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“A CESARE E A DIO” Anagni, 30 novembre 2019

Gaetano carissimo,

sono mortificato per l’inconveniente di una frattura, che mi impedisce fisicamente e … logisticamente di essere presente al bellissimo evento preparato dalla Fondazione Magna Carta ad Anagni.

Il mio dispiacere è la sommatoria sia di non poter stare con tanti amici, sia di non poter ascoltare e dialogare sul livello di impegno proposto, che reputo essere per noi una vera e propria nuova mission nella contemporaneità.

Qualche giorno fa, il 26 ottobre 2019, il quotidiano “Il Foglio” riportava una conversazione con Benedetto XVI, che acutamente ci ammoniva del fatto per cui “La crisi dell’Europa, prima ancora di essere politica, degli stati e delle sue istituzioni, è una crisi dell’uomo. La crisi è innanzitutto antropologica. Un uomo che ha perso ogni riferimento di fondo, che non sa più chi è”.

Che prospettiva nuova, mirabile, affascinante ed entusiasmante questa di poter di pensare “A DIO” e “ALL’UOMO” accogliendo questa sfida.

Forse proprio e soprattutto noi, che osiamo dirci “cattolici”, siamo chiamati a dire a noi stessi e a ogni uomo che è non più rinviabile il momento del giudizio sull’antropologia. Nelle scelte di tutti i giorni, negli slogans di ogni ora o nei fugaci tweet o post alla moda, quale idea di “uomo” è inconsciamente contenuta e pubblicamente proposta?

Un uomo “sacro”, vocato al Mistero, al Destino, “a Dio”, appunto, dunque assoluto e “sacro” in ogni suo istante, in ogni sua circostanza, anche e soprattutto se fragile, malata, fallita, debole, complessa, in crisi, difficile?

O un “uomo” ridotto, a valore variabile, degno di attenzione solo se funzionale al sistema economico, performante secondo i parametri della mentalità dominante?

Quando il 16 dicembre 2006 la Corte d’Appello di Milano respingeva il ricorso di Beppino Englaro che voleva togliere alimentazione e idratazione assistite alla figlia Eluana, motivava il diniego “poiché la medesima Corte non ha alcuna possibilità di accedere a distinzioni tra “vite degne e non degne di essere vissute”, …. Il bilanciamento tra il bene giuridico della vita, da un lato, e quelli della dignità e dell’autodeterminazione della persona, dall’altro lato, non può che risolversi a favore del primo”. Al giudice milanese il bivio antropologico sotteso alla decisione era molto chiaro, un bivio che, però, sarebbe stato presto imboccato in senso inverso.

Come vivere questa sfida essenziale, che fa intravvedere tanto un nuovo sterminato campo di vivace dialogo con tutti, quanto un rinnovato significato di una presenza pubblica di chi, come noi, ha avuto la fortuna (rectius: la “Grazia”) di incontrare Qualcuno che ci guarda e accoglie ora come un bene assoluto?

Come questa sfida esistenziale, pubblicamente esistenziale, può rifondare anche una inedita e attesa presenza politica, come si chiede anche il seminario proposto?

Nella piccola e atipica “fraternità” dell’Osservatorio parlamentare “Vera lex?”, ci ricordiamo 1

spesso la definizione di “legge” scolpita da San Tommaso: una “legge” – scrive l’Aquinate – “non è che una prescrizione della ragione, in ordine al bene comune, promulgata dal soggetto alla guida della comunità” (I pars, q. 90, a. 4).
Una decisione politica, dunque, sceglie sempre qualcosa ritenuto un “bene” per tutti, cioè un “bene comune”, e condiziona sempre l’intera comunità civile verso quello stesso “valore”.

In altri termini, una decisione politica implica sempre una “antropologia” e sempre indirizza – che lo si voglia o no – la società verso una qualche “idea di uomo”.

