Privacy Policy Cookie Policy

Cari ragazzi che provenite da AN, sono stato a lungo un osservatore attento ma distante della vostra organizzazione. E quella distanza, in fondo, traduceva un sentimento difficile da afferrare, frutto dell’alchimia tra l’ammirazione e la diffidenza. L’ammirazione era per la vostra fede, per la forza dei vostri ideali, per quel senso di comunità che soltanto l’avvertire e il vivere insieme le stesse speranze e gli stessi orizzonti può produrre. Merce rara nel mondo di oggi! Di fronte a una secolarizzazione dipinta come imperante e ineluttabile, per cui anche in politica – anzi soprattutto in politica – cogliere l’attimo fuggente sembra un imperativo categorico, Voi mi apparivate tra i pochi a possedere il senso della durata e del suo significato. Il che implica necessariamente saper considerare da dove si proviene e, dunque, farci i conti.

La diffidenza, in fondo, si abbeverava alle stesse fonti. Temevo che in quel senso della politica e della militanza così demodé vi fosse qualcosa di vecchio e di nostalgico più che d’antico. Che la fedeltà ai principi della nostra civiltà occidentale – della quale io stesso avevo compreso fino in fondo il valore dopo l’11 settembre 2001 – implicasse per Voi il rifiuto a smobilitare: il rifiuto a prendere le distanze dai drammi e dalle tragedie che la lotta politica del Novecento, anche coniugata al giovanile – anzi, soprattutto in ambito giovanile – aveva prodotto. Insomma: temevo che i vostri principi fossero degradati in ideologia; il vostro amore per la lotta politica in “politicantismo”; il vostro senso della comunità in settarismo. E che la riscoperta della tradizione di questa parte del mondo potesse resuscitare quelle scritte nere sui muri di Roma dove la parola Occidente era utilizzata per definire una terza posizione, in realtà inesistente ancor più che sconfitta, equidistante tra Mosca e Washington.

La distanza si è azzerata con la nascita del PdL, con una campagna elettorale condotta fianco a fianco e, soprattutto, con l’essere riusciti a evitare insieme – voi giovani e noi più anziani – che lo scorso autunno riuscisse l’ennesimo incendio della prateria universitaria da parte di una sinistra non ancora stanca di chiedere agli studenti di mobilitarsi contro il loro stesso futuro. Anche perché, in quel frangente, l’incontro con i ragazzi di Forza Italia ha consentito di apprezzare le Vostre caratteristiche in un contesto dinamico. Di fronte a chi cercava di strumentalizzare persino una riforma allora inesistente, e chiudeva colpevolmente gli occhi su sprechi, privilegi e nepotismi di un mondo universitario che troppo a lungo ha fatto sentire la propria voce solo per chiedere più soldi senza offrire in cambio alcuna garanzia d’autoriforma; di fronte ad assemblee permanenti e occupazioni, Voi avete rappresentato “l’ala movimentista” della contro-protesta: quella che chiedeva che la mobilitazione avesse obiettivi di riforma reali e che non era disposta a cedere la piazza – ma nemmeno “l’auletta” – alla sinistra. I giovani di Forza Italia, invece, hanno dato voce all’elemento d’ordine, a quella maggioranza silenziosa di studenti che all’università va per studiare, per fare esami, per non perdere tempo prezioso per prepararsi ad affrontare un futuro sempre più incerto.

