L'antiamericanismo in Europa
Un problema culturale
di Russell A. Berman
Rubbettino
Introduzione
di Gaetano Quagliariello
30 ottobre 2006
Questo libro è stato scritto all’indomani dell’invasione dell’Iraq voluta dalla prima amministrazione Bush, quando la rottura tra Stati Uniti ed Europa assunse tale profondità da sollecitare il ricorso a paragoni mitologici. In esso l’Autore s’interroga sulle ragioni più profonde della crisi dei rapporti transatlantici esprimendo la convinzione che, sul versante europeo, la crisi non risieda in una qualche forma più o meno motivata di disaccordo con la politica estera degli Stati Uniti, bensì abbia un fondamento insieme strategico, morale e identitario.
Dal momento nel quale questo saggio è stato scritto sono trascorsi più di tre anni. L’ondata d’emozione suscitata dalla guerra all’Iraq si è in gran parte riassorbita. I rapporti transatlantici, almeno apparentemente, sono migliorati. Fino al punto da far ritenere che la seconda amministrazione Bush esprima, in politica estera, una cifra differente rispetto alla prima. Negli Stati Uniti molti degli amici del Presidente al tempo della guerra iraquena, si trovano oggi all’opposizione; alcuni dei suoi critici, di contro, ne tentano una rivalutazione. E questa stessa inversione di tendenza sembra lambire anche il Vecchio Continente, sottraendo alla contrapposizione con gli Stati Uniti quel carattere di ultimatività che era parso assurgere a tratto identitario. Insomma: almeno apparentemente la più recente deriva delle relazioni transatlantiche sembra assegnare alle riflessioni di Russel A. Berman un significato solo contingente. Il loro valore parrebbe limitato alla capacità di cogliere un frangente – significativo ma pur sempre un frangente – dell’altalenante vicenda dei rapporti tra America ed Europa, senza concedere al momento storico analizzato il significato di una svolta e tanto meno quello di una cesura epocale.
Se accedessimo a quest’interpretazione rischieremmo d’accreditare una lettura superficiale e disattenta. A me pare, invece, che l’analisi di Berman abbia le qualità proprie del buon vino: il suo pregio si accresce con il passare degli anni. Il trascorrere del tempo, infatti, parrebbe aver consolidato gli elementi di fondo del prodotto consentendo alle intuizioni dettate dalla contingenza di assumere più profondità e spessore.
All’Autore non si può certo rimproverare d’avere ignorato le radici del fenomeno che ha posto sotto la sua lente d’ingrandimento. Sulla scorta di J.-F. Revel, rivela nell’antiamericanismo europeo un elemento strutturale di pregiudizio e di paranoia. Tuttavia, tale convinzione non esaurisce la sua indagine, né fa venir meno l’esigenza di comprenderne le complesse cause storiche e le motivazioni più profonde. Propone, per questo, una classificazione dell’antiamericanismo che fa derivare dalla coniugazione simultanea di elementi contenutistici ed elementi cronologici. Ne scaturiscono tre principali tipologie d’antiamericanismo che presentano caratteristiche “merceologiche” differenti ma che, insieme, descrivono un continuum storico che va dall’xix Secolo fino ai nostri giorni.
In principio fu l’antiamericanismo “pre-democratico”, che «manifesta un disdegno aristocratico […] nei confronti della democrazia, ritenuta troppo ordinaria, banale, povera di qualità. Si usa l’America per rappresentare la spinta alla modernizzazione come trivializzazione». Con l’inaugurarsi del secolo breve e, ancor più, con il termine della seconda guerra mondiale, l’antiamericanismo assunse però le sembianze di filo-comunismo e divenne strumento della strategia globale di potenza dell’Unione Sovietica negli anni della guerra fredda. Infine, l’ultimo tornante storico è individuato all’indomani della caduta del Muro nell’inaugurarsi di ciò che l’autore definisce come “antiamericanismo post-democratico”: vale a dire, il risentimento dell’Europa verso la riluttanza degli Stati Uniti a sottomettersi a istituzioni sovranazionali all’interno delle quali il principio di responsabilità politica risulti privo di effettivi richiami al demos e al criterio rappresentativo; e dove la dimensione regolamentare e burocratica finisca inevitabilmente con l’assumere uno spazio spropositato e limitativo rispetto ai principi di sovranità e d’interesse nazionale.
