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La stagione dei paradossi

Nell’ elenco delle attività di Magna Carta e anche nel programma di questa Summer School spiccano, su tutte le moltissime cose fatte e quelle progettate, due temi: la politica estera, in particolare i rapporti Europa-Usa e la difesa di Israele; e l’identità europea, in particolare il contributo dei laici e dei credenti per fissarne una.

Chi ha prestato attenzione all’attività di Magna Carta si sarà anche accorto che questi due temi sono spontaneamente confluiti in uno, al quale abbiamo dedicato molte iniziative e energie: la difesa dell’Occidente. Io non intendo qui concentrarmi su questi temi, che saranno oggetto di dibattito fra i nostri docenti e i nostri allievi. Su di essi, e sulla loro “confluenza”, ho però due tesi che desidero esporre sommariamente.

Prima tesi. La politica estera europea è una politica debole, più di accondiscendenza per i regimi dispotici che di lotta al fondamentalismo islamico. Il recente protagonismo europeo in Libano, favorito da una svolta del Dipartimento di Stato americano, non è una sconferma di questa tesi, ma un’altra prova che l’Europa va per un verso e l’America per un altro. Non mi è chiaro quale tipo di analisi sia nata dentro l’amministrazione americana e quali ragioni l’abbiano indotta a modificare sensibilmente le posizioni mantenute da anni. Lo stesso potrei dire per la politica di Israele. Osservo però due fatti. È innegabile che oggi l’amministrazione americana pratica tanto “multipolarismo” dopo tanto “unilateralismo”, tanta diplomazia dopo tanto ricorso alla forza, e tanto europeismo dopo tanta diffidenza per l’Unione europea. Allo stesso modo, è incontestabile che questa nuova politica ha coinciso, in Italia, con la vittoria elettorale della sinistra e somiglia tanto alle posizioni della nostra sinistra che essa ha potuto vantarsi di averla provocata.

Siamo così alla stagione dei paradossi. Il paradosso di coloro che hanno accusato il presidente Bush e il premier Sharon di avere le mani lorde di sangue e oggi si trovano d’accordo col presidente Bush e con il successore di Sharon nell’inviare soldati in Libano per frenare quei terroristi che essi chiamano e considerano, oggi come ieri, dei “resistenti”. Il paradosso dei pacifisti che sono diventati militaristi, e che oggi marciano dietro quelle stesse bandiere che ieri bruciavano. Il paradosso di un appeasement di fatto con l’Iran che viene trasformato in una politica di distensione e dialogo. Il paradosso di una risposta positiva all’appello dell’Onu a cui oggi si concede in Libano quella “coalizione di volenterosi” che ieri veniva negata in Iraq. Insomma, rosa nel pugno, rami di ulivo fra i denti, e mitra a tracolla. Ripeto: non comprendo le ragioni della recente politica estera dell’America e di Israele. Credo di capirne le necessità contingenti. Certo a me pare che, se l’America, incaricando l’Europa della questione libanese-hetzbollah, avesse pensato di avere in cambio dall’Europa un serio appoggio sulla questione iraniana, il calcolo si sta dimostrando sbagliato.

Qui non si intende fare l’elogio dei muscoli a danno della parola. Qui intendo sostenere che i problemi non risolti oggi possono diventare più gravi domani. E quando l’America chiamerà, come già sta chiamando, gli odierni volenterosi alle loro responsabilità nella lotta al terrorismo, si accorgerà, come già si sta già accorgendo, che essi fanno piuttosto marcia indietro.

Quanto alla seconda tesi, essa è: l’identità europea, a causa della cultura europea e delle politiche degli Stati europei, è oggi evanescente, indeterminata, informe. Anche qui sarò sommario. Ho la convinzione che la Carta dei diritti europei – che è ciò che è avanzato dalle macerie della Costituzione europea – non sia adeguata al bisogno di questa identità. Non è soltanto per via del preambolo. È per via della procedura non democratica con cui la Carta fu adottata. È per via di quella teoria del “patriottismo costituzionale” che le è stata sovrapposta, un costrutto intellettuale a freddo, da laboratorio, che non ha riscontro nella realtà europea.

