreviste, anche banali e tuttavia tragiche nello stesso tempo. Una vita però nella quale chi ha una responsabilità deve trasmettere energia, forza, decisione. È importante una buona preparazione, una solida cultura, una ricca biblioteca, degli studi veri. Ma l’energia è tutto. Se la forza non è con te, il lato oscuro vince. A volte bisogna decidere, prendere posizione. Non si può fare la media ponderata delle opinioni altrui. Ho incontrato un paio di volte in Israele Simon Peres, attuale presidente e leader storico dello Stato e ne conservo un insegnamento: “uno sa di essere leader nel momento in cui si rende conto che non c’è nessuno in grado di rispondere alle sue domande e che tocca a lui solo trovare le risposte”. Assumersi responsabilità. Compiere scelte. Con il rischio di fare qualche errore. Ma questo modo di essere è per me l’unico che può scegliere chi ha la voglia di essere punto di riferimento. Trasmettere energia, che nasce dalla passione per ciò che si fa, e prendere decisioni. Sono le prime riflessioni che offro a chi viene da un cammino diverso dal mio.

Il reducismo e l’esperienza

Molte volte la mia generazione di militanti missini formatasi nei difficili anni Settanta, di piombo vero e non virtuale, corre il rischio del reducismo. Noi che abbiamo vissuto la tal giornata, noi che abbiamo fatto questo e quest’altro, che abbiamo subito quel fatto, respinto quel pericolo e via combattendo e narrando. Che sia stata una stagione epica lo dicono i fatti. Tralasciando la pubblicistica della nostra parte, un giornalista non di destra, Luca Telese, con il suo “Cuori neri” ha offerto una ricostruzione precisa e drammatica di persone e vicende, raccontando la tragedia della destra italiana di quegli anni. Però non possiamo imporre una sorta di superiorità di militanza, che diventa morale, a chi è nato dopo o viene da altri percorsi. Questo vale per noi oggi cinquantenni nei confronti dei più giovani, come a ritroso vale per quelli più grandi di noi carichi di guerre e di eroici dopoguerra. Si rischia di sfociare nella retorica con la tendenza di molti ad un protagonismo privo di fondamento, perché troppe comparse si autocelebrano come protagonisti. Archiviamo il reducismo di oggi, di ieri e dell’altro ieri. Chi viene dopo può essere più bravo perché studia di più, viaggia di più, vive più rapidamente di altre generazioni importanti e intense esperienze. Se qualcuno esagera, facendovi pesare una storia che non avete potuto vivere per ragioni anagrafiche, insorgete. Nel contempo però è un errore anche ignorare l’esperienza. Gli ambienti di An hanno guardato con troppa aria di sufficienza i rappresentanti di Forza Italia. Legati ad una mentalità e a una militanza di tipo tradizionale, a destra in troppi hanno ceduto alla polemica sul partito di plastica. Chi come me ha sempre sostenuto l’unione tra An e Forza Italia ha spesso affrontato critiche e polemiche, ma anche qui la solidità delle buone ragioni non mi ha mai portato a ripensamenti o a idee diverse. Metodi e tecniche differenti (anche se poi Berlusconi ha ripreso la tradizione di un rapporto diretto tra leader e masse) vanno applicati e rispettati. Ma l’esperienza, non il reducismo tromboneggiante, va considerata e messa a frutto, per il bene dell’organizzazione. Chi ha fatto, conosce, si è misurato, offre un contributo importante. Perché è la prova dei fatti che determina il valore di una persona. Zed nel film Zardoz sentenziò: “colui che combatte a lungo con i draghi, diventa un drago egli stesso”.

