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Pubblichiamo l’intervento di Gaetano Quagliariello, tenuto in occasione della Lettura Annuale 2012 della fondazione Magna Carta, che è stata caratterizzata dalla Lectio Magistralis di Fedele Confalonieri.

Cari amici,

come sapete, da quando mi è stato attribuito un incarico politico nel gruppo del Popolo della libertà al Senato ho dismetto ogni ruolo attivo nella Fondazione di cui ho il piacere di essere presidente onorario. In questa veste, prima di lasciare il testimone al presidente Francesco Valli, consentitemi due parole introduttive e soprattutto un sincero e riconoscente benvenuto all’illustre ospite che ha accettato l’invito di Magna Carta e oggi ci onora della sua presenza: saluto dunque Fedele Confalonieri, presidente di Mediaset, co-protagonista di una storia straordinaria che, come lui stesso ci racconterà, non solo ha rivoluzionato il mondo della comunicazione in Italia ma ha inciso in profondità nel senso comune del popolo e nella storia del nostro Paese.

Hanno preceduto il presidente Confalonieri, in questo appuntamento tradizionale di Magna Carta che è una sorta di apertura dell’anno accademico, nel quale ci si ritrova per raccogliere ciò che si è prodotto l’anno precedente e seminare ciò che si produrrà nell’anno successivo, personaggi come Bernard Lewis, il più grande storico vivente, Hans-Gert Poettering, allora presidente del Parlamento europeo, Norbert Lammert, ex presidente del Bundestag tedesco, e molti altri ancora. Credo però che l’edizione di quest’anno sia particolarmente significativa, per le ragioni che dirò a breve.

Il presidente Valli, al quale fra poco cederò la parola, illustrerà le attività attraverso le quali la Fondazione ha cercato nell’anno appena trascorso di contribuire al dibattito pubblico con la produzione di idee e l’offerta di spazi di confronto e di formazione politica. Dal canto mio, poiché anche nelle piccole cose la sfida sta nella durata, ci tengo a ricordare una ricorrenza che per Magna Carta è senza dubbio un traguardo: l’ormai prossimo decimo compleanno della Fondazione, che nasceva nel 2003 all’esito di una riflessione sulla crisi dell’Occidente suscitata dall’abbattimento delle Torri Gemelle. Dieci anni dopo, al cospetto di un’altra crisi e di fronte al crollo di altre torri, qualche considerazione si impone.

Oggi come allora, alle spalle dei giganteschi epifenomeni – nel 2001 il più grave attentato terroristico nella storia dell’umanità, ai giorni nostri lo scollamento tra economia reale ed economia virtuale che ha terremotato i mercati e portato gli Stati nazionali sull’orlo del fallimento -; oggi come allora, dicevo, sullo sfondo c’è anche e innanzi tutto una crisi di idee e di identità.

I mutamenti intercorsi, lo smottamento economico-finanziario, il venir meno delle paratie ideologiche e di strumenti consolidati di formazione del consenso come il ricorso alla spesa pubblica, hanno messo in crisi i canoni e gli stilemi della politica tradizionale. I risultati delle elezioni amministrative, se analizzati in profondità, al di là di variabili rilevanti che sempre vi sono in elezioni di carattere amministrativo, restituiscono un’immagine piuttosto fedele dell’affanno attuale dei partiti e della sfida loro lanciata dai cartelli della cosiddetta antipolitica.

La risposta a questa sfida non può essere una reazione di terrore né una sprezzante sottovalutazione. La risposta alla crisi da parte dei partiti deve consistere in un rinnovamento delle forme e in un rafforzamento dei contenuti. E se il primo aspetto non è oggi all’ordine del giorno in questa sede, sul secondo fronte io credo che le fondazioni culturali di area potranno dare un importante contributo. Sia nella formulazione di proposte, sia nella definizione di quel perimetro ideale che muova dalla riscoperta di una tradizione per declinarla a fronte delle questioni inedite del nostro tempo.

Apro una piccola parentesi lessicale. E’ interessante notare come coniugando il termine italiano di fondazione, che richiama la solidità delle fondamenta, la dimensione dell’origine, con l’espressione anglosassone “think tank”, che sta per serbatoio di pensiero, si ricavi esattamente il binomio della tradizione e delle idee.