Ed è per via di alcuni contenuti di quella Carta che violano i princìpi e i valori della nostra tradizione. Il fatto è che l’Europa si è drammaticamente secolarizzata. Non è più laica, è laicista, e il laicismo ha prodotto positivismo giuridico, relativismo culturale, multiculturalismo sociale. Le conseguenze basta guardarle. Alla fine, il laicismo ha generato una colossale crisi di identità. Nel vecchio continente cristiano passa di tutto: la critica alla tradizione, il rifiuto del cristianesimo, l’idea che ogni esperimento scientifico sia una conquista e non comporti alcuna perdita morale, la tesi che ogni desiderio, ogni voglia, ogni bizza, può diventare un diritto purché votato da una maggioranza parlamentare.

Non è da stupirsi che qui si chiamino e si considerino “conquiste civili” l’aborto, l’eutanasia, l’eugenetica, il matrimonio gay, e da ultimo il partito dei pedofili e persino la poligamia. Non è neppure da stupirsi – anche se questo è un altro paradosso – che proprio coloro che si rifiutano persino di parlare di guerra di civiltà inconsapevolmente ce ne procurino una: quella fra la civiltà degli “altri” che vengono qui e continuano a credere nella propria tradizione, cultura, religione, e la civiltà di “noi” che non sappiamo più che cosa sia la civiltà. E perciò non è da stupirsi che del fondamentalismo islamico non si possa parlare, che non sia giudicato corretto usare l’espressione, e che le nostre libertà – come l’ironia, la satira, la documentazione cinematografica – vengano affievolite e censurate quando il fondamentalismo ce le rimprovera e ce le nega. Questi sembrano gli unici casi in cui torniamo cristiani: ci battiamo il petto e quasi chiediamo scusa.

Ecco perché – e questa è la “confluenza” fra i due temi di cui ho detto all’inizio – l’Occidente oggi è a rischio e noi dobbiamo difenderlo. Ma, ho detto, questo non è l’argomento principale del mio intervento. Il mio argomento è un altro e riguarda che cosa intendiamo fare qui.

Il conservatorismo liberale

Diciamo allora che qui non facciamo militanza politica, anche se alcuni di noi sono in politica e questa è una scuola politica. Qui facciamo cultura politica, più precisamente, rispetto al linguaggio che passa il nostro mercato politico odierno, facciamo cultura politica di destra. Anche se, come tutti, neppure Magna Carta saprebbe dire che cosa propriamente significhi oggi “di destra”, essa è nata per questo, anche se non solo per questo. Per affermare che una cultura politica di destra – sempre per cedere al vocabolario corrente – esiste ed è autorevole. Ma, sul punto, dobbiamo intenderci. E l’argomento principale di questa mia introduzione ai lavori vuol essere proprio un contributo ad intenderci. Per dirla con una sola espressione, cultura politica di destra, almeno per noi di Magna Carta, sta per conservatorismo liberale.

Si tratta di una grande dottrina, una grande scuola, una grande tradizione politica. Si basa soprattutto su due pilastri: attenzione e difesa della nostra tradizione europea e occidentale, che è il riferimento da mantenere (da ciò il conservatorismo); e custodia della nostra autonomia individuale, che è la condizione su cui dobbiamo sempre vigilare (da ciò il nostro liberalismo). Il primo pilastro ci porta a stimare la tradizione giudaico-cristiana, che è quella che più ha plasmato la nostra civiltà, non solo in Europa. Il secondo pilastro ci porta a sostenere, nella terminologia di I. Berlin, soprattutto le libertà “da” come distinte dalle libertà “di”, in particolare le libertà dalle invadenze della politica nella sfera economica, civile e privata.