Sin troppo facile evidenziare come questa classificazione non possa essere proposta con meccanicità. Studi sull’argomento, d’altro canto, hanno già evidenziato i processi d’osmosi e contaminazione tra le diverse tipologie di antiamericanismo. È significativo, per esempio, che in un libello del 1950, icasticamente intitolato America, uno dei massimi corifei dell’antiamericanismo comunista, lo scrittore Ilja Erenburgh, mutui stereotipi e pregiudizi sul modo di vita americano identici a quelli espressi a inizio secolo da intellettuali come Henry James (The American Scene), riadattandoli al contesto ideologico della guerra fredda. Ma oltre questo contatto tra generi, si devono considerare anche variabili di natura, per così, dire geo-politica. L’antiamericanismo, fa infatti notare Berman, non possiede ovunque le stesse caratteristiche, in quanto l’immagine negativa degli Stati Uniti viene fortemente influenzata da cause interne, fattori locali, retaggi culturali e abitudini politiche.
Un breve excursus sul caso italiano a partire dal secondo dopo-guerra, può contribuire a corroborare il punto di vista. Negli anni della guerra fredda l’antiamericanismo, inquadrato nella “lotta per la pace”, riveste un ruolo essenziale nella politica estera sovietica, quale espressione delle iniziative politiche e propagandistiche del Kominform volte a contrastare l’integrazione politica, militare e socio-economica tra Europa e Stati Uniti. Sotto questa forma le campagne antioccidentali toccano l’acme negli anni 1949-1955, proseguendo in modo intermittente sino agli anni Ottanta segnati in particolare dalla crisi degli euromissili. In Italia, tuttavia, la minaccia comunista costituisce nei primi anni della guerra fredda un collante ideologico altrettanto forte del sentimento antiamericano nonostante l’estensione e la profondità delle sue radici. Anche per questo, la democrazia poté resistere e poi consolidarsi: esito che storicamente deve considerarsi tutt’altro che scontato.
Dopo il 1953 la struttura e le dinamiche interne della guerra fredda iniziano a complicarsi. Ai momenti di crisi seguono improvvise cadute di tensione e all’ombra dell’incipiente boom economico si avviano i primi passi di una “piccola distensione”. Contemporaneamente, il diffondersi del nucleare introduce la logica della deterrenza come stabilizzatore del quadro internazionale. La fine della fase più dura della guerra fredda sembra perciò portare con sé i prodromi di una nuova etica pubblica fondata sulla correlazione tra sicurezza e rigetto della povertà, in quanto le attitudini di fondo delle opinioni pubbliche europee in questo periodo sono sempre più determinate dal combinato disposto della fine della paura di un nuovo conflitto armato e dalla certezza del benessere. È a questo punto che si fa strada nel vissuto di una nuova generazione l’idea che la guerra possa confinarsi nel passato; che il benessere possa espandersi senza limiti; che il dialogo sia lo strumento in grado di risolvere qualunque conflitto; che i rapporti internazionali possano procedere senza egemonie. Si pongono così le basi per il rilancio di una contrapposizione strutturale di valori tra il Vecchio Continente e il mondo atlantico, che le punte più aspre della guerra fredda hanno soffocato o, quanto meno, tenuto a freno.
