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Accanto all’interpretazione straussiana della nascita del liberalismo, che in sostanza lo vede come un’estensione del “machiavellismo” alla sfera economica (estensione che, a sua volta, genera una profonda rottura con l’oikonomia classica e cristiana(1) e come una reazione alla dottrina tomistica della Natural Law, altri pensatori, soprattutto negli ultimi anni, hanno sostenuto invece che il liberalismo sia sin dalle sue origini cristiano (o, per lo meno, compatibile col cristianesimo): una sorta di continuazione del tomismo(2). Tant’è che ne avrebbe fatto proprî valori ed etica. I Natural Rights, in questo caso, risulterebbero così fondati sui princìpi etici della Natural Law. Di fronte a quest’ultima tesi, più che di un “ritorno” a Strauss, si avverte l’esigenza di rileggerlo per capire se può essere d’aiuto per capire la relazione tra cristianesimo e liberalismo. E questo senza neanche tentare di nascondere che la sua risposta lascia aperte questioni e pone domande di non trascurabile importanza.

Anzitutto quella relativa al momento in cui avviene quella “scoperta della storia” e della fede in essa che si sovrappone, fino a sostituirsi con la Invisible Hand, al progetto lockeano in cui la realizzazione del “miglior ordine politico” non dipende dalla storia ma dal grado di appagamento degli interessi individuali. Come mai uno degli artefici di quella svolta, Burke, aveva così poca simpatia per i Natural Rights lockeani? La risposta di Strauss, e dei suoi allievi, è che tutto ciò avviene più o meno nello stesso periodo storico, e che la tradizione liberale continua dove le idee di Locke lasciano un segno, vale a dire negli Stati Uniti. Il che porta a chiedersi se il declino dell’Europa abbia a che fare con un processo di secolarizzazione lì decisamente più marcato ed identificabile con successo di filosofie politiche non liberali come quelle di Rousseau e di Hegel. Ma anche, e forse soprattutto, con la persistenza di una tradizione filosofica e politica cattolica che avversò il nascente liberalismo, fornì spunti all’anti-clericalismo, e che infine ne influenzerà una parte. Quella parte che adotta un linguaggio in cui compaiono concetti (estranei a quello che si potrebbe definire “liberalismo ateo”) come “bene comune”, “diritti umani” “giustizia sociale”, “solidarietà”, e che, soprattutto, fa riferimento a princìpi etici antecedenti ai Natural Rights, trasformati in strumenti per “regolare” l’evoluzione della società e il mercato. Inutile ricordare come, sebbene in forme ingenuamente connesse ad una contestata continuità tra Natural Law e Natural Rights, tale tesi sia oggi molto diffusa, ed accreditata perché consente di esercitare un appello al mondo moderno secolarizzato affinché ritorni ai princìpi veri e fondanti della cosiddetta tradizione occidentale “giudaico-cristiana”. Accettare l’idea del liberalismo come secolarizzazione della teologia politica cristiana significherebbe allora, e in definitiva, lasciare aperta la strada al pentimento. Ma il fatto è che non si capisce bene di che cosa ci si dovrebbe pentire, e per tornare dove.

Per di più, da un punto di vista storiografico, tale interpretazione delle origini del liberalismo dal tomismo cattolico segna una frattura con quell’interpretazione che lo considerava invece nato in ambito protestante e che Strauss, quando tratta della tesi weberiana sulla nascita del capitalismo, in qualche modo sembra condividere. Entrambe le interpretazioni, comunque, sembrano resentare il limite di scambiare l’intero della cosiddetta modernità con quella sua parte che assembla (e non si sa neanche con quanta coerenza) secolarizzazione, Positivism e Historicism, e finiscono per negare la rilevanza (se non addirittura l’esistenza) di altre componenti. Il fatto è però che quell’“altro” qualcosa l’ha pure detta cimentandosi nel dare risposte ai quesiti posti dalla filosofia classica come quello dei limiti della conoscenza umana (e perciò della possibilità e delle conseguenze dei suoi tentativi di conoscere e di realizzare il “bene politico” nella forma del “miglior regime politico”), delle caratteristiche permanenti della natura umana, del rapporto tra filosofia e politica.