Possiamo dirlo in altra maniera. I conservatori liberali sono tenuti a conservare la tradizione e responsabilizzare la libertà. Conservare la tradizione non significa rifiutare le novità o impedirne l’avvento. Significa preservare una identità e perciò affidarsi ad essa come ad un sistema di orientamento alla luce del quale giudicare le novità e, se del caso, ammodernare la tradizione. Dall’altra parte, responsabilizzare la libertà non significa concedere valore ad ogni scelta degli individui. Al contrario, significa attribuire un onere morale a quelle scelte affinché esse non siano gratuite o bizzarre o motivate solo in termini personali, privati, soggettivi.

È così che tradizione e novità, conservazione e libertà, si stringono e sorreggono assieme. Che il loro equilibrio sia sempre precario significa solo che la storia va avanti. Ma va avanti assorbendo novità a partire da uno stadio che rappresenta l’eredità della tradizione come tramandata e vissuta fino a quel momento.

La situazione in Italia

Come è noto, la dottrina e la pratica del conservatorismo liberale sono nate in Inghilterra, e in lingua inglese e americana hanno espresso il meglio di sé. Sul Continente, solo poche, anche se grandi, eccezioni. Ha parlato un po’ in lingua tedesca con Kant e Humboldt, un po’ in lingua francese con Benjamin Constant e Tocqueville, un po’ in lingua italiana, con la destra storica, con la scuola del cattolicesimo liberale, con Luigi Einaudi e pochi altri.

Oggi, in politica, continua a parlare prevalentemente inglese con Bush che fa séguito a Reagan, con Blair che segue le orme della Thatcher, con Cameron che insidia Blair sul suo stesso terreno, e con il premier australiano Howard che continua la sua tradizione.

Altrove però le cose sono andate, e continuano ad andare, diversamente. È una questione di dottrina, prima che di politica. Quando il liberalismo ha traversato la Manica, anziché il vocabolario di Locke, Smith o Hume, ha usato quello di Rousseau, e così si è trasformato in democrazia, socialismo, costruttivismo. Facile capire perché sia stato assorbito dal marxismo, soprattutto in Italia, dove non pochi sedicenti liberali hanno a lungo civettato col comunismo fino al punto di ritenerlo l’inveramento della liberaldemocrazia.

Ma in genere da noi il conservatorismo liberale non ha avuto fortuna, e quando l’ha avuta – ricordiamo don Sturzo, De Gasperi e il già citato Einaudi – l’ha avuta sotto altra terminologia e con altra veste concettuale. In Italia, il conservatorismo liberale l’ha osteggiato il marxismo e l’ha osteggiato anche gran parte del cattolicesimo politico del dopoguerra. Il marxismo perché non tollera la libertà e disprezza la nostra tradizione cristiana. Il cattolicesimo politico del dopoguerra e soprattutto del dopo Vaticano II perché in gran parte ha pensato che le virtù cristiane della solidarietà e della fratellanza siano l’anteporta dell’egualitarismo e dello statalismo socialisti.

Noi invece difendiamo e intendiamo diffondere il conservatorismo liberale. Perché non è una contraddizione, ma un sistema teorico coerente, con un grande passato e significativi esempi recenti o presenti. E perché non lo riteniamo un’idea astratta, ma un’opportunità politica concreta, invocata da tantissima gente anche quando non ne conosce il nome o non sa che ha un nome o non ha interesse ai nomi. Credo che questa Summer School di Magna Carta sia il luogo adatto per approfondire, sui temi del programma che si è data, la dottrina e la pratica del conservatorismo liberale.

Il dibattito a sinistra

Ma, presentati i lineamenti del conservatorismo liberale e il suo stato in Italia, dobbiamo coniugarli in concreto. Conosciamo da vecchia data l’ambiente in cui ci muoviamo. Molti superciliosi di sinistra ci dicono che la cultura di destra non esiste né potrà esistere. Purtroppo, alcuni timorosi di destra protestano in pubblico, ma in privato sospettano che gli altri abbiano ragione. Gli uni sono superciliosi perché hanno paura e sono in difficoltà. Gli altri sono timorosi perché ritengono di essere in pochi e con pochi argomenti. Sbagliano entrambi.