All’interno di questo solco, alla metà degli anni Sessanta, si assiste all’irrompere di un nuovo antiamericanismo che fuoriesce dalle tradizionali logiche della contrapposizione tra blocchi, ponendosi al di fuori della tutela ideologica e politica dell’Unione Sovietica. Ciò avviene anche a causa di due circostanze storiche tra loro connesse: l’impegno americano nella guerra in Vietnam e il consumarsi dello scisma nel mondo comunista tra Cina e Unione Sovietica. La prima di queste situazioni, insieme al dilagare di una critica sempre più radicale alla affluent society, segna una più diretta rottura di paradigma nella percezione europea degli Stati Uniti. Significativo, a tal proposito, l’intitolazione di un editoriale pubblicato sul periodico dell’associazione dei lavoratori cattolici nel settembre del 1967: “Il no delle acli alla “civiltà dello stomaco e della pigrizia”(1). Il nuovo antiamericanismo, insomma, è adesso di natura etica più che politica. Significa che gli Usa non sono condannati in quanto appartenenti a un altro blocco, ma in nome di principi estranei e contrari alla logica di potenza. Si tratta, per questa ragione, di un antiamericanismo che aborrisce la responsabilità e presume l’innocenza. Tale approccio trova larga accoglienza innanzitutto in quella parte del mondo cattolico che, dopo l’inizio del Concilio, ha l’occasione di sublimare la sua radice anti-liberale coniugandola con il progressismo e con una malintesa modernità politica. Il Vietnam offre così l’opportunità a molti protagonisti del cosiddetto “dissenso” cattolico – si pensi a una personalità come Dorigo –(2), di rilanciare temi e suggestioni coltivate nei primi anni Cinquanta da figure quali Mazzolari, Giordani, La Pira e, più in particolare, l’idea di una rifondazione etica dell’ordine internazionale e della politica estera che non si vorrebbero più abbandonati a mani profane come quelle dei governi. In base a tale premessa, l’idea stessa di Occidente si carica di implicazioni contrastanti, divenendo terreno di virtuale frizione tra la Pax Atlantica e la Pax Christiana.
Su un differente versante, questo nuovo attivismo antiamericano è anche indirettamente rafforzato dall’altra situazione che in questa fase altera gli equilibri internazionali e, con essi, i termini del rapporto tra Europa e Stati Uniti: il dissidio tra Urss e Cina. Tale dialettica offre a quanti in Occidente si oppongono al Vietnam – la maggior parte giovani –, la possibilità di essere comunisti senza sentirsi corresponsabili dell’imperialismo sovietico. Rispetto alle nuove istanze emerse in seno alla “nuova sinistra” il Pci, da questo momento in poi, si trova a scontare la stretta identificazione tra “via italiana al socialismo” e “coesistenza pacifica”. A quest’ultima categoria, infatti, i gruppi intellettuali che contestano apertamente il partito comunista assegnano la connotazione propria di una politica di mera conservazione dello status quo e di congelamento della lotta di classe all’interno di una prospettiva che ha assunto come orizzonte la tradizionale politica di potenza e lo stato borghese nazionale (3). In Italia, a questo punto, la vecchia logica della “lotta per la pace” con il sottostante unilateralismo prosovietico delle campagne comuniste anti-nato, si sgretola finendo sotto il tiro trasversale di un inedito concetto d’“antimperialismo”.
Quest’offensiva ideologica coglie il Pci nel mezzo di una revisione strategica molto ambiziosa ma, al tempo stesso, carica di aporie e di contraddizioni irrisolte. La più esplicita sottende proprio il legame tra le rinnovate aspirazioni di governo del partito – racchiuse nella strategia del “compromesso storico” – e la necessaria riformulazione delle coordinate di politica internazionale che questa stessa strategia presuppone. Gli anni Settanta vedono, infatti, il Pci avvicinarsi all’europeismo, senza rimettere però in discussione la funzione storica dell’Urss quale imprescindibile baluardo antimperialista. L’europeismo del Pci, per questo, si carica di tutte le scorie di un mal digerito “neutralismo” attivo in Italia, e non soltanto a sinistra, ancora negli anni Cinquanta. La stagione di Berlinguer finisce così per mettere in comunicazione due esigenze – il distacco dall’Urss e la critica ai regimi capitalistico-occidentali – senza riuscire a sciogliere il nodo della loro incompatibilità. Anche per questo, la fine della guerra fredda finirà per cogliere il Pci in “mezzo al guado”.