Da questo punto di vista, premesso che la battaglia contro Historicism e Positivism non è un’esclusiva di Strauss, si può veramente dire che tutta la “modernità” sia un errore?; o non sarebbe più equilibrato dire che una sua parte (sia pure e beninteso non maggioritaria) ha dato un contributo alla conoscenza delle cose politiche che non può essere liquidata così frettolosamente? Se non altro perché, quando “fu sbattuta faccia a faccia con la tirannide”, quella parte minoritaria seppe riconoscerla e, come Strauss, ne individuò le origini e la forza nello Historicism e nel Positivism. In altre parole, se quel mancato riconoscimento della tirannide è il segnale del fallimento del progetto moderno, chi l’avvertì può ugualmente esserne ritenuto responsabile?

Sta di fatto che la critica dei moderni alla religione, ed il loro staccarsene alla ricerca di un fondamento filosofico della politica, potrebbero essere visti anche come l’esito della sperimentazione storica che le controversie religiose, e non le caratteristiche perenni della natura umana, siano fonte di conflitti e di insicurezza. Di qui la concezione del miglior ordine politico come un regime che sia anzitutto in grado di assicurare la pace. Un intento che tuttavia – concordando con Strauss – non ha un esito soddisfacente, neanche se si “riduce” la religione alla sfera privata o se la si trasforma in “religione di stato” facendo coincidere, artificiosamente e forzatamente, filosofia e rivelazione. E sarebbe tale mancato riconoscimento delle caratteristiche permanenti della natura umana messe in luce dalla filosofia politica classica, e dell’ineliminabilità del conflitto tra fede e ragione, a indurre i moderni a tentare di fare l’“uomo nuovo”, quello eternamente malleabile dello “stato universale omogeneo” e della congiunzione di Historicism e Positivism che sfocia nel Relativism. Ciò detto, se, alla luce di Strauss, si andasse a vedere come nasce e si sviluppa l’“estraneità” del liberalismo al cristianesimo, ci si imbatterebbe prima in una “paura” della religione di origine epicurea (una vena di ateismo che sopravvive all’epoca cristiana) che, in varie forme, esplode nella modernità, e poi, pochi anni dopo Locke, in un esule olandese: Bernard Mandeville che si pose, sempre a Londra, la domanda forse decisiva(3): “è proprio vero che la virtù individuale produce una società buona”? E che così rispose: Non sono le qualità amichevoli e i buoni sentimenti di affetto connaturati all’uomo, né le virtù reali che egli acquisisce mediante la ragione e la rinuncia, a costituire il fondamento della società. Al contrario, ciò che in questo mondo chiamiamo male, morale e naturale, è il grande principio che ci rende creature socievoli, la solida base, la linfa e il sostegno di tutti i commerci e di tutte le occupazioni, senza eccezione. Ho dimostrato che dobbiamo cercare lì la vera origine delle arti e delle scienze, e che, appena il male cessa, la società va in rovina, se non si dissolve del tutto […] i vizi privati, attraverso l’accorta amministrazione di un abile politico, possono essere volti in beneficî pubblici (4).

Già nella formulazione della Fable of the Bees, del 1705, è possibile rintracciare, in forma scanzonata (del linguaggio shaftesburiano) e cinica, un tentativo di delineare una “filosofia politica” non fondata sulla morale cristiana e neanche su quella stoica (5). Ed è comunque da notare che il ritorno alla virtù non è affatto presentato come un progresso. Per quanto Mandeville dica poco su ciò che induce l’alveare ad abbandonare il proprio modo di vita (l’invidia non può considerarsi una spiegazione del tutto soddisfacente, se non altro perché viene presentata come la causa dell’invocazione rivolta a Dio di diventare “virtuosi”, e quindi la fonte – ancora una volta “indiretta” – della virtù), egli tuttavia mostra come anche le idee “migliori” (è il caso di una morale religiosa) possano avere conseguenze indesiderate e perfino effetti distruttivi sulle società. In definitiva, se la religione e l’etica non necessariamente producono la pace, il cambiamento non è esclusivamente “verso il meglio”. Ma la strada aperta da Mandeville – il quale, secondo Strauss, applica all’ordine politico quel che «l’economia politica moderna aveva insegnato sulla creazione della prosperità pubblica: il bene comune è il prodotto di attività che non sono di per sé ordinate verso il bene comune»(6) (e che comunque è cosa diversa dal progetto machiavelliano di forgiarla col sangue e con la frode da parte di un Principe che insegue la “gloria”) – non venne seguita immediatamente, e la sua “empietà” abbandonata in favore di una visione tutto sommato ottimistica, che faceva dipendere il raggiungimento del miglior regime da un progresso storico. Ciò che inizia quando Rousseau «nell’atto stesso di invocare Platone e Aristotele e Plutarco contro Hobbes, Locke e gli Enciclopedisti […] gettò in mare importanti elementi del pensiero classico che i suoi predecessori moderni avevano pure salvati», anzitutto la «ragione»(7), e che prosegue con una secolarizzazione della provvidenza cristiana (Historicism).