Oggi possiamo affermare che l’integrazione tra le due anime dei giovani del PdL è riuscita. Non solo perché la strumentalità della sinistra questa volta non ha raggiunto il suo scopo. E non solo perché il fronte tra presidi e rettori che sobillavano dietro le quinte e studenti che inondavano le piazze – l’ultima volta li avevamo visti andare in onda ai tempi della riforma Moratti – questa volta, anche grazie a Voi, non ha retto. È accaduto qualcosa di più: una parte del vostro modo di essere e di pensare è passato nella mente e nel cuore dei ragazzi cresciuti in Forza Italia, e forse anche Voi siete oggi in grado di apprezzare non come mero disimpegno le ragioni di quei giovani e della loro richiesta d’ordine e di normalità. Questa reciproca trasfusione deve segnare un inizio. Non va assolutamente interrotta. Sennò tutto rischia di ridursi a un déjà vu. C’è stato un tempo in cui nelle università vi erano i parlamentini autogestiti: una palestra nella quale si sono formati tanti futuri dirigenti politici, anche della destra. Anche allora, in particolare nella seconda metà degli anni Sessanta, quando l’egemonia della sinistra iniziava ad apparire evidente e si palesavano i primi sintomi del Sessantotto, tra l’elemento nazionale e quello liberale si determinò un’alleanza di fatto.

Certo: esisteva allora il mito dell’antifascismo di Stato che impediva accordi espliciti. Non di meno, si era stabilita una sorta di divisione dei compiti. I giovani liberali di destra dell’Associazione Goliardica Italiana (AGI) agivano rispettando i canoni della rappresentanza; quelli del Fuan si trovavano in bilico tra il parlamentino e la piazza. Si marciava divisi e, laddove possibile, si colpiva uniti la sinistra straripante. Anche se, molto più spesso, più che colpire si veniva colpiti. Poi, però, quei parlamentini vennero spazzati via dall’avvento del Sessantotto. Lo scontro si fece più cruento e le distanze aumentarono senza che nessuna sintesi fosse più neppure cercata. Ecco: se anche oggi ci si fermasse lì, a una divisione dei compiti, sebbene all’interno di una medesima organizzazione, quella che avete deciso di costituire – ve lo dico con franchezza –, sarebbe un fallimento o, almeno, un mezzo fallimento. Perché integrarvi in qualcosa di inedito – all’altezza della novità che nella vita politica italiana il PdL ambisce a rappresentare – è qualcosa di diverso. Di più difficile e di più serio che il semplice dar vita a una nuova e comunque benvenuta organizzazione unitaria.

Potete pensarla come Christian Caryl, che colloca la svolta della storia contemporanea in corrispondenza del 1979, anno in cui sulle gambe di donne e uomini come la Thatcher, Deng, Giovanni Paolo II e, per certi versi, persino dell’ayatollah Khomeini parte la marcia di una contro-rivoluzione conservatrice che, tra l’altro, fa intravvedere all’orizzonte che la profezia di André Malraux, secondo la quale il XXI sarebbe stato il secolo delle religioni, debba considerarsi qualcosa di molto più serio di una stravaganza. Più convenzionalmente, potreste pensarla come Furet e Hobsbawm i quali, da sponde opposte e con opposti giudizi, ritengono che il “secolo breve” si apra nel 1914 e si concluda nel 1989 con la fine del comunismo.

La si può pensare anche come quanti, tra i quali il sottoscritto, ritengono la Prima Guerra Mondiale uno degli eventi più sconvolgenti di tutta la storia dell’umanità al punto che, per decretarne esauriti gli effetti, non si sono accontentati della implosione dell’impero sovietico; hanno atteso che si consumassero le guerre balcaniche, residuo a tutti gli effetti della distruzione di quel miracolo di convivenza tra etnie e religioni, mirabilmente descrittoci da Crnyanski Milos in Migrazioni, che fu l’impero Austro-Ungarico. La si può pensare come si crede e sul punto la discussione sarebbe assai lunga. Quello di cui dovete però prendere atto è che i paradigmi novecenteschi sono ormai roba per discussioni tra storici; non riguardano giovani politici che si accingono a dar vita a una nuova avventura.

