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Quel che voi prestate a riba perché aumenti sui beni degli altri, non aumenterà presso Dio. Ma quello che date in elemosina, bramosi del Volto di Dio, quello vi sarà raddoppiato” (Corano XXX, 39). All’inizio il divieto al tasso d’interesse era comune a molte civiltà e culture, tra cui anche quella cristiana ed ebraica. Il divieto non prevedeva però alcuna pena ed era pertinente più alla sfera della coscienza individuale che alla prassi giuridica, non essendosi alla fine affermata nel mondo occidentale una prevalenza della religione sull’economia e sul diritto. Esattamente il contrario invece di quanto avvenuto nel mondo islamico, dove l’economia e il diritto erano (e sono) regolate da precetti religiosi. Anzi, a ben vedere, è difficile anche distinguere nell’Islam tra economia, diritto e religione, essendo essi piuttosto un tutt’uno regolato dalle medesime prescrizioni.

In tale contesto religioso, economico e sociale la nascita di una attività bancaria halal, cioè in aderenza con i principi religiosi, risale al 1963, quando fu fondata la prima banca islamica nella città di Mit Ghamr, in Egitto, poi chiusa nel 1968. Negli anni successivi, il modello di banca islamica si diffuse poi negli altri Paesi a maggioranza musulmana, dal Pakistan al Sudan sino all’Iran. Le banche, quindi, sono un’evoluzione abbastanza recente del sistema economico islamico, che, fino all’inizio degli anni ’70, era basato quasi esclusivamente sull’hawala. Il sistema hawala consiste, infatti, in un tipo di sistema bancario informale e prevede, sostanzialmente, la partecipazione di quattro attori: l’ordinante, colui il quale vuole trasferire i fondi; il beneficiario, colui il quale riceverà da ultimo i fondi; e, infine, due operatori (gli hawaladar), che prendono una commissione per ogni transazione portata a termine.

Nel caso in cui una persona volesse quindi inviare denaro, per esempio, in Pakistan, è sufficiente che depositi la somma da trasferire nelle mani di un hawaladar locale, che poi provvede a contattare un suo affine in Pakistan, il quale farà infine avere l’importo pattuito (al netto della provvigione) al destinatario. I due banchieri clandestini compenseranno poi, nel paese di origine, il loro debito-credito con operazioni inverse o con dazioni di denaro. Tale sistema ha dunque sopperito per secoli proprio alla mancanza di un sistema creditizio sviluppato e ramificato, rendendo comunque possibile, in condizioni logistiche molto difficili, il trasferimento di capitali da un Paese all’altro. La rete delle banche islamiche si presenta, del resto, oggi come una ragnatela intricata, le cui ramificazioni sono, a volte, poco trasparenti, sia nelle operazioni compiute che nella partecipazione al capitale di controllo. La presenza di questi istituti si fa inoltre sentire sempre più anche nel mondo occidentale. Nonostante ciò, si stima comunque che, ancora oggi, solo il 50% delle transazioni finanziarie, incluse quelle internazionali, avvengano tramite operatori bancari ufficiali.

L’Hawala, infatti, resiste. Queste risorse rappresentano dunque una quota importante del risparmio del migrante trasferita dal paese di residenza a quello d’origine. La misurazione di questi flussi internazionali di denaro non è però agevole, anche perché le statistiche ufficiali non conteggiano il flusso di rimesse che passa attraverso canali informali di intermediazione, che vanno dalla consegna personale a mano durante i periodici viaggi nel paese d’origine, all’invio tramite amici e familiari, al ricorso ad organizzazioni professionali di trasferimento finanziario non registrate.

Naturalmente, la contabilità ufficiale non registra nemmeno il ricorso ai canali illeciti e criminali di trasferimenti finanziari. Secondo quanto emerge, ad esempio, dalle ultime indagini della Direzione Nazionale Antimafia, la Guardia di Finanza ha recentemente individuato ben 410 agenzie di money transfer abusive in piena attività. Nell’audizione alla Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della criminalità organizzata mafiosa o similare, il Procuratore nazionale antimafia ha del resto a tal proposito ricordato come le indagini hanno consentito di scoprire un sistema “(…) in grado di contare su una rete capillare di distribuzione tre volte più ampia di quella delle Poste, su cui circolano flussi imponenti di denaro contante che sfuggono ad ogni controllo“.