No all’et et, si all’aut aut

Per molti bisogna cedere alla logica inclusiva dell’et et. Alcuni hanno dato dignità filosofica a questo concetto, che rischia di far prevalere un relativismo assoluto, in cui tutto è vero e tutto è falso. “Eppure è anche vero il suo contrario” diceva con cinica rassegnazione Leo Longanesi. Ma è davvero così? È conveniente galleggiare sui fatti, non prendere posizioni nette e chiare? No. Non conviene. Alla fine meglio la logica dell’aut aut. Indicare un cammino, fare una scelta. La gente approverà o condannerà. Ma capirà. “Dimmi qual è la direzione. Fallo prima che finisca la passione”, ha scritto Mogol. E chi sceglie la politica deve dare una indicazione. “ Sono il loro leader, quindi li seguo”, ironizzava Flaiano.Un eccesso da evitare, per non diventare vittima della pubblica opinione. Bisogna però sfuggire alla sindrome della casella sbagliata o dell’uomo che morde il cane. Molti anni fa quando la destra non riusciva a bucare il muro di silenzio che la isolava, alcuni teorizzavano che l’unico modo di fare notizia era quello di farsi trovare nella casella sbagliata. Ci si aspetta una destra tutta legge ordine e anti-68? E per andare sui giornali bastava inneggiare alla contestazione o criticare le leggi più dure sulla sicurezza. Si potrebbero fare molti esempi. Del resto anche nel giornalismo si dice che fa più notizia l’uomo che morde il cane che il cane che banalmente morde l’uomo. Di addentatori ce ne sono in giro diversi a destra, soprattutto tra chi venendo da An soffre ancora della sindrome da “polo escluso” e quindi spara sciocchezze per la gioia dei giornaloni impegnati nella caccia al quotidiano marginale ma eretico, al fesso del giorno che balza agli onori della cronaca. Non bisogna essere pigramente al seguito dei propri elettori, ma nemmeno può essere considerata una missione sorprenderli, bastonarli e allontanarli ogni giorno. A volte bisogna avere anche il coraggio di forzare i toni, non solo per farsi ben capire, ma per evitare pericolose derive. Negli anni Settanta e Ottanta si discuteva nella redazione del “Secolo d’Italia” di alcune posizioni che apparivano a volte troppo nette, troppo di destra. E chi aveva il timone in mano diceva, non senza ragione, che se il Msi-Dn teneva posizioni dure e ben scandite la Dc, allora dominante, non poteva scoprirsi troppo a destra ed era costretta ad evitare una resa totale alla sinistra. Il principio può apparire semplicistico, ma l’esperienza ci dice che ha una sua validità. Ecco perché a volte il confronto va affrontato in modo deciso. Se tutti balbettano e cercano l’applauso della parte avversa la situazione scivola verso il degrado e scelte inaccettabili diventano possibili, perché non contrastate con la forza necessaria. È vero che bisogna conquistare il centro per vincere, ma non bisogna perdere quella vasta destra che finalmente è emersa.

I Militanti, che si battono con convinzione e non per convenienza

Quale che sia il livello di responsabilità che si raggiunge, anche ai massimi livelli, la politica è e resta un atto di militanza. Si testimoniano idee e valori, si agisce per attuare un progetto, si rappresentano persone, comunità e territori. Non è un lavoro, una professione, una carriera. Molti anni fa chiesi alla fidanzata di un nostro dirigente giovanile che lavoro facesse il suo ragazzo: “fa la carriera politica” mi rispose con naturalezza. Rimasi interdetto perché non avevo mai pensato al nostro impegno come a una “carriera”. Per carità, non siamo ipocriti, c’erano aspirazioni e incarichi anche venti o trent’anni fa. Ma nessuno ha scelto l’impegno politico in quel tempo perché si immaginasse sindaco, ministro, sottosegretario o nemmeno deputato o consigliere comunale. Capitava a pochi come conseguenza di una sorta di selezione naturale. Ma gli spazi per i giovani erano limitati e i tempi di attesa lunghi. Per inciso quello che voleva fare “la carriera politica” non trovò sbocchi e cambiò percorso, trovando anche soddisfazione nella Pubblica amministrazione, senza cambiar fede ma un po’ occultandola. Se, cari ragazzi, ci fosse, ma certo non c’è, qualcuno tra voi che consideri la politica un modo come un altro per “svoltare”, o peggio ancora per approdare in un mondo di furbizie e privilegi, lasci perdere immediatamente. Ci sono mille altri modi per ottenere maggiori soddisfazioni economiche e di altra natura. La politica vera è fatta di dedizione, fatica, sacrificio, apprendimento, relazioni umane, viaggi, anche all’alba e a notte fonda, capacità di trovare risposte anche quando sembrerebbero non essercene, dare coraggio e indicare la linea anche quando sembra non ci sia via di uscita e la sconfitta sia permanente. Militare insomma per convinzione, non per convenienza. E a destra la convinzione doveva sempre essere tanta, perché la convenienza non c’era proprio. Oggi troppi si sentono frustati se a 25 anni non sono assessori o vice-sindaci. La sindrome che aveva colto con inconsapevole naturalezza la fidanzata di quel nostro dirigente è diventata un virus che colpisce troppi. Il carrierismo, la pretesa quantomeno di un posto di sottogoverno, il volere tutto e subito sono un difetto di tanti, direi di troppi. Uccidi il carrierista che è in te e vedrai che se vali avrai più soddisfazione di quanto potresti immaginare. Sembra una affermazione consolatoria. Invece è piena di verità.