Stiamo al concreto e limitiamoci al dibattito politico quotidiano. Uno sguardo a quello del periodo estivo che è appena trascorso serve bene allo scopo. La cultura politica di sinistra si è cimentata nella discussione sul partito democratico. Ad oggi, questa è una “cosa” che segue tante altre “cose” prodotte dalla disgregazione intellettuale del marxismo e dal crollo politico del comunismo.

È una “cosa” post-marxista e post-comunista. Ed è anche una “cosa” post-cattolica o, come si dice, cattolica “adulta”. Ma se da “cosa nasce cosa”, da una “cosa” non nasce un’idea. È dal 1989 (per fermarci lì) che la sinistra italiana cerca di saltare le tappe della storia pur di non farci i conti. Ed è da alcun anni, dalla rinascita religiosa in Europa e in America, da Papa Giovanni Paolo II e da Papa Benedetto XVI, che il cattolicesimo politico italiano cerca di sfuggire allo spirito del cristianesimo pur di non mettersi in discussione.

Con questi giochi a nascondino, il partito democratico non può nascere. Agli uni fa da ostacolo il liberalismo, che non predicano ma a cui devono consentire a cominciare dalla riforma dello stato sociale. Agli altri fa da ostacolo la conservazione delle radici cristiane, che non praticano ma sono talvolta costretti a subire, a cominciare dai temi di bioetica. Ad entrambi fanno da ostacolo proprio i temi del conservatorismo liberale. Quanto questi temi siano di impedimento al progetto di un partito democratico si vede bene se, dalle “cose”, si passa alle intenzioni degli individui che dovrebbero realizzarle.

Contro i progetti democratici del sindaco Veltroni che accelera sta l’asprezza radicale del ministro D’Alema che frena. Contro il cristiano rinato Rutelli sta il democristiano conservato Parisi. Quale godibile nemesi è stato per noi di Magna Carta il duetto fra, da un lato, il ministro Rutelli che chiede che il nascituro partito democratico non si pieghi allo scientismo della sinistra e dice: «i valori cattolici entreranno senz’altro e dovranno far parte del pluralismo di idee che animerà il partito democratico»; e, dall’altro lato, il ministro Parisi che gli si oppone e dice: «non mi sentirei di proporre da cattolico i valori cattolici come riferimento principale del partito democratico»! È sembrato, per un giorno, di tornare indietro alle discussioni sul preambolo alla Costituzione europea: menzionare o no le radici cristiane dell’Europa? Solo che non credevamo possibile che si potesse tornare così indietro da assistere allo spettacolo di un cattolico che ha timore di essere un cristiano e che, per paura di danneggiare la laicità, rifiuta, o nasconde nel privato, la propria tradizione cristiana.

Questo scampolo di dibattito ci fa capire una cosa importante: che la sinistra cerca di far nascere un partito democratico, ma la nascita di un partito democratico è impedita precisamente da quei temi del conservatorismo liberale che la sinistra aborre. Se sono accigliati con noi è perché sono imbronciati con sé e corrucciati per gli ostacoli che hanno davanti a sé.

Il dibattito a destra

Si potrebbe pensare che, se i temi del conservatorismo liberale sono di impedimento alla sinistra, allora, per conversione logica, essi sono il principale propulsore della destra. Purtroppo, la logica non governa la politica. Anche per la destra è emblematico il dibattito di questa estate, che in gran parte è la ripetizione noiosa fino alla nausea di quelli degli anni precedenti. Qui due fatti sono significativi: la cosiddetta “questione della leadership” nella Casa delle libertà e la “questione cristiana”, come possiamo chiamarla, al Meeting di Rimini.