Si tratta di una teoria che Strauss ritrova anche in Burke secondo la quale – «proprio perché i processi che non sono guidati dalla riflessione umana fanno parte di questo ordine superiore [l’ordine provvidenziale], i loro risultati possono riuscire infinitamente superiori per saggezza a quelli della riflessione» – «l’idea della storia, come pure l’economia politica moderna, sarebbe nata, a quel che sembra, grazie ad una modificazione della credenza tradizionale nella provvidenza. Quella modificazione è di solito descritta come una “secolarizzazione”. “Secolarizzare” è “temporalizzare lo spirito e l’eterno”. È il tentativo di inserire l’eterno in un concetto temporale». Si tratterebbe allora di un «mutamento radicale» che, ad avviso di Strauss, appare privo di maschera al momento in cui nasce la moderna filosofia o scienza; non è affatto primariamente un mutamento nel seno della teologia. Quel che pare essere la “secolarizzazione” di concetti teologici dovrà essere inteso, in ultima analisi, come un adattamento della teologia tradizionale al clima intellettuale generato dalla filosofia o scienza, sia naturale, sia politica. Un processo con cui si “secolarizza” la nozione della provvidenza [e che] culmina nell’idea che le vie del Signore siano scrutabili dagli uomini sufficientemente illuminati. La tradizione teologica riconosceva il misterioso carattere della provvidenza specialmente dal fatto che Dio usa o permette il male per i suoi fini buoni. Essa asseriva, pertanto, che l’uomo non può orientare il suo cammino con la provvidenza di Dio, ma solo con la legge di Dio, la quale vieta puramente e semplicemente all’uomo di fare il male. Nella misura in cui l’ordine della provvidenza viene ad essere considerato come intelligibile per l’uomo, e dunque nella misura in cui il male viene ad essere considerato come manifestamente necessario o utile, il divieto di fare il male perde molta della sua evidenza. Sicché varie maniere di agire, che prima erano condannate come cattive, ora potevano essere considerate come buone. Le mete dell’azione umana furono abbassate (8). È comunque importante notare come la svolta della secolarizzazione sia per Strauss successiva alla nascita del liberalismo (che si collegherebbe alla critica della religione), e come essaassuma il carattere di una “rivolta” tanto contro il tomismo, quanto contro la relazione hobbesiana di “ragione” e “miglior regime”.

Sembrerebbe quindi che tra il “machiavellismo diventato adulto” (quell’“economicismo” che in Locke si era configurato come una rivoluzione rispetto “alla tradizione biblica” e a quella “filosofica”) e la secolarizzazione come “modificazione della credenza tradizionale nella provvidenza” cristiana, vi sia quella sostituzione della ragione con la storia che Strauss vede iniziare con Rousseau, che proseguirebbe con Kant, con Hegel e con Marx, e che farà prendere alla filosofia politica un’altra e diversa direzione (9). Il liberalismo, quindi, anche se nasce come una critica alla “teologia politica” e come una ripresa, pur se su diverse basi, del concetto classico di filosofia politica fondato sulla scoperta della “natura”, continua nei Padri Fondatori (10) e non avrebbe molto in comune con quella modificazione della credenza tradizionale nella provvidenza che avviene in Europa, e che fa dipendere il “miglior regime” da un processo storico che, come si è visto a proposito di Hegel, secolarizza il cristianesimo. In tal modo, comunque – a meno di non considerare che anche il passaggio dallo “stato di natura” – che per Locke, secondo Strauss, «non è semplicemente una ipotesi» come per Hobbes(11) – alla “società civile” può essere inteso come un processo storico stimolato da un interesse individuale che avrebbe tuttavia caratteristiche diverse da quelle dell’implicita razionalità dello svolgimento storico degli “storicisti” (12) – se si tiene conto del fatto che Strauss non definisce le dottrine di Hobbes e di Locke come una forma di secolarizzazione (13), ma come un tentativo (erroneo) di trovare una “caratteristica permanente della natura umana” più solida di quella che era stata individuata dalla filosofia politica classica e dal cristianesimo, con la “seconda ondata della modernità” si sarebbe passati ad un’ulteriore forma di filosofia politica in cui l’affermazione del miglior regime viene fatta dipendere dal compimento del processo storico. Non più, quindi, un sistema filosofico che comprende anche la storia, ma un sistema storico che comprende la filosofia, la morale e la politica. E gli artefici di questa svolta sono tutti “continentali” e, in qualche modo e misura, legati all’“ideologia della secolarizzazione”. La continuità di quello che oggi chiamiamo “liberalismo lockeano”, oltre che nei Padri Fondatori, può, semmai, essere vista nel radicale attacco di Mandeville sia alla morale cristiana (la virtù individuale, infatti, non dà automaticamente vita al “buon regime politico” (14), sia alla concezione ottimistica della Invisible Hand (15) (lasciati a sé stessi – Laissez Faire – gli “interessi”, tanto quelli “onesti”, quanto quelli che non lo sono, non conducono “naturalmente” verso il meglio: un mondo di abbondanza, libertà, pace ed armonia sociale). Portando alle estreme conseguenze il discorso di Strauss (ma anche concordando con esso), viene quindi da osservare che quella particolare forma di “filosofia della storia” la quale sorregge la dottrina della Invisible Hand che caratterizza buona parte del liberalismo ottocentesco, sia, in quanto anch’essa espressione di una “modificazione della credenza tradizionale nella provvidenza”, una varietà dello Historicism che Strauss critica (16).

