La speranza rovesciata dalla fede in Dio
È ben noto il mito greco secondo cui gli dèi, adirati con Prometeo per il furto del fuoco, avrebbero inviato all’umanità come castigo Pandora (“tutti i doni”) che, dotata di grazia, persuasione e bellezza, sposa il fratello di Prometeo, Epimeteo, dando così origine al genere umano e portando con sé agli uomini come dote, chiuse in un orcio, le malattie e la morte, prima inesistenti. Aperto l’orcio, esse si spargono nel mondo, e da allora ci si ammala e si muore (Esiodo, Le opere e i giorni, 96-105). In fondo all’orcio resta solo Elpìs (la “speranza”). Di solito questo dettaglio del mito è interpretato positivamente, quasi che la speranza fosse una specie di correttivo atto a bilanciare il disastro della condizione mortale. Non così tuttavia lo considerava la cultura greca per la quale ciò che resta nell’orcio di Pandora era ancora più negativo della mortalità.
La speranza infatti, essendo entità illusoria, trae in inganno la gente distogliendola da ciò che, per l’uomo antico, perennemente teso al controllo di un’esistenza quanto mai precaria, è l’obiettivo essenziale: la considerazione chiara e distinta, priva di infingimenti, della situazione esistenziale, con tutti i suoi problemi, ai quali è d’uopo far fronte a mano a mano che si presentano, senza affidarsi a ingannevoli speranze che impegnano invano il futuro, pronte a dissolversi quando uno meno se l’aspetta.
Per questo la cultura e soprattutto la religione greca tratteggiano Elpìs negativamente. È entità divina, ma incontrollabile, sfuggente, difficile da connotare: non si sa – perché non si vuole sapere – se sia maschile o femminile, se sia singola o una pluralità, per non renderla eccessivamente presente nella realtà storica. Di sicuro si dice che sia falsa, ingannevole, non affidabile, come Tyche (“Fortuna”), a cui è spesso affiancata. Anche a Roma antica la speranza (Spes) è collocata a livello divino, ma tenuta a bada in quanto ingannevole, proiettata com’è in un futuro che solo Giove può gestire, e pertanto incontrollabile. In effetti anche qui Spes è unita ad altre divinità ugualmente sfuggenti e ingannevoli, quali Fors e Fortuna.
La situazione cambia nettamente nelle religioni monoteiste, nelle quali – essendo la divinità intesa come trascendente, e dunque del tutto indipendente dal creato – la speranza, fondata su Dio, assume valore assoluto, diventando così positiva. Nell’Antico Testamento essa è intesa appunto positivamente in quanto rivolta sempre al bene: l’uomo, finché è in vita, spera (Qoelet, 9, 4) perché la sua speranza è riposta esclusivamente in Dio, sicuro fondamento della vita del giusto, e la felicità dell’uomo si riassume nell’avere una speranza e un futuro. Un aspetto particolare della speranza, in dimensione comunitaria, è l’attesa del futuro Messia, che libererà Israele dai suoi nemici e punirà tutti gli empi, perché al compimento delle speranze di libertà e felicità si collega sempre l’attesa del giudizio.
Nella Chiesa nascente il concetto di speranza si connette con quello dell’Antico Testamento, ma con la fondamentale novità che il suo garante ora è diventato Cristo, di cui si attende il prossimo definitivo ritorno. Paolo, che parla più volte di speranza, ne rileva l’assoluta fiducia che pure non si fonda su dati concreti e attualmente verificabili: “Una speranza che si vede non è più speranza: chi infatti spera ciò che vede? Ma se noi speriamo ciò che non vediamo, stiamo in attesa mediante la costanza” (Romani, 8, 24-25): la fiduciosa, costante attesa nutre la speranza, in quanto è fondata sull’opera salvifica realizzata dalla morte e dalla risurrezione di Cristo, che ci ha liberato dalla legge e dalla morte e per questo è definito la nostra speranza (I Timoteo, 1, 1). In questo senso, come valore, la speranza, insieme con la fede e la carità, costituisce l’essenza stessa del cristiano.
L’ambiguità dell’attesa escatologica – in quanto già realizzata nell’avvento di Cristo eppure proiettata verso l’imminente fine del mondo – si riflette anche nel modo in cui viene concepita la speranza, poiché i due aspetti appaiono inestricabilmente connessi sul fondamento della Risurrezione: “(Dio) ci ha rigenerati, grazie alla risurrezione di Gesù Cristo dai morti per una speranza vivente, in vista di un’eredità che non si corrompe, non si macchia e non marcisce” (1 Pietro, 1, 3-4). Questa concezione è stata ripresa dai successivi scrittori cristiani e sviluppata in base a esigenze pastorali e spirituali. Soprattutto Agostino l’ha valorizzata, orientando l’attesa dei beni futuri sulla fiducia in Dio e proiettandola verso la risurrezione dei morti, fondata su quella di Cristo. Per questo i cristiani possono essere definiti da questo grande autore cristiano (Spiegazione del salmo 131, 19) “uomini di speranza”: homines spei futurae.
(da “L’Osservatore romano”)