Mi sembra che cercare, assieme fra noi e con tutti, di comprendere questa “filigrana” nelle scelte legislative e politiche possa essere un contributo pubblico destinato a non essere offerto invano. Anche perché sempre più il “diritto” viene usato per veicolare un cambio di cultura nel popolo italiano. E negli ultimi 10-12 anni vediamo affermarsi sempre più chiaramente un “nuovo diritto”, che discende da tratti antropologici ben distinguibili.

“Il diritto e la tecnica – scriveva il costituzionalista fiorentino Andrea Simoncini su L’Osservatore romano del 30 maggio 2019 – sono diventati gli strumenti fondamentali per <tagliare> i legami. E per questo diritto e tecnica oggi sono i baluardi della libertà moderna”, concepita essenzialmente come l’affrancarsi dalle relazioni umane e più in generale dalla dipendenza dal reale.

Se la “libertà da” è il primo tratto antropologico del “nuovo diritto”, essa necessita della negazione sia della “responsabilità” verso gli altri, sia lo stesso riconoscimento della realtà.

Altresì, da questa idea di libertà, che non vuole relazioni e rifiuta responsabilità, deriva un modello di “uomo SOLO”, che è l’altra grande cifra antropologica sottesa al “nuovo diritto”.

Folgorante, al riguardo, l’intuizione di Stefano Zamagni dalle colonne de L’Osservatore Romano del 22 maggio scorso: “Noi viviamo l’epoca della seconda secolarizzazione. La prima era comportarsi etsi deus non daretur. Questa seconda secolarizzazione è ben resa da quest’altro aforisma: bisogna comportarsi etsi communitas non daretur, come se la comunità non esistesse. L’individualismo c’era anche prima, all’epoca della prima secolarizzazione, ma oggi si è accasato con il libertarismo il cui slogan è volo ergo sum, voglio dunque sono, sono perché voglio”. (Stefano Zamagni, 22 maggio 2019)

L’acuta intuizione di Zamagni svela un terzo essenziale tratto dell’antropologia pretesa dal “nuovo diritto”. Un uomo che non riconosce il reale, né i legami con altro da sé, consiste solo in sé stesso, confida solo in quel che “vuole”. Di qui l’iperbole della AUTODETERMINAZIONE, che sta divenendo il criterio sempre più assoluto per misurare la DIGNITA’ stessa della vita umana.

Così, il diritto alla vita diventa diritto a una vita dignitosa, con almeno due a immediate conseguenze:

–  muta geneticamente il ruolo delle istituzioni e del Servizio Sanitario Nazionale, in particolare, perché l’“UOMO SOLO” deve pretendere tutto dallo Stato e dal potere pubblico.

–  inoltre, l’“UOMO SOLO” finisce per autodeterminarsi secondo la mentalità dominante, secondo la moda. Perciò la dignità finisce per diventare sinonimo di efficienza e di “successo”.

Chi invece non ha successo, o non lo ha più, per fallimenti, inabilità, povertà, fragilità diviene uno scarto. Può essere scartato. Anzi, viene indotto a desiderare di essere scartato.

Questo “nuovo diritto” è in realtà il “nuovo diritto di un uomo minore”. *

Le tracce della antropologia dell’uomo minore nel “nuovo diritto” sono molte e forse dovremo dedicare molta più attenzione a comprenderne maggiormente l’estensione e la pervasività”

Ad esempio, il “nuovo diritto” sta riscrivendo il modello della famiglia, come è avvenuto con la legge n. 55/2015, che ha drasticamente ridotto i termini per il divorzio ad appena sei mesi nel caso di separazione consensuale, avendo come proprio precipuo scopo la “liberazione” dai legami più importanti, svolgendo more geometrico l’idea di libertà come solitudine.

La stessa legge 55 ha anche modificato geneticamente il rapporto matrimoniale, perché eliminando la necessità di un procedimento avanti a un giudice, il “nuovo diritto” ha derubricato il legame matrimoniale a fatto privato, negando, così, l’aspetto di “responsabilità pubblica” del matrimonio, come assunzione di impegni verso i figli e verso la comunità civile.