Una variante che poco si distinguerebbe da quello di derivazione hegeliana dato che anch’essa, sia pure fondandosi sulla libertà individuale, pone come punto d’arrivo una società “armonica e ben ordinata” che affrancherebbe l’uomo dal bisogno poiché basata non sull’identificazione del “vero” problema dell’uomo: la scarsità (da cui deriva che le istituzioni sono un “rimedio” all’incertezza), ma sulla scoperta e sulla conoscenza del senso, del fine della storia, e dunque delle “leggi” che ne governerebbero lo sviluppo. Si tratterebbe, ovviamente, di un finalismo diverso da quello della filosofia politica classica – a cui si riferisce Strauss –, ma pur sempre, tanto nella versione liberale del Laissez Faire, quanto nella versione marxista del materialismo storico, di una visione ottimistica della storia. Una dimensione che si ritiene resa possibile e realizzabile dallo sviluppo storico della conoscenza umana e dalla conseguente capacità di avanzare criteri di distinzione tra il bene ed il male fondati non sulla conoscenza delle “caratteristiche permanenti della natura umana” comunque intese, ma su quella delle leggi che governano lo svolgimento della storia in vista del suo compimento. E tutto questo lo si può tranquillamente ammettere. Solo che – e lo si è visto – Strauss (e non è il solo) non nota i prodromi di questa “coscienza storica” in Locke, bensì in Rousseau. In Locke, infatti, la realizzazione della “società buona” è ancora affidata agli sforzi (egoistici, o se si vuole “perversi”) degli individui e, «non allo svilupparsi del processo storico».

Più tardi, quando il liberalismo si libererà del soffocante abbraccio dell’utilitarismo dell’homo oeconomicus, dell’ottimismo del laissez faire, e di quei Positivism e Historicism che avevano teorizzato l’onnipotenza della conoscenza umana, esso assumerà una forma diversa, non più assoggettabile alle critiche del passato e, scisso il suo legame con la teoria democratica, non si porrà il problema della religione. Decretando, senza saperlo o dirlo, l’“irrilevanza” del “problema teologico-politico”, e elaborando quella soluzione del “problema politico tramite mezzi economici che muove da un assunto “quasi” socratico come quello della ineliminabile limitatezza della conoscenza umana. Ciò che lo induce anche, come del resto nota Strauss, a concentrare la propria attenzione sui momenti di rottura, dell’emergere della novità. Come è noto, nel liberalismo (17), dopo Adam Smith (basti pensare a Frédérich Bastiat 18 e all’influenza che ha avuto per tutto l’Ottocento), quel convincimento (o fede?) diverrà predominante anche se non soppianterà interamente la tesi di scettici e di inguaribili realisti e pessimisti secondo i quali, per bene che vada, il miglior regime sarebbe soltanto il possibile esito di un’accorta manipolazione delle passioni umane compiuta da politici saggi e virtuosi in senso liberale, vale a dire che si sarebbe realizzato diminuendo il potere politico ed incrementando la “libertà sotto la legge”. Un processo – forse parimenti ottimistico – che non si fonda tanto sull’educazione, quanto sugli “effetti benefici della concorrenza”, e sulla credenza che soltanto la dovizia di beni, e non la rivelazione o la virtù, potrebbe consentire il superamento dello stato di natura hobbesiano(19).