Si tratta di un vero e proprio “sistema bancario parallelo” o alternativo, che rischia di mettere in crisi anche quello legale, essendo stati “identificati circa 25 mila punti di raccolta di denaro presenti in Italia, dei quali si stima che il 30 per cento – circa 8 mila – sia illegale. Questi punti di raccolta utilizzano anche i tabaccai, gli internet point, i phone center”. L’ampiezza e pericolosità del fenomeno non deve essere dunque sottovalutata.Il rafforzamento dei controlli internazionali nel settore finanziario e del riciclaggio di denaro sporco certo non è riuscito a bloccare tali flussi, ma ha aumentato semplicemente l’utilizzo da parte di queste organizzazioni di meccanismi e canali di finanziamento “alternativi”. Come ormai noto, del resto, le fonti di reddito principali del terrorismo sono: il furto di petrolio importato, i sequestri, il contrabbando di armi e il traffico di droga. I fronti, comunque, sono tanti.

Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha infatti evidenziato come esponenti del terrorismo internazionale agiscono da mediatori, in Sierra Leone, Angola e Liberia, per la vendita dei diamanti estratti dai locali gruppi ribelli e per la loro esportazione illegale, i cui introiti vengono per lo più utilizzati, poi, per l’acquisto di armi. Ma queste risorse, provenienti in generale da attività criminali ed illecite, rappresentano solo la punta dell’iceberg. I soldi “veri” si fanno infatti, ormai, sempre meno con le attività criminali strictu sensu. Del resto, se in passato il riciclaggio di denaro sporco (money laundering) da parte delle organizzazioni criminali era ritenuto la fonte primaria di inquinamento dei mercati finanziari, oggi invece il principale fattore di inquinamento dei mercati è rappresentato dall’utilizzo dei circuiti finanziari da parte delle organizzazioni terroristiche per autofinanziarsi tramite l’utilizzo di capitali leciti (c.d. “money dirtying”).

La globalizzazione assume quindi, ormai, un rilievo che attiene anche ai problemi della sicurezza, divenuti anch’essi “globali”. Nell’ambito di tale nuovo contesto è necessario pertanto approntare nuovi metodi di intervento e controllo ed una nuova e più efficace regolamentazione.Per rafforzare la stabilità complessiva del sistema, una delle priorità che si pongono all’attenzione anche dei servizi di intelligence è comunque, senz’altro, un maggior controllo sulla speculazione finanziaria. In questo scenario, infatti, l’azione di soggetti speculativi si fa ancora più pericolosa, arrivando a minacciare anche gli interessi nazionali. La continuità dello Stato passa per la stabilità economica. La crisi in Tunisia, Egitto ed altri Paesi dell’area, ne è la comprova più recente. Il viaggio nella Jihad Corporation e nelle casseforti del terrore, del resto, può cominciare dalla soglia di una qualsiasi moschea o di una scuola coranica, dove, sul frontone, è sempre indicato il conto corrente cui inviare l’obolo per la “Jihad”, per continuare davanti ad una banca con filiali alla Mecca, Islambad, Londra, Washington e New York.

Con il sistema degli hawaladar, quindi, decine di milioni di persone costituiscono veri e propri spazi offshore, con circuiti economici paralleli che sfuggono ad ogni statistica e controllo. Altro che paradisi fiscali. Un’intera economia offshore che muove, sotto banco, miliardi di euro. La domanda che a questo punto si pone è la seguente: con la perdita della tutela assicurata fino ad oggi dalla inviolabilità del segreto bancario, o comunque con il tramonto dei paradisi fiscali, quali nuove rotte prenderanno i flussi finanziari che dietro tale segreto e paradisi si nascondevano? Dove andrà questa montagna di denaro e come funziona concretamente il meccanismo di evasione fiscale (e riciclaggio)? Vista la natura globale dell’economia mondiale, del resto, limitare un paradiso fiscale lasciandone operativi altri è come cercare di coprirsi con una coperta sempre troppo corta. Per un paradiso in discesa infatti nuovi paradisi, vicini e lontani, diventano di moda. Il proliferare dei centri offshore, assieme ai “buchi neri”, rappresentati dai sistemi di finanza informale (hawala) sviluppatisi a seguito della crescita dei flussi migratori, rappresenta dunque il vero punto di criticità della rete finanziaria mondiale e della corrispondente stabilità politica. (Per leggere l’ebook è sufficiente scaricare il file in basso. Editing a cura di Carolina De Stefano. Il testo è protetto da licenza Creative Commons)