La riscrittura della “famiglia” è poi continuata con la legge 20 maggio 2016 n. 76, nota come Legge Cirinnà, che ha introdotto le unioni civili. Senza minimamente voler entrare in riflessioni etiche, è oggettivo che questo modello non riconosce espressamente l’obbligo di fedeltà né quello di collaborazione, e viene sostanzialmente equiparata a una “famiglia” anche una “convivenza civile”, la quale si vuole caratterizzare per la mancanza di una promessa stabilità e formali obblighi di responsabilità nei confronti del partner e dei figli.
Disciplinando, poi, anche la convivenza tra persone dello stesso sesso, si è fatto un passo decisivo nell’indicare come “modello familiare” un legame non riconosciuto per degli elementi naturali oggettivi, ma sulla base della proiezione dei desiderata soggettivi dei singoli.
Per il nuovo diritto il “bene” è ciò che viene desiderato, non la comprensione della realtà oggettiva.

Giustamente tu hai spesso attirato l’attenzione di molti di noi sullo “snodo” della legge 219/17, la cui portata antropologicamente eversiva è stata a lungo negata.
Con tale legge viene affermato un uomo a dignità variabile, giacché il diritto alla autodeterminazione diviene lo scopo della legge, mentre il diritto alla vita viene distinto dalla dignità della stessa.
Inoltre, il reale è tenuto per legge (!) a debita distanza. Con la disciplina sulle DAT, comprensive delle “terapie” idratazione e alimentazione assistite, si è voluto attribuire– e sono le parole del Cardinale Bagnasco sul punto – “valore praticamente definitivo a dichiarazioni, senza tener conto delle età della vita, della situazione, del momento di chi le redige: l’esperienza insegna che questi sono elementi che incidono non poco sul giudizio”.
Questa legge pretende, poi, che l’uomo sia “solo”: i familiari e il medico divengono figure staccate e passive, che non devono alterare l’“autodeterminazione”, quella magari espressa in altri contesti anche temporalmente lontani, senza la “provocazione” della realtà.
Il legislatore del dicembre 2017 ha, poi, avviato un cambio di direzione del Servizio Sanitario Nazionale di fronte a situazioni di sofferenza, di disabilità, di apparente inutilità delle persone. L’oggetto della tutela ora non è più il “diritto alla vita”, bensì il non coincidente “diritto a una vita dignitosa”. Lo Stato può o -meglio- deve proteggere solo una vita dignitosa, non più la vita in quanto tale.

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Il “nuovo diritto” pretende di riscrivere anche la “vita” e la “morte”, per affermare un “uomo minore”.

Nell’indifferenza dei più, il passo decisivo del “nuovo diritto” è poi arrivato, puntuale, poco dopo. Sospinto, ancora una volta, dalla Giurisprudenza, che ha preteso l’inserimento nel Servizio sanitario nazionale della procedura medicalizzata di aiuto al suicidio.

Prima con l’inedita ordinanza della Corte costituzionale n. 207 dell’ottobre 2018 e poi con la sentenza n. 242 del 25 novembre 2019, riguardanti la conformità alla Costituzione della norma di cui all’art. 580 del codice penale, che sanziona(va) come reato l’aiuto al suicidio, pronunciata sulla eccezione sollevata dalla Corte di assise di Milano nel processo a carico dell’on. Cappato sempre sul caso del dj Fabo.
Al convegno delle associazioni dell’11 luglio 2019, Tu hai giustamente chiosato l’ordinanza, facendo presente quel che era successo: la Corte costituzionale ha posto una domanda semplice semplice: “Se avete già previsto di far morire una persona di fame e di sete per l’interruzione dei presidi di sostegno vitale tramite la condotta attiva di terzi, considerando bere e mangiare come terapie, per quale motivo la stessa persona non può scegliere in che modo morire?” (Gaetano Quagliariello, in. “Diritto” o “condanna” a morire per “vite inutili”?, AA.VV., a cura del Comitato Polis Pro Persona, ed. Cantagalli, 2019)
Pertanto, al § 10 dell’ordinanza 207/19, ripreso nella sentenza 242/19, la Consulta pretendeva che entro il 24 settembre il Parlamento approvasse: “una disciplina delle condizioni di attuazione della decisione di taluni pazienti di liberarsi delle proprie sofferenze … anche attraverso la somministrazione di un farmaco atto a provocare rapidamente la morte, (…)”.
La Consulta ha dunque voluto, seppur con modulazioni contraddittorie e con sfumature non identiche fra l’ordinanza e la sentenza, ha iniziato a porre addirittura sul piano costituzionale “la correlazione fra autodeterminazione e dignità umana”. (cfr. Alfredo Mantovano, in “Diritto” o “condanna” a morire per “vite inutili”?, cit.).

