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L’Italia non è un Paese per giovani. Uno su tre, in media, non ha un lavoro, un’occupazione. Così indica l’ultimo bollettino pubblicato dall’Istat (1° marzo 2011 con riferimento a gennaio 2011).  Gli occupati, spiega l’istituto nazionale di statistica, sono arrivati alla cifra di 22 milioni 831 mila, in diminuzione di un altro 0,4% rispetto al mese di dicembre 2010 (con una riduzione, in altre parole, di altri 83 mila posti di lavoro). Il tasso di occupazione è sceso dello 0,2% rispetto al mese di  dicembre 2010 e dello 0,4% rispetto al mese di gennaio 2010. Gli inattivi tra i 15 e i 64 anni d’età sono aumentati dello 0,5% rispetto al mese di dicembre 2010, quantificabili in 80 mila unità in più, con un leggero passo in avanti anche del tasso di inattività che si è portato al 37,8% dopo tre mesi di relativa stabilità al 37,6%. Il tasso di disoccupazione ha così raggiunto il livello dell’8,6%, con un diagramma “generazionale” che colpisce la tenera età: infatti, il tasso di disoccupazione giovanile, quello cioè misurato tra i soggetti con un’età compresa tra i 15 e i 24 anni, ha raggiunto il tetto del 29,4%. Ciò vuole dire appunto, come si accennava, che (quasi) un giovane su tre non ha lavoro, né un’occupazione. Il dato è certamente da attribuire agli effetti della crisi economica. Una crisi che sta durando più dell’attesa, e con la quale il mondo del lavoro dovrà confrontarsi ancora per qualche tempo. I primi tiepidi segnali di ripresa sono cominciati a evidenziarsi; eppure tra i giovani la disoccupazione resta alta, troppo alta.

Lo studio che segue, nel tentativo di focalizzare la difficile problematica della “occupazione giovanile”, muove sulle seguenti direttrici:
1. la prima parte contiene un quadro statistico sulle componenti del mercato del lavoro italiano (popolazione, forze di lavoro, occupati, disoccupati, inattivi). Prende in esame i dati aggiornati dell’Istat al 30 settembre 2010 (ultima “Rilevazione delle forze di lavoro”, di cui al Comunicato del 21 dicembre 2010). L’analisi contiene un confronto con i dati relativi al III trimestre 2004 e al II trimestre 2008, per argomentare tesi in merito agli effetti dell’ultima riforma sul mercato del lavoro (la Riforma Biagi del 2003) e alla tenuta del sistema occupazione all’urto della crisi economica;
2. la seconda parte contiene un’analisi del vigente “mercato del lavoro” e prende in considerazione le diverse tipologie di impiego possibili (contratti di lavoro, settore pubblico e settore privato) e le diverse tutele garantite sul lavoro (in costanza di un contratto di lavoro) e fuori da un rapporto di lavoro (disoccupazione, ecc.). L’analisi vuole evidenziare le caratteristiche occupazionali delle giovani generazioni rispetto a quelle meno giovani e le conseguenze che queste producono in termini di posti di lavoro;
3. la terza parte, infine, contiene alcune proposte di riforma. Tre in particolare:

a. la prima richiede una semplificazione della legislazione sul lavoro. Oggi c’è un numero veramente alto di formule contrattuali: oltre al contratto di lavoro subordinato, ci sono co.co.co., mini co.co.co., lavoratori a progetto, lavoro accessorio, somministrazione di lavoro, e via dicendo. Ciascuna di queste tipologie di contratti di lavoro esiste (ed ha motivo di esistere) perché contiene una “deroga” a qualche vincolo del contratto di lavoro subordinato: perché, allora, non legittimare queste deroghe e mantenere in vita un solo contratto di lavoro? La semplificazione auspicata dovrebbe dar vita solo a “due” tipi di contratti di lavoro subordinato: “dipendente” e “indipendente”. Diversamente dall’ipotesi di riforma che oggi va sotto il nome del “contratto unico” (Ichino, Boeri, ed Altri), la (ulteriore) scansione in due sole tipologie di modalità di esecuzione della prestazione lavorativa avrebbe un doppio pregio: primo, fortificare quella flessibilità in entrata oggi già presente sul mercato del lavoro grazie soprattutto alla riforma Biagi, attribuendo ad essa un maggiore vigore in termini di chiarezza e semplificazione; secondo, preconizzare una flessibilità in uscita oggi osteggiata e ancora troppo celebrata quale caposaldo della “buona” occupazione (appunto, per esempio, nell’idea di riforma del “contratto unico”);