Il “saggio e prudente Locke” (le cui idee in tema di religione rimangono comunque controverse, 20) certamente non sarebbe stato spudorato quanto Mandeville. Ma è chiaro che quando si inizia col criticare la dottrina tomistica della legge naturale (21), anche se in saggi che resteranno per secoli inediti, non ci si può certo meravigliare se poi qualcuno, preso atto della difficoltà di spiegare la “grande società” coi parametri tomisti, si chieda se il “fallimento politico del cristianesimo” (tema anche allora di gran moda) non debba indurre a chiedersi se non sia possibile ed auspicabile un ordine politico in cui la religione e la morale non abbiano più un ruolo fondante (e in cui la teologia è sostanzialmente ridotta a metafisica o a mito). Ciò che, un giorno o l’altro, avrebbe portato a mettere in discussione tanto la concezione finalistica dell’uomo, quanto i presupposti teologico-metafisici della cosiddetta morale giudaico-cristiana. Per intanto, con l’invenzione della “Invisible Hand”, la tesi secondo la quale il liberalismo fosse sostanzialmente una teoria politica e dell’azione umana intrisa di scetticismo – e consapevole che la limitatezza della conoscenza umana rende impossibile prevedere esattamente gli esiti delle azioni umane (anche di quelle ispirate dalle migliori intenzioni) – fu “corretta” e resa in qualche modo accettabile da una serie di pensatori i quali, pur amando la libertà individuale e il mercato, credevano che non potessero poggiare soltanto sulle passioni, sull’interesse o sull’utilità individuale. Per quanto guidate dalla ragione.

Occorreva rinserire l’etica; solo che quando ciò avviene i problemi finiscono per complicarsi. Di qui il tentativo di comporre i punti di disaccordo col cristianesimo che porterà al recupero nell’alveo del Classical Liberalism di quei valori etici cristiani di cui Mandeville e i libertini avevano cercato di fare a meno. Dunque, una sorta di addolcimento del suo carattere iniziale anche perché la “grande società” mandevilliana è irrealizzabile. Ma di qui anche la nascita di quel cattolicesimo liberale che ambisce a fondere individuo, diritto naturale, libertà, mercato e provvidenza, e che si esprime in pensatori come Smith, Bastiat, Alexis de Tocqueville, Antonio Rosmini, Alessandro Manzoni, Lord Acton, Wilhelm Röpke, Luigi Sturzo, Luigi Einaudi (22). A caratterizzarlo è la (per alcuni “famigerata”) teoria della “mano invisibile” (vale a dire la teoria che spiega come mai si formino situazioni ottimali di ordine e di armonia; o, se si vuole, e con una punta di malizia, un tentativo di spiegare un mistero con un altro), intesa talora come una “secolarizzazione” della provvidenza, e come un tentativo di rendere la dinamica del mercato compatibile con l’etica del finalismo cristiano. Ciò che per alcuni induce a chiedersi se un ordinamento teleocratico, per usare la terminologia di Michael Oakeshott (23), possa definirsi una “società liberale”. E per altri a domandarsi, talora con una punta di angoscia (mitigata dalla consapevolezza del fatto che tutti i regimi politici registrano “fallimenti” anche rispetto ai propri presupposti indipendentemente dalla loro bontà, e che tali fallimenti – soprattutto in termini di effettivo “godimento di diritti” – hanno la propensione a registrarsi nei regimi in cui è più marcato l’interesse per la “salute e salvezza delle anime e per il benessere dei corpi” (24), se una filosofia politica possa veramente fare a meno di affrontare il “problema teologicopolitico”, e se un regime politico possa fare a meno della religione o ridurla alla “sfera privata”.

