18 Dicembre 2007  

L’io non si attenua, ma si realizza nella sua pienezza

Redazione

 

La nuova lettera enciclica Spe salvi di Papa Benedetto XVI è così elo­quente, così persuasiva e perciò av­vincente, così bella di una bellezza che ri­luce dal suo interno, da dentro le parole e le frasi, ma che sta prima di tutte le pa­role, che il solo esercizio degno dovrebbe essere quello di leggerla e rileggerla.
C’è in essa – se posso permettermi – un gu­sto del vivere dove l’intelligenza e la for­za argomentativa attingono a un’eviden­za che ha già cominciato a mostrarsi nel­l’esperienza umana, qui e ora, e che atte­sta nella realtà quello che il genio di Pla­tone riuscì a intuire, quan­do mise in bocca a Socra­te morente (ma quella era solo letteratura) le famose parole: «Ricorda, Critone: dobbiamo un gallo a E­sculapio ». Come si potreb­be, del resto, parlare della speranza se il suo conte­nuto non avesse già co­minciato a manifestarsi?
Saremmo dei pazzi, o al più dei visiona­ri.
La lettera del Papa contiene diversi giu­dizi e un’acuta analisi circa le trasforma­zioni che l’idea di speranza ha subìto, spe­cialmente nell’epoca moderna.
Che co­s’è la speranza? Un amico sacerdote me l’ha riassunta così: la speranza è il senti­mento che domina l’animo del centurio­ne evangelico dal momento in cui ha la­sciato Gesù (che gli aveva garantito la gua­rigione del servo malato) fino al momen­to in cui, entrato nel suo alloggio, non con­stata l’avvenuta guarigione. Mentre se ne andava solo per la strada, quel centurio­ne era forse dubbioso? Diceva tra sé: «Chissà se sarà vero»? No. Noi lo vediamo camminare pieno di gioiosa fiducia, cer­to che Gesù ha compiuto ciò che aveva detto. Quel centurione aveva tutte le ra­gioni per credere che il miracolo era sta­to compiuto. E perché aveva queste ra­gioni? Perché incontrando Cristo aveva incontrato sé stesso fino in fondo, fino a quel fondo in cui ‘io’ non è più ‘io’, ma un ‘tu’, una compagnia. Ecco perché quel centurione, mentre se ne andava so­lo, in realtà sapeva di non essere solo.
Sa­peva che non sarebbe stato mai più solo. Ecco perché era fiducioso nella guarigio­ne del servo: perché il primo miracolo, il più grande, Gesù l’aveva già fatto a lui.
Tutta la Spe salvi è piena di questa stessa fiducia, e la comunica a noi con sempli­cità e profondità. Benedetto XVI conosce molto bene la modernità, che ha ri­dotto l’idea di salvezza a qualco­sa di individuale, ossia di intimi­stico, di privato. A qualcosa che non opera nella realtà. Ma noi ci salveremo insieme. In que­sta affermazione non c’è nes­sun comunitarismo, nessu­na idea collettivista. C’è, in­vece, il senso del legame tra l’uomo e Dio. Ciò che l’uo­mo, nei secoli, ha rappre­sentato attraverso immagi­ni, in realtà è un grido del cuore che non ha immagini.
È un balbettio, un ‘gemito i­nesprimibile’, con il quale noi esprimiamo il desiderio di vive­re eternamente, ma non secondo l’immagine di vita eterna che pos­siamo costruirci da soli. È qualco­­s’altro, qualcosa di cui possiamo dire solo che è altro, altro da tutto. Questo al­tro, che è Dio stes­so, si è fatto cono­scere, è diventato un uomo registra­to all’anagrafe, cresciuto a Naza­reth e vissuto ne­gli ultimi tre anni della sua vita tra Cafarnao e Gerusalemme. Lui ha reso più limpida la natura del nostro grido – che è, appunto, nostro, come nostro è il Padre: ‘nostro’ perché attiene alla ve­rità ultima di ciascun uomo.
Individualismo e intimismo na­scono da una spersonalizzazio­ne di cui l’uomo è stato fatto og­getto nell’età moderna. Per capi­re il noi della speranza (con gli e­sempi enormi che la storia ci dà, dai martiri alle rinunce di tanti san­ti, come Francesco d’Assisi) non dobbiamo pensare a un’attenuazio­ne dell’io, ma alla sua pienezza: è nel­la pienezza dell’io che si rivela più a­pertamente la sua dipendenza. Nell’i­dea di una salvezza comune non c’è, dunque, alcun comunitarismo: c’è la certezza semplice del centurione, che cammina, nella sera, in una terra stra­niera, ma felice perché sa di non essere mai più solo, e sa che questo è vero per tutti, per sempre.

(da “Avvenire”)