b. la seconda richiede la riduzione degli oneri economici sul lavoro (meno contributi, meno tasse). Se esistono diverse tipologie di contratti di lavoro è anche perché ognuna possiede una propria disciplina previdenziale; il subordinato è il più caro (oltre il 50%); le co.co.co. costano di meno (attorno al 30%); i voucher ancora meno (buoni fissi da 10 euro); il lavoro autonomo è compreso nel prezzo delle prestazioni.
c. la terza richiede la riduzione degli oneri giuridici sul lavoro (flessibilità in uscita). Deve essere rivista la disciplina sui licenziamenti e sul principio di “stabilità” del posto di lavoro (articolo 18). La “stabilità” (articolo 18) va spostata dalle aziende al mercato del lavoro.

PRIMA PARTE: QUADRO STATISTICO

La popolazione in età lavorativa
Al 30 settembre 2010 (rilevazioni dell’Istat relative al III trimestre dell’anno 2010) l’Italia presenta una popolazione di 51 milioni 602 mila di over-15enni. I giovani (con età compresa tra i 15 e i 24 anni) sono 6 milioni 67 mila, circa il 12% della popolazione dei lavoratori (cioè degli over-15enni); i soggetti con età compresa tra i 25 e i 34 anni sono 7 milioni 626 mila, cioè il 15% della popolazione di riferimento; quelli con età compresa tra i 35 e 54 anni sono 18 milioni 474 mila, cioè il 36% circa. I giovani con età compresa tra i 15 e i 34 anni, in complesso, sono dunque 13 milioni 693 mila, ossia il 26,54% della popolazione considerata. La popolazione in età lavorativa – quella con età compresa tra 15 e 64 anni, considerando che 65 anni è l’età di pensionamento – ammonta a 39 milioni 565 mila individui, con una netta maggioranza di soggetti appartenenti alla classe 35-64 anni, pari a 25 milioni 871 mila (ossia il 65,39%); 7 milioni 626 mila sono i giovani di età compresa tra 25 e 34 anni (il 19,27%); 6 milioni 68 mila quelli con età inferiore tra 15 e 24 anni (il 15,34%). La popolazione in età lavorativa è per il 13% circa in possesso del titolo di studio di laura e post-laurea; il 41% circa ha un diploma, il 36% circa la licenza media e il restante 10% la licenza elementare o nessun titolo di studio.

Le forze di lavoro
Al 30 settembre 2010 le forze di lavoro contano 24 milioni 653 mila individui in maggioranza maschi (che sono 14 milioni 601 mila, ossia il 59,23%, mentre le femmine si contano in 10 milioni 52 mila, ossia 40,77%). Le forze di lavoro, dunque, rappresentano il 48% circa della popolazione in età lavorativa; il restante 52,23% rappresenta le “non forze di lavoro”. I giovani (con età compresa tra i 15 e i 24 anni) rappresentano una quota minima delle forze di lavoro: circa il 7%, con una numerosità di 1 milione 650 mila soggetti. Gli individui di età compresa tra 25 e 34 anni sono più numerosi, ossia 5 milioni 558 mila circa il 23%; i soggetti di età compresa tra 35 e 54 anni sono 14 milioni 293 mila, cioè il 58% circa. Raggruppando le prime due categorie, i giovani con età compresa tra i 15 e i 34 anni sono 7 milioni 208 mila, ossia il 29% circa. Con riferimento al titolo di studio posseduto, le forze di lavoro si suddividono in: soggetti in possesso di un diploma per circa il 47%; soggetti in possesso di licenza media per circa il 31%; soggetti in possesso di titolo di laurea e post laurea per circa il 17%; infine, soggetti senza alcun titolo di studio con licenza elementare per circa il 5%.