Magna Carta tutto questo ce l’ha nel suo dna, e insieme alle altre fondazioni che gravitano intorno al centrodestra è pronta ad affrontare la sfida. Sappiamo che la durezza della situazione economica del Paese ci pone di fronte un problema essenziale anche in termini di sostentamento: Magna Carta infatti non percepisce finanziamenti dallo Stato se non in misura infinitesimale e vive del contributo di privati e aziende che credono nella promozione delle idee e che voglio ringraziare, come ringrazio i tanti docenti e uomini e donne di cultura che mettono gratuitamente le proprie competenze al servizio di un progetto e coloro che in Fondazione lavorano senza risparmiarsi. Siamo consapevoli che la crisi sta mettendo anche le imprese nella condizione di dover dosare le proprie uscite per far quadrare i bilanci, ma ci permettiamo anche di auspicare che a quanti credono nel lavoro delle fondazioni non sfuggirà l’importanza, proprio in un momento di crisi, di sostenere la loro attività affinché le classi dirigenti – e soprattutto mi permetto di dire, le classi politiche – abbiano uno strumento in più per fondare su un terreno solido le ricette per uscire dal tunnel.

L’ho detto, infatti, e lo ribadisco: per uscire dalla crisi non basta la tecnica, non bastano le soluzioni economicistiche se queste non sono ancorate a una visione più ampia, se non si nutrono della sedimentazione delle esperienze e non salvaguardano i progressi del passato, ivi compresi quelli maturati a livello del senso comune. Non voglio anticipare nulla di ciò che dirà il nostro ospite, anche perché non ne sarei in grado, ma credo che le sue parole renderanno chiaro quanti ostacoli siano stati frapposti negli anni all’affermazione della libera iniziativa sul determinismo, della libera scelta sulla costrizione, della volontà del popolo sulla pretesa delle oligarchie illuminate, di una concezione del consumo come mezzo di circolazione delle risorse sull’idea del profitto come sterco del diavolo se generato al di fuori dell’egida dello statalismo.

Tutto questo deve essere rivendicato con orgoglio, e difeso in un momento nel quale la crisi potrebbe indurre a metterlo in dubbio. Nell’immaginare proposte di modernizzazione del Paese non dobbiamo dimenticare la strada fin qui percorsa. E, come politica, dobbiamo farci forti di tutto questo e non aver paura di utilizzare questo tempo che ci separa dalla fine della legislatura per riformare le istituzioni, la forma-partito, gli strumenti di selezione della rappresentanza democratica. In caso contrario, se lasciassimo suonare a vuoto quest’ultima chiamata, finiremmo per dar ragione a quegli editorialisti che ancora oggi – basta leggere Sergio Romano sul Corriere della Sera – avanzano il sospetto che i partiti non abbiano capito la posta in gioco.

Noi di Magna Carta siamo in prima linea su queste riforme, e ricordiamo battaglie ancora attualissime come quella per la libera informazione, o quella per la riforma costituzionale della giustizia, alla cui elaborazione e diffusione i giuristi della Fondazione hanno contribuito, come Angelino Alfano ha avuto la gentilezza di ricordare nel suo bel libro “La mafia uccide d’estate”.

Abbiamo insomma una carta d’identità e un patrimonio genetico di tutto rispetto, e da lì dobbiamo ripartire per darci una rotta. Come centrodestra dovremmo impiegare meno tempo a riempire i taccuini dei retroscenisti con la Novella 2000 delle amicizie e inimicizie fra compagni di partito, e più tempo a definire un programma per l’Italia per i prossimi cinque anni e un’idea di Europa. Perché è la crisi dell’Europa che ponendoci di fronte alla prospettiva del fallimento degli Stati ci priva del nostro libero arbitrio, e non vi è nessuna ragione per la quale di fronte a questa crisi i manifesti di Romano Prodi e di Giuliano Amato debbano restare l’unica voce a levarsi, senza risposta e senza alternativa.

Ripartiamo da qui. Magna Carta è pronta e in prima linea a fare la sua parte. Grazie.