E non tutti in politica. . .

Corsa al Parlamento, quanto meno a un posto in una giunta locale, tutti nella nomenklatura politica. E poi? Si governa così una Nazione? E’ tutta lì la classe dirigente? Quante volte abbiamo criticato la sinistra che si è introdotta nei gangli vitali dell’università, della magistratura, dell’informazione, degli apparati pubblici? Da quei posti si orienta uno Stato più che da uno scranno parlamentare, dove molti restano anonimi schiacciatori di bottoni, sommersi da cittadini che parlano male della politica ma seppelliscono i politici con quantità insopportabili di richieste di favori. Ed allora non sembri un paradosso quello di invitare dei giovani che partecipano ad un corso di formazione politica a non guardare nel loro futuro solo all’orizzonte della politica. Servono buoni italiani che guidino con serietà società pubbliche, che non mettano le cattedre e le toghe al servizio di un fazioso disegno della sinistra, gente che dia una spina dorsale all’Italia. Studiare, prepararsi, avere nel cuore l’Italia che ha bisogno di buoni italiani. Alcuni proseguiranno con noi il loro cammino, altri saranno anche più importanti, perché faranno crescere l’Italia, la sua ricchezza, la sua reputazione. Non si governa solo dal Palazzo d’Inverno. Che poi oggi non esiste più. Conta mille volte di più un talk-show televisivo che un ministero.