Le non forze di lavoro
Al 30 settembre 2010 le non forze di lavoro ammontano a 26 milioni 949 mila individui, in maggioranza femmine (che sono 16 milioni 718 mila ossia il 62% circa, mentre i maschi sono 10 milioni 232 mila ossia il 38% circa). Le non forze di lavoro, dunque, rappresentano oltre il 52% della popolazione in età lavorativa; il restante 48% circa è rappresentato dalle “forze di lavoro”. I giovani (con età compresa tra i 15 e i 24 anni) rappresentano una quota di oltre il 16% delle non forze di lavoro, con una numerosità di 4 milioni 417 mila soggetti. Gli individui di età compresa tra 25 e 34 anni sono meno numerosi, ossia 2 milioni 68 mila per circa l’8% del totale delle non forze di lavoro; i soggetti di età compresa tra 35 e 54 anni sono 4 milioni 181 mila, cioè il 16% circa. Raggruppando le prime due categorie, i giovani con età compresa tra i 15 e i 34 anni sono 6 milioni 485 mila, ossia il 24% circa. Con riferimento al titolo di studio posseduto, le non forze di lavoro si suddividono in: soggetti in possesso di licenza media per oltre il 44%; soggetti in possesso di un diploma per circa il 32%; soggetti non in possesso di titolo di studio o con licenza elementare per circa il 17%; infine soggetti in possesso di titolo di laurea e post laurea per meno del 7%.

Il tasso di attività
Al 30 settembre 2010 il tasso di attività è pari al 47,8%; di conseguenza, il tasso di inattività è il 52,2%. La quota più alta del tasso di inattività è relativa ai maschi: il 58,8%; il 37,6% è la quota delle femmine. I giovani (con età compresa tra i 15 e i 24 anni) hanno un tasso di attività del 27,2%; quelli di età compresa tra 25 e 34 anni del 72,9%; i soggetti di età compresa tra 35 e 54 anni del 77,4%; i soggetti di età compresa tra 55 e 64 anni del 37,8%. I soggetti in età lavorativa (tra 15 e 64 anni) hanno un tasso di attività del 61,4%. Con riferimento al titolo di studio posseduto, il tasso di attività è tendenzialmente superiore nei soggetti in possesso di diploma e di un titolo di laurea e post-laurea; meno alto è nel caso di soggetti in possesso di licenza media, ancora più basso nel caso di soggetti senza alcun titolo di studio o con licenza elementare.

Gli occupati
Al 30 settembre 2010 gli occupati sono in tutto 22 milioni 789 mila; per trovare un dato più basso occorre risalire al I trimestre 2006, quando l’Istat ne ha contati 22 milioni 747 mila. Il II trimestre 2008, quando la crisi economica diventava realtà assai tangibile, gli occupati sono al massimo livello: 23 milioni 581 mila. È l’apice di una crescita dell’occupazione; da allora al III trimestre 2010, in poco più di due anni, gli occupati si riducono di 792 mila unità. A farne le spese sono state soprattutto le categorie dei giovani, ossia i lavoratori appartenenti alle due classi di età 15-24 anni e 25-34 anni. I lavoratori appartenenti alle classi di età 35-54 anni e 55-64 anni, invece, addirittura crescono in numerosità. Il dato è interessante e merita di essere osservato con attenzione, perché può fornire informazioni sulla maniera in cui la crisi economica è andata a colpire l’occupazione.

Al II trimestre dell’anno 2008, gli occupati sono 23 milioni 581 mila cosi suddivisi:
a) classe di età 15-24 anni, 1 milione 526 mila (il 6,47% del totale);
b) classe di età 25-34 anni, 5 milioni 710 mila (il 24,21% del totale);
c) classe di età 35-54 anni, 13 milioni 446 mila (il 57,02% del totale);
d) classe di età 55-64 anni, 2 milioni 486 mila (il 10,54% del totale);
e) classe di età oltre i 65 anni, 413 mila (l’1,75% del totale).

Al III trimestre dell’anno 2010, gli occupati sono 22 milioni 789 mila cosi suddivisi:
f) classe di età 15-24 anni, 1 milione 243 mila (il 5,45% del totale);
g) classe di età 25-34 anni, 4 milioni 955 mila (il 21,74% del totale);
h) classe di età 35-54 anni, 13 milioni 534 mila (il 59,40% del totale);
i) classe di età 55-64 anni, 2 milioni 706 mila (l’11,87% del totale);
j) classe di età oltre i 65 anni, 351 mila (l’1,54% del totale).