Tuttavia, nonostante tale esperito fallimento (25), vi è forse da riflettere sull’intento di quanti, in un’età per di più caratterizzata da rapporti conflittuali tra religioni (e non semplicemente tra confessioni) pensano sia se non necessario per lo meno opportuno reintrodurre, in forme che tuttavia appaiono ben lungi dall’affrontare il “problema teologico-politico”, la religione nella sfera pubblica per rivitalizzare quel liberalismo che, come scrive Strauss, si regge o cade sulla distinzione tra stato e società o sul riconoscimento di una sfera privata, protetta dalla legge, ma ad essa impenetrabile, con l’intesa che, soprattutto, la religione, vista come religione individuale, appartiene alla sfera privata (26), dunque sulla loro “distinzione”. Una filosofia politica che, piaccia o meno, era sorta, e che ha un senso, soltanto come l’ambizioso (o, se si vuole, velleitario) tentativo di “restituire alla politica quella latitudine ristretta dal tomismo” e di risolvere il “problema politico mediante mezzi economici”. Che poi sfoci e fallisca nella “disperazione” è, come si avrà modo di vedere, altro discorso. Ma intendere il liberalismo diversamente è esercizio di un riduzionismo palesemente inconcludente e confusionario. Che Strauss aiuta, se non altro, ad evitare.

 

Note

1. Sull’interpretazione di Strauss delle origini dell’economia di mercato si vedrà più avanti.

2. Come si vedrà nel prosieguo, col termine “liberalismo” qui si intende il Classical Liberalism (cfr. CUBEDDU 1997), e, in generale, chi scrive ritiene che trattarne senza menzionare F.A. von Hayek (come fa PERA, 2008), e assumendone J. Rawls come esponente esemplare, sia pressappoco come parlare del cristianesimo senza citare l’Aquinate e come sostenere che le tesi di Lutero rappresentino la base della teologia cattolica. Ma si vedano anche JAFFA (2000) e il dibattito richiamato nella n. 111 del I capitolo.

3. La questione delle conseguenze involontarie delle azioni umane volontarie che caratterizzerà gran parte della filosofia delle scienze sociali teoriche del liberalismo novecentesco, nasce proprio di qui. Su Mandeville, anche se non contengono riferimenti a Strauss, si vedano GOLDSMITH (1985), HUNDERT (1994) e FRANCESCONI (2004). Un riferimento a Strauss è in NIELI (1989), pag. 604, saggio in cui si sottolinea l’incompatibilità tra le tesi di Mandeville sulle caratteristiche delle “società commerciali dinamiche” e quelle del cristianesimo da sempre avverso a quei processi di “acquisitiveness” che sono centrali anche in Locke, e che giustifica la straussiana continuità tra Machiavelli e Mandeville.

4. MANDEVILLE (1723), pagg. 186 e 189.

5. Molto più esplicitamente di qualsiasi altro autore fino al suo tempo, Mandeville mette in discussione e rifiuta lo schema classico secondo il quale il miglior regime sarebbe stato il frutto della virtù individuale: «ciò che ho inteso dimostrare è che bontà, integrità e disposizione pacifica non sono per i reggitori e governanti di nazioni le doti adatte per ingrandire e renderle più popolose, come non lo sono i successi ininterrotti di cui godrebbe ogni persona privata, se potesse: essi, come ho dimostrato, sarebbero dannosi e distruttivi per una grande società che riponga la propria felicità nella grandezza mondana […] Al contrario, le necessità, i vizi e le imperfezioni dell’uomo, insieme all’inclemenza dell’aria e degli altri elementi, contengono il germe di ogni arte, industria e lavoro […] E così ci industriamo a soddisfare l’infinita varietà dei nostri bisogni, che si moltiplicheranno sempre di più, in proporzione alla crescita della nostra conoscenza e all’aumento dei nostri desideri». Per Mandeville «accade in morale quel che accade in Natura: nell’uomo non c’è niente di così perfettamente buono che non possa recar danno a qualcuno in società, come non c’è niente di così interamente cattivo che non possa risultare benefico a qualche elemento del creato. Perciò le cose sono buone o cattive soltanto in relazione a qualcos’altro, e a seconda della prospettiva e del contesto in cui sono poste» (MANDEVILLE 1723, pagg. 365-67; trad. it., pagg. 186-87); e questo lo induce a “vantarsi” «di aver dimostrato che non sono le qualità amichevoli e i buoni sentimenti di affetto connaturati all’uomo, né le virtù reali che egli acquisisce mediante la ragione e la rinuncia, a costituire il fondamento della società. Al contrario, ciò che in questo mondo chiamiamo male, morale e naturale, è il grande principio che ci rende creature socievoli, la solida base, la linfa e il sostegno di tutti i commerci e di tutte le occupazioni, senza eccezione. Ho dimostrato che dobbiamo cercare lì la vera origine delle arti e delle scienze, e che, appena il male cessa, la società va in rovina, se non si dissolve del tutto […]. I vizi privati, attraverso l’accorta amministrazione di un abile politico, possono essere volti in beneficî pubblici» (MANDEVILLE 1723, pag. 369; trad. it., pag. 189). Non meno rilevante, da questo punto di vista, la critica alla religione che segue alla constatazione che la domanda “quale sia la religione migliore?” «ha causato più male di tutte le altre messe insieme» (MANDEVILLE 1723), pagg. 330-31; trad. it., pag. 154).