Chi siamo e cosa vogliamo? Identità e cambiamenti

L’eterna domanda è risuonata per anni e anni noiosa e retorica: chi siamo e cosa vogliamo. E giù sproloqui filosofici con overdose di retorica. Un antico esponente della destra, quando sentiva l’alato interrogativo irrideva sdrammatizzando: chi siamo? Replicava all’interlocutore: “io e te, e che vogliamo? Un posto a te e un posto a me”. Brutale sintesi che tendeva a smascherare i troppi presunti guardiani dell’identità, che poi cercavano come tanti una collocazione adeguata per sé, non trovando la quale facevano scattare la pretestuosa polemica identitaria. Non cediamo, per le ragioni esposte in altri punti, alla logica del posto. Ma non possiamo certo trascurare la questione dell’identità. Se ne è discusso molto in An in questi anni. Molti, temendo la perdita di posizioni di rendita, frenavano il cammino verso il partito unitario del centro-destra, eccependo presunte crisi di identità. In realtà erano tutte fesserie. Un grande e arioso contenitore avrebbe, come sta accadendo, lasciato spazio a una pluralità di sensibilità in una cornice unitaria di sintesi. Orientamenti cattolici, liberali, nazionali, riformisti trovano spazio e cittadinanza. Semmai, ma ne abbiamo scritto già, ci sono turisti dell’identità in libera uscita, che dopo aver esitato di fronte al cammino unitario, buttano dentro il PdL radicalismi e laicismi che poco servono, se non a creare confusione. La logica del paradosso poi vuole che questo smarrimento di pochi colpisca piccoli settori di quella destra che si strappava le vesti per la perdita delle certezze. Il PdL non dovrà imporre niente a nessuno e ai ragazzi che vengono da Forza Italia, come a quelli di An, indico una grande missione: proporre, interpretare e difendere una grande identità italiana. Da Dante ai giorni nostri, la storia e la cultura italiane sono piene di protagonisti e di contenuti; nella letteratura, nella scienza, nelle arti, anche le più recenti dell’immagine e della multimedialità. È italiano, sconosciuto ahimè a tutti, perfino l’inventore del microprocessore (senza il quale non ci sarebbero pc, telefoni mobili, modernità), il vicentino Faggin, erede contemporaneo delle genialità di Leonardo. Nessuna sudditanza, aperti al mondo ma orgogliosamente italiani. E non dobbiamo farci dare lezione di amor patrio, in vista dei 150 anni di unità dell’Italia, da chi, se avesse vinto sessant’anni fa la sua parte politica comunista, avrebbe fatto tabula rasa della storia e dell’orgoglio nazionale. La Patria non è morta, ha vissuto come tutte le comunità momenti alti, forse non troppi, momenti drammatici, non pochi. Siamo arrivati all’unità dopo altri grandi Stati europei, tra molti problemi. Il Tevere prima più largo, poi più stretto con il Concordato, ha assistito alle lacerazioni con la Chiesa, il cui potere temporale fu causa di scontri, ma la cui presenza è colonna portante dell’identità italiana (che sarebbe la nostra terra senza le sue Cattedrali, i codici conservati nei monasteri, l’arte ispirata alla religione? Semplicemente nulla). Una grande missione per il PdL e per i suoi giovani: costruire il futuro ma scavando a piene mani nei giacimenti della storia e delle grandezza italiana. Dante, Petrarca, Galilei, Machiavelli, Leon Battista Alberti, Raffaello, Paolo Uccello, Michelangelo, Leonardo, Alfieri, Foscolo, Manzoni, Carducci, D’Annunzio, Guglielmo Marconi, F.T. Marinetti, Enzo Ferrari e fino alle espressioni della creatività del cinema di Fellini e Sergio Leone. Siamo una grande terra. Non dobbiamo andare lontano o viaggiare troppo per sapere chi siamo. Sarà più faticoso stabilire cosa vogliamo, perché dare un’anima al futuro, realizzare un autentico progetto italiano non è cosa facile, ma è la nostra sfida, la vera missione del Popolo della Liberà. Non un cartello elettorale o una aggregazione momentanea, ma un grande partito degli italiani e per l’Italia, chiamato a scrivere pagine di storia. È questo ciò che dovete volere, è ciò che vogliamo.

Mai cagnolini politicamente corretti

Evitate per favore la sindrome del politicamente corretto. È speculare alla teoria già illustrata della casella sbagliata, con l’aggravante della resa al pensiero dominante. Cinguettare le cose che piacciono alla sinistra, per avere, se si è in prima fila, il favore dei giornali “giusti” è una forma di provincialismo, mista a un senso di inferiorità che nasce dall’insicurezza e dall’ignoranza. È un effetto del ’68 che non finisce mai. Stereotipi e luoghi comuni sinistresi vengono da quella stagione. Mode, frasi fatte, rifiuto della vera identità italiana, droghe, magistratura democratica, psichiatria democratica, relativismo, e quanto c’è di peggio viene da lì, e lo troviamo negli editoriali, nelle sentenze, nei talk show. Per molti è impossibile mettersi contro vento. Meglio assecondare il pensiero prevalente, nonostante sia poi quello perdente in termini elettorali. Il politicamente corretto è il cancro delle idee, la resa alle banalità e ai luoghi comuni. È frutto di superficialità, di scarse letture, della voglia di apparire adeguati a minoranze di presunti “pensatori”, che sono perdenti nel paese reale ma dominanti nei salotti e nei centri decisionali dell’informazione. È utile staccare il biglietto per questo viaggio da schiavi degli altri per ottenere buoni titoli sui giornali pronti a riconoscere saggezza e lungimiranza a chi si differenzia dai “rozzi” testimoni di una identità. I laudatori rilasciano patenti di presentabilità sociale, ma ovviamente continuano a votare per i loro campioni di sinistra. Il soggetto politicamente corretto come massimo beneficio va incontro al destino di un cagnolino da borsetta, stile chihuahua orrendamente agghindato in modo innaturale ma tale da poterlo mostrare in salotto come un gioiellino da passeggio. Ma guai ad abbaiare.

