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Proprio come la Deus caritas est, anche questo documento papale, limpido e impegnativo, riflette su un’affermazione neotestamentaria, questa volta di san Paolo.
La risposta del vescovo di Roma è tanto ragionevolmente convincente quanto fiduciosa nell’aprirsi a una radicale novità. E l’essere cristiano – che secondo il Papa non è un’ideologia o una morale, ma l’incontro con qualcuno che davvero cambia la vita – sperimenta ogni giorno quella novità che Paolo annunciava quasi venti secoli fa: “Siamo salvati nella speranza”. Nell’attesa cioè di un futuro che abita già il cuore dell’uomo.
Benedetto XVI si preoccupa di ripensare e spiegare i fondamenti della scelta cristiana, e la radice è la Scrittura; in questo caso soprattutto le lettere paoline, dettate in un mondo capace di esprimere la sua angoscia nelle parole di un epitaffio che sembra scritto dalla disperazione di oggi: in nihil ab nihilo quam cito recidimus (“nel nulla dal nulla quanto presto ricadiamo”).
Su alcuni termini del Nuovo Testamento, radicato nella fede di Israele, il Papa fonda il suo confronto con la tradizione cristiana, anche quella espressa dalle immagini, per esempio scolpite sui sarcofagi a significare l’attesa del risveglio definitivo.
Benedetto XVI richiede a chi legge attenzione e impegno, come per tutto ciò che vale la pena. E riflettere su quanto attende il cuore degli esseri umani – magari oscuramente – vale davvero la pena.
La spiegazione di Papa Ratzinger dei fondamenti dell’essere cristiano muove dalla Scrittura, letta alla luce della tradizione cristiana, e dunque illuminata anche dall’esperienza di alcune figure esemplari: quelle dei santi.
Così il pensiero sulla speranza di Benedetto XVI – tanto imbevuto di testi cristiani, soprattutto patristici e medievali, quanto attento alla modernità – trova conferma nella storia cristiana dell’Ottocento e del Novecento. Come la vicenda di una piccola schiava africana, santa Bakhita, che riconobbe finalmente in Dio un “padrone” non più terribile, ma davvero “totalmente diverso” e che le cambiò la vita. O ancora la testimonianza sconvolgente, conservata in una vera e propria “lettera dall’inferno”, del martire vietnamita Paolo Le-Bao-Thin: pure nell’abisso del carcere e dell’odio scatenato nelle stesse vittime, anche questo “prigioniero per il nome di Cristo” sperimentò la salvezza nella speranza. E come lui un altro martire del nostro tempo poi creato cardinale, Nguyen Van Thuan.
Sorretto dalla tradizione cristiana – viva nei testi e viva in miriadi di donne e di uomini che hanno saputo testimoniare il nome del Signore fino all’estremo, ma anche nella pena e nella gioia di ogni giorno, nelle “piccole fatiche del quotidiano” – Benedetto XVI non teme il confronto con il pensiero moderno, anzi lo cerca, per un rapporto pacato e fiducioso. Così la spiegazione della speranza meditata e vissuta si accompagna nell’enciclica alla dialettica con quanti hanno originato il sentire del nostro tempo, spesso così lontano dalla speranza cristiana: dalle premesse di Bacone alla reazione di Kant alla Rivoluzione francese, la critica del Papa – che menziona quelle di altri pensatori del Novecento come Horkheimer e Adorno – arriva fino a Engels, Marx, Lenin, i cui insegnamenti sulla dittatura del proletariato hanno lasciato “dietro di sé una distruzione desolante”, avendo “dimenticato l’uomo” e “dimenticato la sua libertà”.
La critica di Benedetto XVI si rivolge però anche al cristianesimo moderno, quando esso si è “in gran parte concentrato soltanto sull’individuo e sulla sua salvezza”, senza neppure riconoscere “la grandezza del suo compito”; benché resti “grande” ciò che esso ha fatto per l’educazione dell’uomo e la cura dei deboli e dei sofferenti.
Di fronte a quella che il Papa chiama “l’ambiguità del progresso” è allora necessario che la ragione – “grande dono di Dio all’uomo”, al punto che “la vittoria della ragione sull’irrazionale è anche uno scopo della fede cristiana” – si apra alla fede, secondo una preoccupazione caratteristica del pensiero di Joseph Ratzinger e ora della sua predicazione come vescovo di Roma. Davanti poi al rischio individualista Benedetto XVI ripete con i Padri della Chiesa, il prediletto sant’Agostino e Henri de Lubac che la salvezza “è sempre stata considerata come una realtà comunitaria”.
Salvati nella speranza, ogni giorno della vita su questo mondo i cristiani hanno atteso e aspettano le realtà ultime, dette un tempo novissimi – morte, giudizio, inferno, paradiso – e sul loro significato, radicalmente sempre attuale, il Papa riflette laicamente, citando Dostoëvskij e Platone. Ma le immagini della speranza più care alla tradizione cristiana sono quelle evangeliche, soprattutto secondo il racconto di san Luca. Dall’attesa umile e silenziosa di Israele con il vecchio Simeone e la profetessa Anna a quella di Maria, in viaggio per recarsi da Elisabetta e che si affretta sui monti della Giudea: “immagine della futura Chiesa che, nel suo seno, porta la speranza del mondo attraverso i monti della storia”.
A lei Benedetto XVI affida se stesso e tutta la Chiesa, certo ricordando quanto disse nell’ultima omelia prima di essere eletto in conclave. Che tutto passa, il denaro, gli edifici, persino i libri, e che soltanto resta l’uomo creato per l’eternità: “Il frutto che rimane è perciò quanto abbiamo seminato nelle anime umane – l’amore, la conoscenza; il gesto capace di toccare il cuore; la parola che apre l’anima alla gioia del Signore. Allora andiamo e preghiamo il Signore, perché ci aiuti a portare frutto, un frutto che rimane”. Come rimarranno i frutti dell’enciclica in chi vorrà leggerla e meditare sulla speranza.

(da “L’Osservatore Romano”)