Tra il II trimestre dell’anno 2008 e il III trimestre dell’anno 2010, gli occupati sono passati da 23 milioni 581 mila a 22 milioni 789 mila, con una riduzione (perdita) di 792 mila unità, così ripartiti:
k) classe di età 15-24 anni, gli occupati sono passati da 1 milione 526 mila a 1 milione 243 mila, con una riduzione di 283 mila unità;
l) classe di età 25-34 anni, gli occupati sono passati da 5 milioni 710 mila a 4 milioni 955 mila, con una riduzione di 755 mila unità;
pertanto nella classe di età 15-34 anni (somma delle prime due classi) gli occupati sono passati da 7 milioni 236 mila a 6 milioni 198 mila, con una riduzione di 1 milione 38 mila unità;
m) classe di età 35-54 anni, gli occupati sono passati da 13 milioni 446 mila a 13 milioni 534 mila con un aumento di 88 mila unità;
n) classe di età 55-64 anni, gli occupati sono passati da 2 milioni 486 mila a 2 milioni 706 mila con un aumento di 62 mila unità;
pertanto nella classe di età 35-64 anni (somma delle due classi precedenti) gli occupati sono passati da 15 milioni 932 mila a 16 milioni 240 mila, con un aumento di 308 mila unità;
o) classe di età oltre i 65 anni, gli occupati sono passati da 413 mila a 351 mila con un riduzione di 220 mila unità.

Osservando i dati sull’occupazione degli anni precedenti (cfr. Tavola 9), si nota che il livello più alto di occupazione dei giovani (in termini quantitativi) risale al III trimestre 2004.

In dettaglio, al III trimestre dell’anno 2004 gli occupati sono 22 milioni 485 mila cosi suddivisi:
p) classe di età 15-24 anni, 1 milione 739 mila (il 7,73% del totale);
q) classe di età 25-34 anni, 5 milioni 979 mila (il 26,59% del totale);
r) classe di età 35-54 anni, 12 milioni 278 mila (il 54,61% del totale);
s) classe di età 55-64 anni, 2 milioni 166 mila (il 9,63% del totale);
t) classe di età oltre i 65 anni, 324 mila (l’1,44% del totale).

Tra il III trimestre dell’anno 2004 e il II trimestre dell’anno 2008, gli occupati sono passati da 22 milioni 485 mila a 23 milioni 581 mila, con una crescita di 1 milione 96 mila unità, così ripartiti:
u) classe di età 15-24 anni, gli occupati sono passati da 1 milione 739 mila a 1 milione 526 mila, con una riduzione di 213 mila unità;
v) classe di età 25-34 anni, gli occupati sono passati da 5 milioni 979 mila a 5 milioni 710 mila, con una riduzione di 269 mila unità;
pertanto nella classe di età 15-34 anni (somma delle prime due classi) gli occupati sono passati da 7 milioni 718 mila a 7 milioni 236 mila, con una riduzione di 482 mila unità;

w) classe di età 35-54 anni, gli occupati sono passati da 12 milioni 278 mila a 13 milioni 446 mila con un aumento di 1 milione 168 mila unità;
x) classe di età 55-64 anni, gli occupati sono passati da 2 milioni 166 mila a 2 milioni 486 mila con un aumento di 320 mila unità;
pertanto nella classe di età 35-64 anni (somma delle due classi precedenti) gli occupati sono passati da 14 milioni 444 mila a 15 milioni 932 mila, con un aumento di 1 milione 488 mila unità;
y) classe di età oltre i 65 anni, gli occupati sono passati da 324 mila a 413 mila con un riduzione di 89 mila unità.

Tra il III trimestre dell’anno 2004 e il III trimestre dell’anno 2010 gli occupati sono passati da 22 milioni 485 mila a 22 milioni 789 mila, con un aumento di 304 mila unità, così ripartiti:
z) classe di età 15-24 anni, gli occupati sono passati da 1 milione 739 mila a 1 milione 243 mila, con una riduzione di 496 mila unità;
aa) classe di età 25-34 anni, gli occupati sono passati da 5 milioni 979 mila a 4 milioni 955 mila, con una riduzione di 1 milione 24 mila unità;
pertanto nella classe di età 15-34 anni (somma delle prime due classi) gli occupati sono passati da 7 milioni 718 mila a 6 milioni 198 mila, con una riduzione di 1 milione 520 mila unità;
bb) classe di età 35-54 anni, gli occupati sono passati da 12 milioni 278 mila a 13 milioni 534 mila con un aumento di 1 milione 256 mila unità;
cc) classe di età 55-64 anni, gli occupati sono passati da 2 milioni 166 mila a 2 milioni 706 mila con un aumento di 540 mila unità;
pertanto nella classe di età 35-64 anni (somma delle due classi precedenti) gli occupati sono passati da 14 milioni 444 mila a 16 milioni 240 mila, con un aumento di 1 milione 796 mila unità;
dd) classe di età oltre i 65 anni, gli occupati sono passati da 324 mila a 351 mila con un aumento di 27 mila unità.
Con riferimento al titolo di studio posseduto, gli occupati sono tendenzialmente superiori per i soggetti in possesso di diploma e di un titolo di licenza media; meno nel caso di soggetti con laurea e post-laurea e ancora più basso nel caso di soggetti senza alcun titolo di studio o con licenza elementare.