Etica e politica

Ha detto il Cardinale Camillo Ruini: “Benedetto XVI ha coniato l’espressione assai efficace ‘dittatura del relativismo’. La visione relativistica della volontà individuale e dei diritti individuali – spesso soltanto presunti – come una frontiera non superabile esclude la legittimità di ogni etica pubblica che si richiami a princìpi diversi da quello della libera scelta individuale: esclude soprattutto ogni etica oggettivamente fondata. Perciò anche la precisazione che determinati princìpi non sono specificamente cattolici, ma corrispondono alla realtà dell’uomo, non attenua l’opposizione da parte dei relativisti. Un impegno comune degli ‘umanisti’, credenti o non credenti, che vogliono rimanere fedeli alle grandi tradizioni liberali e democratiche – cristiane nella loro radice –, dovrebbe consistere, dunque, nel cercare di affrancare l’irrinunciabile pluralismo democratico da un’interpretazione radicalmente relativista”. Sembra complicato ma non lo è. Mentre infuriava la polemica sulla legge sul testamento biologico, incontrai casualmente in aeroporto un Cardinale molto importante e, paradossalmente ma saggiamente, mi disse, riferendosi al delicato dibattito in corso: “non fatene una questione di religione ma di civiltà. Anche chi non crede deve avere una idea della vita e della morte. Se ragionerete così avrete più possibilità di aggregare coscienze e di riuscire nella vostra opera”. Essere il Popolo della Libertà non vuol dire garantire a ciascuno la possibilità di fare ciò che vuole, con il solo limite di non crear danno ad altri. È ben difficile lasciare al singolo la decisione sul limite alla libertà. Occorrono regole per far vivere insieme la libertà delle persone con il bene comune, “ben sapendo che il bene del corpo sociale è anche il bene delle persone che lo compongono” (Ruini). Ci sono insomma dei princìpi etici che devono caratterizzare l’azione politica. Negli ultimi mesi questo tema si è imposto all’attenzione in occasione delle discussioni sulla vita, sull’aborto. No allo Stato etico, si è detto, temendo norme oppressive. Lo Stato etico viene assimilato ad esperienze totalitarie, e l’espressione è quindi irrecuperabile. Ma può esistere uno Stato senza un’etica? E un’etica pubblica è vietata? La politica è gestione di affari correnti, aliquote Iva, Pil, Dpef, commi e cavilli sulle quote latte o date e strade? La politica deve governare le comunità, confrontare e attuare progetti. Deve quindi avere un’etica, altrimenti è amministrazione, nella migliore delle ipotesi, senza valori e prospettiva. Non si tratta di contrapporre i cosiddetti laici a oscuri clericali. C’è poi un equivoco di fondo: troppi usano il termine laico in modo improprio. Laico è chi non fa parte di un ordine religioso. Quindi la maggior parte dei cattolici è laico. Altro sono i laici non cattolici. Che non devono essere soverchiati, ma che non possono imporre all’Italia la rinuncia ad una sua profonda identità, che è anche, se non soprattutto, cattolica. Basta guardare le nostre città e i nostri centri storici. I laicisti atei abbiano il coraggio civile di definirsi tali, e non pretendano di considerare degli anti-democratici quanti, a prescindere dalla fede religiosa, ritengono che la politica, i partiti che la organizzano, gli Stati, debbano per una questione di civiltà avere una visione delle persone e delle cose. Un’etica appunto. Perché, accantonata per ragioni storiche la locuzione Stato etico, i laicisti non potranno certo imporre una politica senza etica, vittima del politicamente corretto, subalterna alla sinistra pronta ad applaudire chi ad essa, perdente e senza futuro, si arrende dimostrando un pauroso vuoto di idee. Veri. Militanti. Liberi. Scorretti se necessario. Cosi saremo e sarete responsabili, forti di passione, costruttori del futuro Dobbiamo agire come se il mondo dipendesse da noi, solo così avremo coraggio e responsabilità invece di fatalismo e resa a idee sbagliate.

Maurizio Gasparri