6. STRAUSS (1953), pag. 315; trad. it., pagg. 303-04.

7. STRAUSS (1953), pag. 252; trad. it., pag. 247.

8. STRAUSS (1953), pag. 317; trad. it., pagg. 305-06. Si noti l’espressione «could appear to have emerged».

9. Sul presunto recupero da parte della “filosofia idealistica tedesca” della filosofia politica classica e sulla sua contrapposizione alla “prima ondata della modernità”, cfr. STRAUSS (1959), pagg. 53 ss.: «ma, per non dire nulla della sostituzione della virtù con la libertà, la filosofia politica che appartiene alla seconda ondata non è separabile dalla filosofia della storia, mentre nella filosofia politica classica non vi è alcuna filosofia della storia […] Né l’introduzione della filosofia della storia costituì un autentico rimedio per l’abbassamento dei modelli. La realizzazione del giusto ordine viene compiuta dalla cieca passione egoistica: il giusto ordine è un sottoprodotto non intenzionale delle attività umane che non sono in alcun modo dirette verso il giusto ordine. Esso può essere stato nobilmente concepito da Hegel come lo fu da Platone, e se ne può dubitare. Certamente Hegel pensò di stabilirlo alla maniera di Machiavelli e non secondo Platone, in un modo cioè che contraddice lo stesso giusto ordine. Le delusioni del comunismo sono già le delusioni di Hegel ed anche di Kant» (trad. it., pagg. 86-87).

10. Per un’analisi “straussiana” dell’influenza del pensiero politico di Locke si vedano PANGLE (1988), e il dibattito richiamato nella n. 116 del I capitolo.

11. Cfr. STRAUSS (1953), pag. 230; trad. it., pag. 226.

12. Anche in STRAUSS (1949), trattando della nascita della “sensibilità storica” e della “filosofia della storia” alla fine del XVIII secolo (cfr. pagg. 58 e 66 in particolare) non si dice molto su come tale “sensibilità” si sarebbe imposta sul modello di filosofia politica e di miglior regime della “prima ondata della modernità”. A meno di non pensare che, anche in questo caso, come Hobbes e Locke avevano, per lo meno a parole, cercato di addolcire la “ripugnante” dottrina di Machiavelli, l’abbandono non sia da collegare all’esigenza di differenziarsi dallo “scandaloso e secco ateismo” che “screditava Hobbes e la sua «fredda macchina dello stato», cfr. STRAUSS (1954b), pagg. 170 ss.

13. Nella sottile ed affascinante analisi dei giovanili (e pubblicati postumi) saggi lockeani sulla Natural Law, ad esempio, in cui Strauss ricostruisce e mostra come le contraddizioni di Locke non siano casuali, appare con una certa nettezza come Locke non deformi il tomismo in una sfera secolare, ma, pur non potendo fare a meno di riferirvisi per motivi di prudenza, abbia già in mente qualcosa sulla natura della conoscenza umana che fonda su premesse diverse da quelle di Tommaso; cfr. STRAUSS (1958b).

14. I comportamenti “virtuosi”, se imitati e generalizzati, possono indubbiamente produrre un “buon regime politico”; diverso è l’esito qualora l’emergere di novità produca un cambiamento talmente frenetico da non consentire ad un comportamento di esser qualificato come buono in relazione alle conseguenze. La realtà dei nostri giorni è che la dilatazione dei bisogni e delle aspettative, e la difficoltà di sperimentare le conseguenze attese ed inattese delle azioni umane, producono un mondo “non ergodico” (secondo la terminologia di NORTH (2005)) in cui il ruolo di un’“etica laica” (normativistica o consequenzialistica) è limitato, e quello di un’“etica religiosa” controverso.

15. Questo era già il punto di disaccordo tra de Mandeville e Smith, cfr. SMITH (1759), pagg. 426-29.

16. E si tratta di una critica che ha forti punti di contatto con quella degli “Austriaci”. Sullo sviluppo, a partire dall’opera di Mandeville, di una concezione “laica” della storia che non può essere intesa come una secolarizzazione della concezione cristiana e provvidenzialistica della storia si veda FRANCESCONI (2003).