Al 30 settembre 2010 i 22 milioni 789 mila lavoratori sono occupati per il 25,06% in attività indipendenti (sono 5 milioni 712 mila) e per il restante 74,94% in attività dipendenti (sono 17 milioni 77 mila). Al II trimestre 2008 i 23 milioni 581 mila lavoratori sono invece occupati per il 25,80% in attività indipendenti (sono 6 milioni 85 mila) e per il restante 74,20% in attività dipendenti (sono 17 milioni 496 mila). Al III trimestre 2004 i 22 milioni 485 mila lavoratori sono occupati per il 28,08% in attività indipendenti (sono 6 milioni 313 mila) e per il restante 71,92% in attività dipendenti (sono 16 milioni 172 mila). Al 30 settembre 2010 i 17 milioni 77 mila lavoratori occupati in attività dipendenti sono per l’87,13% rapporti di lavoro a carattere permanente (14 milioni 879 mila), mentre il restante 12,87% sono rapporti a carattere temporaneo (2 milioni 197 mila). Al II trimestre 2008 i 17 milioni 496 mila lavoratori occupati in attività dipendenti sono per l’86,04% rapporti di lavoro a carattere permanente (15 milioni 53 mila), mentre il restante 13,96% sono rapporti a carattere temporaneo (2 milioni 443 mila). Al III trimestre 2004 i 16 milioni 172 mila lavoratori occupati in attività dipendenti sono per l’87,39% rapporti di lavoro a carattere permanente (14 milioni 133 mila), mentre il restante 12,61% sono rapporti a carattere temporaneo (2 milioni 39 mila).

Al 30 settembre 2010 i 14 milioni 879 mila lavoratori occupati in attività dipendenti di tipo permanente sono per il 25,24% (3 milioni 756 mila) soggetti giovani, ossia di età tra 15 e 34 anni, mentre per il 74,76% (11 milioni 123 mila) sono soggetti con età oltre i 34 anni. Al II trimestre 2008 i 15 milioni 53 mila lavoratori occupati in attività dipendenti di tipo permanente sono per il 29,13% (4 milioni 385 mila) soggetti giovani, ossia di età tra 15 e 34 anni, mentre per il 70,87% (10 milioni 668 mila) sono soggetti con età oltre i 34 anni. Al III trimestre 2004 i 14 milioni 133 mila lavoratori occupati in attività dipendenti di tipo permanente sono per il 33,46% (4 milioni 729 mila) soggetti giovani, ossia di età tra 15 e 34 anni, mentre per il 66,54% (9 milioni 404 mila) sono soggetti con età oltre i 34 anni. Al 30 settembre 2010 i 2 milioni 197 mila lavoratori occupati in attività dipendenti di tipo temporaneo sono per il 55,21% (1 milioni 213 mila) soggetti giovani, ossia di età tra 15 e 34 anni, mentre per il 44,79% (985 mila) sono soggetti con età oltre i 34 anni. Al II trimestre 2008 i 2 milioni 443 mila lavoratori occupati in attività dipendenti di tipo temporaneo sono per il 58,31% (1 milione 424 mila) soggetti giovani, ossia di età tra 15 e 34 anni, mentre per il 41,69% (1 milione 20 mila) sono soggetti con età oltre i 34 anni. Al III trimestre 2004 i 2 milioni 39 mila lavoratori occupati in attività dipendenti di tipo temporaneo sono per il 59,78% (1 milione 219 mila) soggetti giovani, ossia di età tra 15 e 34 anni, mentre per il 40,22% (820 mila) sono soggetti con età oltre i 34 anni.

