15 Luglio 2008  

La sinistra rifiuta la riforma del lavoro senza entrare nel merito delle misure

Redazione

 

Dopo il varo del Dpef il Governo si appresta a conseguire un altro importante obiettivo: il voto della Camera sulla manovra anticipata. Il decreto n.122, seppure attraverso un percorso travagliato intessuto di una valanga di emendamenti (compresi troppi  aggiuntivi da parte del Governo),  ha introdotto delle importanti innovazioni anche in materia di lavoro, in un’ottica di liberalizzazione e di deregolazione, quali, tra l’altro, l’abolizione del divieto di cumulo tra pensioni e redditi da lavoro (per questa misura sarebbe stata preferibile, tuttavia, una decorrenza dal 1° luglio 2009), le modifiche alla disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato e dei contratti occasionali di tipo accessorio e dell’apprendistato, alla normativa sull’orario di lavoro.

Altrettanto importanti risultano essere le disposizioni recanti misure di semplificazione in materia di adempimenti obbligatori di natura formale nella gestione dei rapporti di lavoro, quale l’istituzione del libro unico del lavoro nonché l’abrogazione di prescrizioni e adempimenti burocratici gravanti sull’insieme dei datori e dei lavoratori (come l’odiosa procedura in tema di dimissioni volontarie).  Tali misure – proprio perché non riducono la tutela dei diritti dei lavoratori, ma semplificano i rapporti di lavoro e la gestione delle imprese – potranno promuovere e diffondere auspicabili processi di collaborazione e di partecipazione.

L’opposizione ha duramente contestato questi interventi nella loro ispirazione prima ancora che nel merito. E’ emersa così la vera differenza tra il centro-destra e il centro-sinistra in materia di lavoro e di welfare. Il Pd può anche candidare ed eleggere esponenti di spicco della nomenclatura confindustriale, ma resta prigioniera di una visione che è nemica dell’impresa, al punto da prefigurare un assetto del diritto del lavoro che vorrebbe costringere tutte le aziende a sottoporsi a vincoli e a procedure (inutilmente) pensate per colpire i casi patologici. In sostanza, è vero che ci sono esempi, purtroppo frequenti, di datori di lavoro che violano i diritti fondamentali dei loro dipendenti. 

Per colpire tali casi la sinistra tende ad imporre anche agli imprenditori onesti (che sono la grande maggioranza) e ai loro dipendenti comportamenti inquisitori e vere e proprie vessazioni burocratiche e assurdi adempimenti penalizzanti. Per il centro-destra, invece, è sbagliato e distorcente un diritto del lavoro fondato su di una casistica estrema, in un contesto in cui, invece, le leggi esistono e vengono rispettate nella grande maggioranza  dei casi, i sindacati hanno ampia agibilità politica, i tribunali applicano le leggi sia pure con colpevoli ritardi. La sinistra (ecco perché perde le elezioni) ha in mente un mondo del lavoro che esiste solo nella sua cultura arretrata, ma non nella realtà, ed è portata a generalizzare fenomeni gravi, ma limitati o comunque minoritari, per combattere i quali è disposta a caricare il mondo della impresa e del lavoro di inutili “grida”, che vengono man mano appesantite più se ne riscontra l’inefficacia. Come se bastasse moltiplicare gli adempimenti ed amplificare le sanzioni per risolvere i problemi. 

Così, la cultura del PdL guarda con favore alle norme di deregolazione e di semplificazione degli adempimenti formali perché viene naturale pensare che non si vuole “fare un regalo ai padroni” (i quali stanno col centro-sinistra) ma che si cerchi soltanto di rendere meno gravosa la vita delle imprese e dei lavoratori, dal momento che si è portati a credere – fino a prova contraria – che in generale i rapporti tra datori e lavoratori siano sostanzialmente corretti, collaborativi (“complici” come ama dire il ministro Sacconi) e non solo fisiologicamente conflittuali. 