Questa irrisolutezza aiuta a spiegare la capacità dell’antiamericanismo post-sessantottino di espandere la propria influenza oltre il tempo storico delimitato dall’esistenza del Muro. Con la fine della guerra fredda, infatti, l’antiamericanismo nato con il Sessantotto – non importa se di matrice cattolica o comunista –, si reincarna nell’antiamericanismo post-ideologico descrittoci da Berman. L’originaria condanna morale della logica di potenza vede a questo punto spalancarsi davanti a sé le praterie dell’ottimismo che caratterizzano il decennio della spensieratezza. E, anche quando gli anni Novanta si chiudono bruscamente con l’11 settembre del 2001, dopo un primo momento di sbandamento nel quale si diviene “tutti americani”, quella stessa condanna – a questo punto applicata unilateralmente agli usa – si trasforma in formidabile alimento per la visione di un’Europa “potenza civile”: modello politico alternativo e concorrenziale rispetto a quello degli Stati Uniti. Una siffatta parabola si compie in tutti i principali Paesi della vecchia Europa, al punto che Habermas ha scorto in essa i germogli di un nuovo patriottismo costituzionale di tipo continentale. L’autore, però, in questo libro si concentra essenzialmente sul caso tedesco. Non si tratta di una scelta dettata solo da ragioni di carattere contingente e autobiografico. Essa postula anche un problema di carattere strutturale.
Dopo il crollo dell’Unione Sovietica l’equilibrio transatlantico stabilitosi negli anni della guerra fredda attorno ai meccanismi di compensazione interni all’asse tra Francia e Germania ha cominciato a indebolirsi proprio nell’anello tedesco, sino a rompersi definitivamente nel 2003 al momento dell’intervento in Iraq. Infatti, a partire dal momento nel quale, con la ratifica del Trattato dell’Eliseo, nell’ambito del processo d’integrazione europea si fissa la centralità dell’asse franco-tedesco, per quanto concerne il rapporto euro-atlantico la Francia rappresenta il polo dell’autonomia europea mentre la Germania assurge a necessario contrappeso in chiave atlantica. Quest’equilibrio, però, è andato in frantumi assieme al Muro di Berlino. Il nuovo scenario internazionale ha reso presto evidente sino a che punto il sostegno “esterno” dello scontro bipolare risultasse consustanziale sia alla coesione politica europea sia alla stabilità del suo rapporto con l’America. Sin da subito, infatti, il rapporto euro-atlantico, anziché adattarsi al nuovo contesto, ha riproposto gli stessi riflessi che lo avevano caratterizzato al tempo della guerra fredda nei momenti di relativa distensione, con la differenza sostanziale che, nella nuova realtà del mondo, l’obbligatorietà del rapporto è venuta meno. Si tratta di una diversità che aiuta a spiegare perché e come mai sia stata la Germania di Schröder ancor più della Francia di Chirac, a far saltare il vecchio equilibrio di compensazione tra vocazione autonoma dell’Europa e lealtà ai presupposti ideali, culturali e strategici della communitas occidentale.