Al 30 settembre 2010 il tasso di occupazione è al 44,2%, con un 54,8% di maschi e un 34,3% di femmine. Con riferimento all’età, il tasso di occupazione mostra la seguente ripartizione:
a) 20,5% i soggetti di età compresa tra 15 e 24 anni;
b) 65% i soggetti di età compresa tra 25 e 34 anni;
c) 73,3% i soggetti di età compresa tra 35 e 54 anni;
d) 36,6% i soggetti di età compresa tra 55 e 64 anni;
e) 2,9% i soggetti di età superiore a 65 anni.

Al II trimestre 2008 il tasso di occupazione era al 46,3%, con un 57,8% di maschi e un 35,6% di femmine. Con riferimento all’età, il tasso di occupazione mostrava la seguente ripartizione:
f) 25,2% i soggetti di età compresa tra 15 e 24 anni;
g) 70,8% i soggetti di età compresa tra 25 e 34 anni;
h) 75,2% i soggetti di età compresa tra 35 e 54 anni;
i) 34,8% i soggetti di età compresa tra 55 e 64 anni;
j) 3,5% i soggetti di età superiore a 65 anni.

Al III trimestre 2004 il tasso di occupazione era al 45,5%, con un 57,8% di maschi e un 34,1% di femmine. Con riferimento all’età, il tasso di occupazione mostrava la seguente ripartizione:
k) 28,3% i soggetti di età compresa tra 15 e 24 anni;
l) 69,6% i soggetti di età compresa tra 25 e 34 anni;
m) 73,3% i soggetti di età compresa tra 35 e 54 anni;
n) 31,2% i soggetti di età compresa tra 55 e 64 anni;
o) 3,0 i soggetti di età superiore a 65 anni.

 Il confronto tra il III trimestre 2004 e il III trimestre 2010 mostra che il tasso di occupazione è sceso dal 45,5% al 44,2, con un calo dell’1,3%; la quota di maschi è rimasta stabile al 57,8%, mentre la quota di femmine è salita dal 34,1% al 34,3% (più 0,2%). Con riferimento all’età, le variazioni registrate sono state le seguenti:
p) il tasso di occupazione è sceso dal 28,3% al 20,5% (meno 7,8%) nel caso di giovani di età compresa tra 15 e 24 anni;
q) il tasso di occupazione è sceso dal 69,6% al 65% (meno 4,6%) nel caso di soggetti di età compresa tra 25 e 34 anni;
r) il tasso di occupazione è rimasto stabile al 73,3% nel caso di soggetti di età compresa tra 35 e 54 anni;
s) il tasso di occupazione è salito dal 31,2% al 36,6% (più 5,4%) nel caso di soggetti di età compresa tra 55 e 64 anni;
t) il tasso di occupazione è sceso dal 3% al 2,9% (meno 0,1%) nel caso di soggetti di età superiore a 65 anni.

Il confronto tra il II trimestre 2008 e il III trimestre 2010 mostra che il tasso di occupazione è sceso dal 46,30% al 44,2%, con un calo del 2,1%; la quota di maschi è passata dal 57,8% al 54,8% (meno 3%), mentre la quota di femmine è aumentata dal 35,6% al 34,3% (più 1,3%). Con riferimento all’età, le variazioni registrate sono state le seguenti:
u) il tasso di occupazione è sceso dal 25,2% al 20,5% (meno 4,7%) nel caso di soggetti di età compresa tra 15 e 24 anni;
v) il tasso di occupazione è sceso dal 70,8% al 65% (meno 5,8%) nel caso di soggetti di età compresa tra 25 e 34 anni;
w) il tasso di occupazione è sceso dal 75,2% al 73,3% (meno 1,9%) nel caso di soggetti di età compresa tra 35 e 54 anni;
x) il tasso di occupazione è salito dal 34,8% al 36,6% (più 1,8%) nel caso di soggetti di età compresa tra 55 e 64 anni;
y) il tasso di occupazione è sceso dal 3,5% al 2,9% (meno 0,6%) nel caso di soggetti di età superiore a 65 anni.