Sulla questione della leadership, la cosa per noi è così chiara che siamo sbalorditi dal vedere che continua a restare così oscura. La leadership politica del centrodestra si può discutere, anche perché per primo l’ha messa in discussione l’interessato. Ma, a parte i carismi, che non li dà il certificato anagrafico, a parte il consenso che non lo distribuiscono i desideri, a parte le capacità, di cui non è prova un mestiere politico che risale ai tempi dei calzoni corti, una leadership si gioca su idee. E qui ci tocca dire che, su questo terreno, la destra rischia di inciampare.

Di che cosa parlano, nello specifico, i politici di destra? Parlano di partito dei moderati, oppure parlano di partito unitario o di federazione, oppure ancora parlano di centro, di grande centro, di nuove aggregazioni, di aiuti alla maggioranza. Parlano persino di età, e ci fanno i conti. Purtroppo, raramente si sente parlare di programmi politici e soprattutto di cornici di cultura politica entro cui inserirli. L’idea di inizio di stagione estiva di un’alleanza fra “produttori di beni” e “produttori di valori” è buona. Per noi, è un altro modo di battezzare il conservatorismo liberale. Ma, allo stato, è ancora in erba, mentre fioriscono le bizze, i dispetti, i narcisismi. Noi siamo convinti che, per una nuova aggregazione, vi sia l’opportunità. Siamo anche convinti che una grandissima parte degli elettori aspetti di coglierla. Ma, per coglierla, si devono approfondire i temi della cultura politica. Si deve parlare di identità, si deve parlare di Occidente, si deve parlare di princìpi e valori, si deve parlare di bisogno di spiritualità. È lì, soprattutto lì, che si misura una leadership. Ed è lì che si avverte l’esigenza del conservatorismo liberale.

L’opportunità di un partito e di un’aggregazione di tipo conservatore liberale e l’attesa, e anche il bisogno e il favore per questo tipo di cultura, le abbiamo viste e sentite anche a Rimini. Ma anche qui, come sulla questione della leadership, siamo rimasti colpiti da quella che ci è parsa una insufficiente consapevolezza della sfida.

Ciò che i giovani cattolici da alcuni anni soprattutto vogliono – e da una classe politica soprattutto si attendono – è che la loro identità occidentale, il loro attaccamento alle radici cristiane, la loro voglia di autonomia liberale e di conservazione spirituale non siano sacrificate a ragioni di schieramento politico contingente o di protagonismo personale emergente. Prima che accordi o patti o aiuti o ammiccamenti trasversali, essi cercano chiarezza di idee e lealtà di impegni.

Le meravigliose ragazze e i meravigliosi ragazzi di Rimini, e i tantissimi altri che anche noi di Magna Carta abbiamo incontrato, non desiderano che gli si dica come votare, e sarebbe perciò offensivo indicarglielo. Sono molto esigenti perché sono molto onesti: essi pretendono che coloro che hanno liberamente votato in nome di un credo siano poi fedeli a quel credo. Avremmo perciò preferito che chi si è rivolto a loro, da sinistra ma soprattutto da destra, avesse avuto più rispetto e consapevolezza dei valori richiesti da quella splendida platea e meno attenzione per le esigenze e le aspirazioni momentanee sollecitate dal palco. Ma questo per noi significa che occorre ancora più riflessione sulle ragioni del conservatorismo liberale e più impegno per diffonderlo, anche tra coloro che sono nostri amici.

Oggi la destra è all’opposizione, fortuitamente, ma all’opposizione. Ci uscirà non facendo la voce grossa di chi protesta, o quella bianca di chi ammicca, ma usando la mente fine di chi riflette e si impegna. Noi, anche con questa Scuola, quella riflessione cerchiamo di approfondirla e quell’impegno cerchiamo di aumentarlo. Non siamo il sale della terra, ma camminiamo tanto con i piedi sulla terra e assieme a tanta gente che ci sembra di essere sulla strada giusta.

Marcello Pera