La crisi irachena costituisce il momento di decantazione di tutte le tensioni latenti tra le due sponde dell’Atlantico. Nel corso di essa si manifestano tre tipi di fratture a lungo celati dalla presenza di un conflitto maggiore. In primo luogo si rivitalizzano le vecchie, mai sopite, pulsioni nazionaliste degli Stati europei. Si riattiva, cioè, una tendenza di lungo periodo dell’Europa già funzionante nel corso della guerra fredda, per la quale nelle fasi di allentamento del conflitto bipolare, anziché verificarsi un potenziamento della sua unità o del suo potere contrattuale nei confronti dell’alleato principale, si rafforzano le logiche nazionali con il conseguente indebolimento complessivo della sua strategia e ragion d’essere in ambito politico. A tale debolezza, in compenso, si sovrappone una effettiva capacità di realizzazione degli obiettivi unitari sul terreno economico, che ha finito però con l’accrescere l’asimmetria tra integrazione economica e disunione politica.
Il secondo cleavage discende in buona parte proprio dalla mancata composizione di questa asimmetria che, tra l’altro, si trova all’origine della frattura geopolitica tra “vecchia” e “nuova” Europa. Come si è già detto, una volta infrantosi l’equilibrio bipolare, l’Europa non è stata in grado d’adattarsi alle necessità storiche che la svolta epocale del crollo del comunismo avrebbe imposto. Lo si è potuto verificare sin da subito con la vicenda dell’unificazione tedesca; e poi con il corso assunto dalla crisi balcanica e, infine, proprio con la questione iraquena. Nel corso di quest’ultima crisi, proprio la scelta dell’allargamento a est, che era risultata la maggiore opzione strategica dell’Europa post-1989, ha finito con il rivoltarsi contro di essa. L’Europa dell’asse franco-tedesco, infatti, ha declinato il nuovo conflitto nella chiave del cripto-antiamericanismo, mentre i nuovi aderenti alla costruzione unitaria subordinavano – per ragioni insieme storiche, geopolitiche e ideali –, la loro ragion d’essere europeista all’intangibilità del vincolo transatlantico.
La terza frattura è di tipo morale. La guerra contro l’Asse del Male rinnova una discriminante etica antitotalitaria nella politica estera degli Stati Uniti che Berman riassume nella formula “Saddam come Hitler”. Essa anticipa di quasi tre anni il senso dell’operazione con la quale George W. Bush ha rilanciato, il 5 settembre 2006 nel discorso all’Associazione degli ufficiali, la grande battaglia ideologica contro il «fascismo islamico », presentando implicitamente la guerra contro il terrorismo internazionale come continuazione della guerra contro il totalitarismo novecentesco.
Almeno due ragioni spiegano la capacità dell’Autore di presagire uno sviluppo significativo nella lotta dell’amministrazione americana all’islamismo radicale. Sul piano storico vi sono evidenze inconfutabili circa l’influenza tanto del nazismo quanto dello stalinismo sul socialismo Ba’th; così come dei legami e delle solidarietà intessute da alcuni filoni del fondamentalismo islamico – si pensi ai Fratelli Musulmani – con l’estrema Destra europea. Una disincantata analisi di questi fenomeni non può nascondere come essi, al di là delle loro specificità, configurino una sorta di variante musulmana di quelle ideologie totalitarie che, richiamandosi in modo seppur differente al mito dell’unità perduta e della perfezione sociale, hanno incarnato il moderno impulso alla ribellione contro i valori occidentali di libertà e democrazia.
Sul piano politico, le ragioni che giustificano il ricorso alla categoria del totalitarismo sono altrettanto evidenti. Per un americano, la Seconda Guerra Mondiale è stata anche e soprattutto una guerra anti-fascista. Essa ha visto l’ingresso in guerra nel Paese quando l’accordo tra Hitler e Stalin si era già rotto e, per questo, ha sancito anche una tregua provvisoria con la tirannia sovietica. La guerra fredda avrebbe poi segnato il riassorbimento dell’anti-fascismo nell’anti-totalitarismo. Come allora si pone oggi il problema di guadagnare l’intellighenzia di sinistra alla lotta contro quelle ideologie e quei movimenti o regimi radicali che costituiscono una concreta minaccia alla libertà e all’esistenza delle “nazioni civilizzate”. Tale consapevolezza in America è resa ancora più nitida dalle prese di posizione di intellettuali liberal e di sinistra americani quali Paul Berman, Michael Walzer, Christopher Hitchens. Non è un caso che nelle loro analisi ricorra non di rado la categoria dell’islamo-fascismo, anche come esplicito invito ai loro corrispondenti europei di abbandonare le secche di uno sterile antiamericanismo.