 
SECONDA PARTE: GIOVANI E MERCATO DEL LAVORO

La propria tipologia di impiego – il proprio contratto di lavoro e, soprattutto, il proprio settore di appartenenza (pubblico o privato) – fa un po’ da destino ai lavoratori. Ciò è stato, con il senno del poi, soprattutto in questo tempo di crisi economica. Avere un posto da dipendente piuttosto che da collaboratore; oppure essere assunto con contratto a termine invece che a tempo indeterminato; oppure ancora lavorare nel pubblico impiego e non in quello privato: sono tutte differenze non irrilevanti. Per esempio, la probabilità di perdere il posto di lavoro è zero (nulla) per l’impiegato di un Comune; invece varia da uno a 100 (= certezza) per chi lavora alla Fiat o in un discount. Oppure se l’impresa va male a rischiare per primi il posto di lavoro sono i lavoratori assunti con contratto  di lavoro a termine, rispetto agli assunti a tempo indeterminato. Prima degli assunti a termine sono a rischio perdita di lavoro i lavoratori a progetto (ossia i nuovi collaboratori coordinati e continuativi).

Tipico, atipico, subordinato, autonomo, parasubordinato: i rapporti di lavoro hanno assunto le più disparate e variegate qualificazioni. Quando si parla di «lavoro», però, si è in genere spinti a pensare automaticamente al «lavoro dipendente» o, come deve essere correttamente definito da un punto di vista giuridico, al «rapporto di lavoro subordinato», che è il rapporto che intercorre tra un datore di lavoro e un lavoratore e che si caratterizza dall’esistenza di un vincolo di subordinazione del secondo (il lavoratore) verso il primo (il datore di lavoro). Ma «lavoro» è anche l’attività dell’artigiano o del libero professionista, del barbiere e del salumiere, del panettiere e dell’ingegnere. Ci si trova, in questi casi, al lato opposto della subordinazione, ossia in quei rapporti di lavoro nei quali regna «l’autonomia» del lavoratore.

Nel mezzo tra il lavoro «subordinato» e quello «autonomo» trovano collocazione una serie di rapporti di lavoro particolari, speciali, talvolta molto vicini al genere di lavoro subordinato, altre volte più adiacenti a quello autonomo. Tra questi, primeggia il rapporto di collaborazione coordinata e continuativa, quello che nel gergo giornalistico è stato battezzato «co.co.co.» e poi  «co.co.pro.» in virtù della Riforma Biagi del 2003 (legge n. 30), che ha vincolato le collaborazioni a un progetto, rappresentando la cosiddetta area della parasubordinazione.  La scelta per una piuttosto che per un’altra forma di lavoro è solo limitatamente rimessa alla discrezione delle parti, cioè del lavoratore e dell’impresa, perché ciò che conta fondamentalmente è la “modalità di svolgimento” della prestazione lavorativa.

Il dipendente
La definizione di «lavoro subordinato» sta nel codice civile. All’articolo 2094 è stabilito: «È  prestatore di lavoro subordinato chi si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell’impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore». Chi è dunque il lavoratore dipendente? È chi si obbliga, dietro retribuzione, a prestare lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione di un altro soggetto, il quale assume su di sé l’organizzazione, il risultato e il rischio del lavoro. L’accordo che sta alla base di tale scambio – attività lavorativa contro retribuzione – è consacrato nel contratto di lavoro subordinato, mediante il quale il lavoratore si obbliga a prestare la propria opera a vantaggio del datore di lavoro in cambio di una determinata paga. Gli elementi essenziali del rapporto di lavoro subordinato o dipendente sono: una prestazione di lavoro, che può essere manuale o intellettuale; una retribuzione; la subordinazione del lavoratore al datore di lavoro. Due gli attori del rapporto di lavoro subordinato: chi presta l’attività lavorativa (fornisce lavoro), che è definito generalmente lavoratore subordinato o lavoratore dipendente o solo dipendente; chi beneficia dell’opera lavorativa (chi riceve il lavoro) che è l’imprenditore o, meglio, il datore di lavoro (che può anche non essere un imprenditore, come nel caso di colf e badanti). Assumere lavoratori alle proprie dipendenze non costa soltanto la retribuzione per il lavoro che presteranno; ci sono altre voci e altri obblighi che partecipano a farne lievitare l’onere. Prima fra tutte, la voce contributiva: l’assunzione di un lavoratore comporta l’obbligo per il datore di lavoro al versamento di un certo contributo, commisurato alle retribuzioni erogate e finalizzato ad assicurare al lavoratore le tutele per il tempo del non lavoro (pensione, malattia, maternità, disoccupazione, etc.).