Particolare rilievo spetta poi alle norme riguardanti il riordino del pubblico impiego. Anche in questo caso, il decreto legge è in sintonia non solo col piano industriale del Governo, ma addirittura – se ne ricordi la sinistra – col Libro verde sulla spesa pubblica di Tommaso Padoa Schioppa. Per quanto riguarda il settore del pubblico impiego, il Libro rilevava (al paragrafo 2.4) come le retribuzioni dei dipendenti pubblici fossero aumentate negli ultimi anni a tassi ben superiori rispetto all’inflazione e alla produttività totale dell’economia. Ciò era l’effetto di molte e complesse ragioni: un sovrapporsi di ruoli tra contrattazione di I e di II livello, che snaturava in parte l’impostazione degli accordi del luglio 1993; il cronico ritardo con cui si concludono le tornate contrattuali nel pubblico impiego; un forte meccanismo di emulazione tra comparti in sede di contrattazione decentrata; il ruolo fortemente politico assegnato al contratto del pubblico impiego; una scarsa attenzione agli andamenti della produttività; lo slittamento salariale determinato dai passaggi orizzontali (all’interno della stessa qualifica) e verticali (tra qualifiche) dovuti in massima parte all’anzianità di servizio; una volontà di recupero rispetto ad una dinamica sistematicamente inferiore a quella dell’industria privata durante gli anni ’90. 

In merito al solo comparto Ministeri si osservava, poi, che vi era ancora poca mobilità (l’80 per cento del personale non ha cambiato neanche una volta ufficio all’interno dello stesso Ministero negli ultimi 5 anni) e che esistevano forti eterogeneità nella distribuzione tra centro e periferia, tra dirigenti e non, nonché tra i diversi Ministeri. Il complesso dei redditi da lavoro delle amministrazioni pubbliche in Italia – aggiungeva il Libro – è pari all’11 per cento del PIL, un dato sostanzialmente in linea con la media dei paesi dell’Unione Europea a 15. Va però detto che i principali paesi europei (Germania, Francia, Spagna) hanno ridotto nel corso degli ultimi 5-6 anni il rapporto tra redditi da lavoro e PIL, mentre in Italia è aumentato (era il 10,4 per cento del PIL nel 2000). 

Quanto poi alle problematiche del turn over, che viene affrontato con rigore dal decreto legge, il Libro verde traeva un bilancio assai poco lusinghiero delle esperienze compiute. Relativamente alle unità di personale a tempo indeterminato impiegato presso le pubbliche Amministrazioni nel periodo 2002-2006, il Libro  indicava che il sistema del blocco con deroghe  avesse manifestato una certa efficacia per gli Enti pubblici non economici, per gli enti di ricerca e per i Ministeri ed agenzie fiscali per i quali si stimava una riduzione nel 2006 del 7 per cento rispetto alle consistenze del 2002. 

Diverso il discorso per i Corpi di Polizia e per le Forze Armate per i quali, nonostante il blocco, si stimava nel medesimo periodo (2002-2006) un incremento delle unità a tempo indeterminato intorno al 5,4 per cento. Nello stesso periodo, la Scuola mostrava un aumento complessivo di personale docente e non docente di circa l’1,3% dovuto esclusivamente al personale “non di ruolo” che ricopre posti di organico (il personale a tempo indeterminato “di ruolo”, infatti, si riduce del 4,90%, 46.010 unità). Ecco spiegato perché Scuola e Forze dell’Ordine sono i settori in cui sono previsti nel decreto dei tagli negli organici. 

Nel complesso, per quanto riguarda il personale a tempo indeterminato per tutto il pubblico impiego nel periodo 2002-2005, le stime riflettono una sostanziale invarianza dell’occupazione (- 0,52 per cento nel periodo). A fronte di una riduzione complessiva annua del personale dovuta prevalentemente a pensionamento intorno al 2,8 per cento (all’incirca 100 mila dipendenti all’anno per l’insieme della PA), il sistema ha generato, al netto delle fuoriuscite naturali un incremento dell’occupazione di almeno il 2,6 per cento all’anno. Si dimostra così – anche se può sembrare paradossale scriverlo – che la maggioranza di centro-destra si fa carico di problemi già iscritti all’ordine del giorno e sta dando spazio a quel poco di riformismo emerso nella trascorsa legislatura e subito inghiottito nel radicalismo arcigno della Unione (tuttora sopravvissuto nonostante i buoni propositi elettorali del Pd).

(L’Occidentale)