Alla luce delle più recenti vicende internazionali, si può affermare che il loro implicito incoraggiamento abbia prodotto effetti nella sinistra europea? Certo, i termini della questione dei rapporti euro-atlantici, appaiono mutati rispetto a quando Berman ha formulato le sue analisi. A fronte – e forse a causa –, del ritrovato protagonismo europeo sulla scena internazionale la forma più “virulenta” dell’antiamericanismo della sinistra europea sembra stingere ora verso espressioni per così dire più “striscianti”. Uno dei fattori determinanti, in tal senso, è dato ancora una volta dall’oscillazione del pendolo tedesco, con l’ingresso sulla scena della Cancelliera Merkel. Un secondo fattore, più rilevante, è rappresentato dal riorientamento della politica estera americana al cospetto della necessità di suscitare più ampie convergenze nella lotta contro le nuove minacce nucleari. Questo indirizzo è stato diffusamente interpretato in Europa alla stregua di una vera apertura verso un più ampio cointeressamento della comunità internazionale alla risoluzione multilaterale degli scenari di crisi in Medio Oriente.
Proprio il caso italiano, però, illustra bene quanto di contingente – troppo contingente – rischi di esservi in quest’evoluzione d’atteggiamento alimentato, in particolare, dalla sinistra europea. In Italia, infatti, le nuove circostanze dello scenario internazionale hanno contribuito alla riscoperta di antiche vocazioni “neoatlantiche” della nostra politica estera, secondo uno schema che se da un lato ribadisce una continuità di fondo nel rapporto con gli usa, intessuta di motivi storici e di convenienze nazionali, dall’altro però non esita a inglobare al suo interno un elemento di potenziale concorrenzialità. Proprio questa tensione irrisolta ha provocato un impegno spropositato nella missione in Libano, in termini di mezzi e di uomini. E, soprattutto, ad un’ambiguità di fondo sugli obiettivi della spedizione e sugli interlocutori privilegiati. Molti indizi portano a ritenere che, per il governo italiano, essi siano gli hezbollah assai più degli israeliani.
In questo contesto, il massimo che si possa ottenere sul piano dell’antiamericanismo è una remissione delle sue manifestazioni più acute. Ma senza affrontare il problema delle radici storiche e ideologiche del fenomeno, è facile profezia che la remissione sarà solo temporanea: destinata a durare lo spazio di una “convenienza bilaterale”; fino all’esplosione di una nuova inevitabile crisi.
(1) Il no delle ACLI alla “civiltà dello stomaco e della pigrizia”, in “Settegiorni”, 12, 3 settembre 1967.
(2) W. Dorigo, Movimento per la pace e nuova partecipazione politica, in «Questitalia», 110, maggio 1967.
(3) M. Tronti, Internazionalismo vecchio e nuovo, in «Contropiano», n. 3, 1968, pp. 505-525. Per le posizioni di Potere Operaio si veda Contributo al dibattito per l’xi Congresso del Pci (dattiloscritto), cit. in m. bertozzi, Teoria e politica alla prova dei fatti: il “Potere Operaio” pisano (1966-1969), in Gli anni delle riviste (1955-1969), “Classe. Quaderni della condizione e sulla lotta operaia”, n. 17, a. xi, giugno 1980; e inoltre Lotte di classe in Europa, «Potere Operaio», n. 11, 15 aprile 1969; Ribellione e lotta di classe in Europa orientale, «Potere Operaio», n. 11, 15 aprile 1968.