Voi sapete da dove venite, ed è un bene. Ma è solo guardando avanti, senza più la tentazione di voltarvi indietro, che potete realmente far fruttare il vostro patrimonio, ciò che la generazione precedente ha lasciato nelle vostre mani. Per cercare di convincervi porterò tre esempi, che riguardano tre grandi categorie dello spazio pubblico: lo Stato, la democrazia, la religione. Quando la globalizzazione è scoppiata, internet ha fatto intravvedere tutte le sue potenzialità applicate alla conoscenza ma anche all’organizzazione economica, si è comunemente ritenuto che lo Stato nazionale fosse destinato ad essere liquidato, a perdere la sua funzione, a vantaggio da un canto di organizzazioni sovrastanti, e dall’altro di enti e istituzioni più piccole e decentrate. In questo modo – è facile intuirlo – una parte rilevante della vostra cultura politica, quella che individuava nello Stato lo strumento attraverso il quale il principio nazionale si afferma, è stata messa in liquidazione.

Col trascorrere del tempo, però, e con il sedimentarsi di quei fenomeni che vanno sotto il nome di globalizzazione, si è scoperto che degli Stati c’è ancora bisogno, sia in ambito interno che sia in ambito internazionale. Non per questo vi è chi possa ritenere possibile resuscitare lo Stato novecentesco con le sue pretese regolatorie, la forza economica per garantire la previdenza alla vecchia maniera e, una volta tramontato il bipolarismo mondiale, che in politica estera lo Stato possa riacquistare il significato che ha avuto per tutto il XIX secolo. Piuttosto, vanno rintracciati i suoi nuovi compiti: in una funzione di regolazione del mercato in grado di stabilire in ogni sua fase la centralità della persona; come strumento per affrontare la sfida demografica, che sarà uno dei capitoli più importanti della politica del nuovo secolo; come ente in grado di fissare un principio d’autorità che in alcuni ambiti valga per tutti e riesca a evitare che il decentramento istituzionale possa trasformarsi in particolarismo e quindi in anarchia; come ambito nel quale possa valere la centralità della sovranità popolare, argine a quelle derive neo-giacobine che in nome di un presunto primato morale tendono di fatto a instaurare una tecnocrazia.

Vi aspetta, insomma, un compito enorme: ripensare una categoria centrale del vostro patrimonio politico-culturale adeguandola alle sfide del futuro. E opponendovi a chi troppo sbrigativamente vi aveva proposto di liquidarla, sarete in grado di contribuire a difendere ciò che, con la stessa superficialità, si era ritenuto acquisito per sempre. Mi riferisco alla democrazia, che dopo la sconfitta del comunismo pareva potesse incarnare la fine della storia. E in effetti, se si considera la sua diffusione nel mondo, bisogna convenire che mai una parte così ampia del pianeta è stata sottratta alle tirannie e agli autoritarismi. Ciò non significa, però, che la democrazia non abbia i suoi nemici, interni ed esterni. Il progresso tecnico-scientifico sta infatti condizionando non soltanto le pratiche individuali ma anche la più profonda logica politica. Nel momento in cui tale progresso viene associato acriticamente alla nozione di benessere, sempre e comunque, automaticamente viene messa a repentaglio la possibilità che siano le maggioranze democraticamente designate a regolare aspetti della vita pubblica sempre più rilevanti.

Così come rischia di affermarsi una sorta di neo-positivismo in virtù del quale si finisce col ritenere che il progresso possa stemperare e riportare nell’alveo della tolleranza fenomeni che palesemente, attraverso la violenza, tendono a soppiantare le democrazie contando sul loro decadimento e sulla loro corruzione interna. Mi riferisco ai tanti radicalismi religiosi o pseudo-religiosi. Voi, tradizionalmente, non siete mai stati degli idolatri della democrazia e più di altri siete stati vigili nei confronti di fenomeni degenerativi che muovono da una nozione di libertà senza responsabilità. Per questo oggi avete le carte in regola per candidarvi a divenire i suoi più efficaci difensori, non privi di quel senso critico e autocritico che può possedere soltanto chi è conscio di tutti i limiti, pratici e teorici, del fatto democratico, e ciò nonostante lo sposa consapevole che non è stato fin qui inventato sistema migliore per la diffusione della libertà. E qui si pone la terza sfida teorica alla quale vi richiamo.

