L’io non si attenua, ma si realizza nella sua pienezza
La nuova lettera enciclica Spe salvi di Papa Benedetto XVI è così eloquente, così persuasiva e perciò avvincente, così bella di una bellezza che riluce dal suo interno, da dentro le parole e le frasi, ma che sta prima di tutte le parole, che il solo esercizio degno dovrebbe essere quello di leggerla e rileggerla.
C’è in essa – se posso permettermi – un gusto del vivere dove l’intelligenza e la forza argomentativa attingono a un’evidenza che ha già cominciato a mostrarsi nell’esperienza umana, qui e ora, e che attesta nella realtà quello che il genio di Platone riuscì a intuire, quando mise in bocca a Socrate morente (ma quella era solo letteratura) le famose parole: «Ricorda, Critone: dobbiamo un gallo a Esculapio ». Come si potrebbe, del resto, parlare della speranza se il suo contenuto non avesse già cominciato a manifestarsi?
Saremmo dei pazzi, o al più dei visionari.
La lettera del Papa contiene diversi giudizi e un’acuta analisi circa le trasformazioni che l’idea di speranza ha subìto, specialmente nell’epoca moderna.
Che cos’è la speranza? Un amico sacerdote me l’ha riassunta così: la speranza è il sentimento che domina l’animo del centurione evangelico dal momento in cui ha lasciato Gesù (che gli aveva garantito la guarigione del servo malato) fino al momento in cui, entrato nel suo alloggio, non constata l’avvenuta guarigione. Mentre se ne andava solo per la strada, quel centurione era forse dubbioso? Diceva tra sé: «Chissà se sarà vero»? No. Noi lo vediamo camminare pieno di gioiosa fiducia, certo che Gesù ha compiuto ciò che aveva detto. Quel centurione aveva tutte le ragioni per credere che il miracolo era stato compiuto. E perché aveva queste ragioni? Perché incontrando Cristo aveva incontrato sé stesso fino in fondo, fino a quel fondo in cui ‘io’ non è più ‘io’, ma un ‘tu’, una compagnia. Ecco perché quel centurione, mentre se ne andava solo, in realtà sapeva di non essere solo.
Sapeva che non sarebbe stato mai più solo. Ecco perché era fiducioso nella guarigione del servo: perché il primo miracolo, il più grande, Gesù l’aveva già fatto a lui.
Tutta la Spe salvi è piena di questa stessa fiducia, e la comunica a noi con semplicità e profondità. Benedetto XVI conosce molto bene la modernità, che ha ridotto l’idea di salvezza a qualcosa di individuale, ossia di intimistico, di privato. A qualcosa che non opera nella realtà. Ma noi ci salveremo insieme. In questa affermazione non c’è nessun comunitarismo, nessuna idea collettivista. C’è, invece, il senso del legame tra l’uomo e Dio. Ciò che l’uomo, nei secoli, ha rappresentato attraverso immagini, in realtà è un grido del cuore che non ha immagini.
È un balbettio, un ‘gemito inesprimibile’, con il quale noi esprimiamo il desiderio di vivere eternamente, ma non secondo l’immagine di vita eterna che possiamo costruirci da soli. È qualcos’altro, qualcosa di cui possiamo dire solo che è altro, altro da tutto. Questo altro, che è Dio stesso, si è fatto conoscere, è diventato un uomo registrato all’anagrafe, cresciuto a Nazareth e vissuto negli ultimi tre anni della sua vita tra Cafarnao e Gerusalemme. Lui ha reso più limpida la natura del nostro grido – che è, appunto, nostro, come nostro è il Padre: ‘nostro’ perché attiene alla verità ultima di ciascun uomo.
Individualismo e intimismo nascono da una spersonalizzazione di cui l’uomo è stato fatto oggetto nell’età moderna. Per capire il noi della speranza (con gli esempi enormi che la storia ci dà, dai martiri alle rinunce di tanti santi, come Francesco d’Assisi) non dobbiamo pensare a un’attenuazione dell’io, ma alla sua pienezza: è nella pienezza dell’io che si rivela più apertamente la sua dipendenza. Nell’idea di una salvezza comune non c’è, dunque, alcun comunitarismo: c’è la certezza semplice del centurione, che cammina, nella sera, in una terra straniera, ma felice perché sa di non essere mai più solo, e sa che questo è vero per tutti, per sempre.
(da “Avvenire”)