17. Ed è inutile ribadire – basti soltanto pensare al titolo di MCILWAIN (1947) – che quello che dopo il 1812 inizierà ad essere chiamato “liberalismo” veniva prima, e con molte distinzioni, chiamato “costituzionalismo”; vale a dire che un complesso dottrinario più o meno omogeneo non si era ancora formato e che la sua fusione con la sistematizzazione economica smithiana avverrà, per un insieme di motivi, soltanto nella parte centrale del XIX secolo.

18. Bastiat, cfr. CUBEDDU (2003), pagg. 29 ss., rappresenta un caso emblematico e dichiarato della fusione tra i Natural Rights lockeani e la filosofia provvidenzialistica della storia di stampo cristiano.

19. Il concetto hayekiano di catallassi fornisce però una spiegazione gnoseologica dell’ordine; spiega l’“ordine buono” come l’improbabile momento in cui si realizza un’ottimizzazione nella casuale distribuzione della conoscenza nella società. Esso, inoltre, è anche destinato a restare instabile per via della relazione tra conoscenza e innovazione (il mercato come “processo di scoperta”) che non sempre consente di fare previsioni sugli esiti delle novità perché esse vengono “interpretate” da individui che hanno conoscenze limitate, e comunque diverse, le quali, anche quando si sbaglia, e questo è l’aspetto importante della questione, producono conseguenze cui bisogna comunque far fronte.

20. Si vedano i recenti contributi al “Symposium on God, Locke, and Equality” in “The Review of Politics”, LXVII, (2005), n. 3.

21. Cfr. ZUCKERT (2002), pagg. 131ss. ZUCKERT (2007), pag. 181, così scrive: Locke «nel suo a lungo inedito Saggi sulla legge naturale e nel suo chef d’oeuvre, Saggio sull’intelletto umano, elabora una critica vigorosa alla teoria tomista della legge naturale. È possibile pensare il progetto filosofico lockiano nella sua interezza come un attacco alla filosofia tomista». Sullo stesso tema si veda anche ZUCKERT (1997), in particolare pagg. 187 ss.; nonché le pagg. 3 ss. di (2002) in cui ribadisce l’importanza dell’interpretazione straussiana di Locke e quanto si senta ad essa vicino.

22. Su cui ANTISERI (a cura di) (1995). Più difficile, nonostante tutto, trovare una collocazione a Kant nell’alveo del liberalismo. Che la distinzione kantiana tra morale e diritto lo abbia influenzato è un luogo comune, ma se ci si chiede esattamente in che cosa la risposta non è né precisa, né univoca. Verrebbe anzi da dire che la sua propensione a trattare di libertà individuale senza chiedersi quali ne siano le condizioni materiali, ed il suo stesso disinteresse verso la sfera dell’economia, configurino un’estraneità al tema centrale del liberalismo classico; un disinteresse che si ritrova anche in B. Croce e nei Liberals.

23. OAKESHOTT (1975).

24. Tant’è che uno di quei liberali non particolarmente sensibili alla religione si chiedeva come mai la trasformazione dello stato da «congegno utilitario» in «istituzione morale» abbia la paradossale conclusione che «lo stato nazista o qualsiasi altro stato collettivista sono “morali”, mentre lo stato liberale non lo è» (cfr. HAYEK (1944), pag. 77; trad. it., pag. 68). Ma questo soltanto per dire di quale e quanta attenzione Hayek avesse per il problema della fondazione etico-religiosa dello stato liberale.

25. Che al di fuori della prospettiva teologico-politica o straussiana può essere visto anche come la conseguenza del fatto che non esiste categoria di azione individuale che non possa avere conseguenze sociali.

26. STRAUSS (1965), pag. 230; trad. it., pag. 285.

27. Nella versione “austriaca” del liberalismo, questo non capita perché i diritti non sono naturali ma la sedimentazione di “pretese” che possono benissimo comprendere anche valori religiosi ed etici, come, del resto, comunemente avviene nel processo soggettivo di “attribuzione di valore” e che non esclude la possibilità di giungere ad una “teoria dei valori soggettivi”.

(Tratto da Raimondo Cubeddu, Tra le righe. Leo Strauss su Cristianesimo e Liberalismo, Marco editore 2010)

Raimondo Cubeddu è membro del Board di fMC