Perché a lungo – fino agli anni Ottanta del secolo scorso – si è ritenuto che la conquista di più ampi spazi di libertà potesse consistere nel liberarsi dai lacci e lacciuoli che le religioni pongono all’individuo. E si è anche ritenuto che un inarrestabile processo di secolarizzazione fosse destinato ad annullare, progressivamente, il peso della religione nello spazio pubblico. Quanto è accaduto da quel momento in poi è stata una progressiva e costante smentita di queste convinzioni. Si è dovuto prendere atto, in primo luogo, che la sfera del sacro non sarebbe stata annullata da un concetto di razionalità che si rivolge solo alla mente senza considerare la sfera emotiva della persona. In tal senso, il pontificato di Giovanni Paolo II va considerato a tutti gli effetti un antidoto alle false credenze diffusesi nei decenni precedenti. Quindi, si è scoperto che le religioni non sono tutte uguali, né sono riducibili a unità attraverso pratiche – come il dialogo interreligioso – che valgono invece solo se si affermano partendo dalla irriducibilità dei dogmi propri delle specifiche religioni, in particolare se basate sulla rivelazione. Infine, si è compreso che rispetto alla libertà personale e alla democrazia non tutte le religioni possono considerarsi equivalenti; che relativizzarne le differenze significa disarmare la democrazia stessa; che una nozione di libertà responsabile attenta ai precetti e in qualche caso persino ai divieti può essere assai meno rischiosa del mito della libertà assoluta in ogni fase della propria esistenza: un mito che incarna il rischio di un nuovo costruttivismo che dall’ambito sociale si sposta in quello antropologico ma che, come il precedente, finisce per negare l’imperfezione, l’incertezza, la meraviglia del futuro.

Di fronte alla Caporetto di una laicità malintesa, tocca dunque a Voi che sapete apprezzare la tradizione, che comprendete come la libertà debba saper trovare un limite nella responsabilità della quale ognuno si fa interprete, essere autenticamente laici. Difendere il ruolo delle religioni nello spazio pubblico. Ascoltare la Chiesa e rispettarne le opinioni, sempre. Saper dissentire da essa laddove non vi è accordo senza essere offensivi o ricattatori. Insomma: comportarsi in modo opposto da quanti vorrebbero negare alla Chiesa il diritto di esprimersi su quei fatti sociali che sempre più intensamente s’intersecano con il suo magistero, ma sono poi sempre pronti a esaltare acriticamente il pensiero del don Sciortino di turno, se questo serve a colpire il nemico politico. È in nome di una grande ambizione, quella di contribuire a fondare la cultura politica del nuovo secolo, che dovete, dunque, ricercare l’integrazione tra i Vostri principi tradizionali e quelli di cui sono portatori i giovani di Forza Italia. Solo in tal modo potrete andare oltre i confini delle vostre pre-esistenti organizzazioni. Dovrete farlo con l’umiltà che può derivarvi dal tenere sempre presente l’insegnamento di Benedetto Croce, per il quale il primo dovere dei giovani è quello di crescere. Ma anche con l’ambizione e la consapevolezza di essere stati Voi – che a differenza di noi più anziani non avete conosciuto la lotta politica della prima parte della Repubblica – i primi incunaboli del PdL. E con la consapevolezza che il PdL è nato soprattutto per Voi: se riusciremo a costruirlo, sarà il lascito che la nostra generazione consegnerà nelle Vostre mani. Aiutateci in questo sforzo. Abbiamo bisogno delle Vostre energie; di ciò che la Vostra età ci può insegnare; della Vostra fierezza nel sentirvi di destra, senza complessi d’inferiorità e cedimenti al politicamente corretto. Perché di fronte a Voi vi è un grande lavoro d’adeguamento e di messe a punto, che viaggia però su binari tracciati e ben chiari. Dall’altra parte, si brancola nel buio. 

Gaetano Quagliariello