Il 25 settembre 2019 molte associazioni -che si erano riunite l’11 settembre precedente con il Cardinale Bassetti contro il pericolo di un “piano inclinato” contro l’uomo- avevano commentato il “comunicato stampa” della Corte costituzionale, che annunciava la decisione di parziale legalizzazione del suicidio medicalmente assistito, con parole che mi sembrano particolarmente pertinenti con i lavori seminariali di Anagni.

“La sentenza della Corte costituzionale del 25 settembre sul suicidio medicalmente assistito – scrivevano – rappresenta un epocale giro di boa per la Repubblica italiana. La Consulta ha infatti concluso la lunga marcia laicista per eliminare l’«eccezione italiana» ammirata da Giovanni Paolo II.

“Evidenze ovvie fino a qualche decennio fa sono crollate. Macerie al suolo. Ora le istituzioni – prosegue la nota congiunta- non sono più per una persona ritenuta sempre inviolabile, in ogni istante della vita. Invece, una esistenza sofferente, fragile, malata (diciamo pure inutile!) è divenuta disvalore «intollerabile» e il Servizio Sanitario dovrebbe organizzare l’«esecuzione» della volontà di morire”. “Questo sovvertimento antropologico -chiosano ancora gli operatori no profit- viene imposto esaltando il dogma dell’«autodeterminazione assoluta» di un singolo lasciato solo col suodolore: Ma in pratica il più debole viene fatto sentire un peso, indotto «a rinunciare a tutto e spezzare ogni legame» (Papa Francesco, 2.9.19).

Quale è ora il nostro compito?

A me sembra innanzitutto quello di capire quale sia la partita! È in gioco una riduzione dell’umano perché avanza un’idea di dignità coincidente con quella di un effimero successo, di una provvisoria efficienza.

Ma corrisponde forse al cuore di ognuno essere considerati così?

Siamo invece testimoni di uno spettacolo umano, che vive in molti “luoghi umani”, in molte opere, che in questi mesi non sono più rimasti a guardare, ma sono scesi in campo proprio su quell’essenziale terreno “pre-politico” evocato dal Papa emerito a fine ottobre. Esistono contesti umani in cui la fragilità, la malattia, il limite è occasione per ascoltare e accogliere un grido ancor più acuto verso il Significato dell’esistenza. Noi siamo fortunati testimoni della possibilità di un amore all’uomo concreto che fa sobbalzare il cuore. Anche e soprattutto nelle difficoltà.

L’alternativa all’antropologia triste, tragica, pretesa dall’individualismo del “nuovo diritto” non è una morale. Men che meno un moralismo, ancora più grigio. Ma una bellezza umana, che commuove il cuore e dilata l’intelligenza. Che corrisponde più pienamente all’umano. Che può restituire “ALL’UOMO” ciò che è pienamente umanoo: una valorizzazione di ciascuno che è testimonianza “A DIO”.

E sono sempre più persuaso che una rinnovata e vissuta appartenenza a questi luoghi umani anche di chi ama la “polis” ci consentirà intelligenza, tenacia, pazienza nuove per comprendere per noi e per tutti che ora la partita pubblica è arrivata all’essenziale: è arrivata alla necessità della chiarezza e della scelta antropologiche.

Il programma e i protagonisti del seminario di Anagni saranno un passo importante per questa nuova strada cui siamo chiamati

Un saluto carissimo, che vorrai estendere ai tanti amici presenti.

Padova, 29-30 novembre 2019