L’indipendente
Il lavoro parasubordinato non ha una propria identità giuridica. Nel senso che non esiste, al momento, alcuna disposizione o norma che definisca esattamente di che tipo di prestazione lavorativa si tratta. Combinando principi fiscali e indicazioni ministeriali o di enti previdenziali è, tuttavia, possibile individuare il lavoro parasubordinato come circoscritto dai seguenti elementi: la collaborazione, il coordinamento, la continuità, la natura prevalentemente personale della prestazione. Anche nel rapporto di lavoro parasubordinato, come in quello subordinato, sono presenti due attori: chi presta l’attività lavorativa, definito generalmente collaboratore o lavoratore parasubordinato, e chi beneficia dell’opera lavorativa che è l’imprenditore o, meglio, il committente (per distinguerlo dal datore di lavoro che è la controparte del rapporto di lavoro subordinato). Avere collaboratori, al pari dell’assumere un lavoratore alle proprie dipendenze, non costa soltanto i compensi dovuti in cambio della collaborazione prestata. Ci sono altre voci e altri adempimenti che partecipano a farne lievitare l’onere. Prima fra tutte, anche in questo caso come in quello del lavoro subordinato, la voce contributiva: l’assunzione di un lavoratore comporta l’obbligo per il committente (il datore di lavoro) al versamento di un certo contributo, commisurato ai compensi erogati e finalizzato ad assicurare al lavoratore le tutele per il tempo del non lavoro (pensione, malattia, maternità, etc.).

L’intraprendente
Sul fronte opposto del lavoro subordinato, si posiziona il lavoratore autonomo. Il Codice Civile lo individua nel «contratto d’opera». L’articolo 2222, in particolare, stabilisce che quando una persona si obbliga a compiere verso un corrispettivo un’opera o un servizio, con lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione nei confronti del committente, si applicano le norme del lavoro autonomo (Titolo III). Le principali figure di lavoratori autonomi sono rappresentate dai commercianti e artigiani, dagli imprenditori agricoli, dai professionisti. Allo stesso modo in cui si può stimare il costo di un rapporto di lavoro subordinato o di un contratto di collaborazione coordinata e continuativa, è possibile valutare l’onere da sostenere per un rapporto di lavoro autonomo. La differenza sostanziale è che il «prezzo» dell’opera o del servizio esaurisce ogni altro obbligo nei confronti del lavoratore. Quando andiamo dal panettiere, per esempio, paghiamo 3 euro per avere un chilo di pane. Dando i 3 euro assolviamo a tutti gli obblighi per quel «rapporto» di lavoro per il quale, dall’artigiano-panettiere, abbiamo ottenuto l’opera o il servizio della pagnotta ben cotta.

Le garanzie e le tutele sul lavoro
Le diverse probabilità di perdere il posto di lavoro dipendono fortemente, dunque, dalla propria tipologia di impiego. Questo perché, a ciascuna delle tre aree individuate – lavoro subordinato, lavoro parasubordinato e lavoro autonomo – corrispondono diversi livelli di tutele circa la conservazione del posto di lavoro. Ma non solo. Ognuna delle tre aree, inoltre, prevede con intensità diverse anche i diritti retributivi e contributivi. L’area del lavoro subordinato è quella più protetta. A cominciare dalla disciplina retributiva fino a finire a quella relativa alla risoluzione del rapporto di lavoro, passando per l’area previdenziale (relativa alla pensione e alle tutele per i periodi di non lavoro che comprendono non solo la disoccupazione, ma anche la malattia, la maternità, gli infortuni sul lavoro). Concentriamo il discorso sulla risoluzione del rapporto di lavoro. Come funziona per ciascuna delle tre aree di occupazione? Rispondendo a questa domanda, si comprenderà conseguentemente anche a che livello di sicurezza è posizionato il proprio posto di lavoro. Cominciamo con dire subito che per l’area della parasubordinazione e del lavoro autonomo la risoluzione del rapporto di lavoro è completamente libera. Ciascuna parte – lavoratore o collaboratore e datore di lavoro o committente – può, anche senza giustificativo, sciogliere il suo impegno nel prestare lavoro ovvero nel garantire la retribuzione. È sufficiente una comunicazione, spesso senza nemmeno un preavviso. Per i lavoratori dipendenti – cioè nell’area della subordinazione – le cose stanno ben diversamente. Il posto di lavoro è più garantito, rispetto al collaboratore o al lavoratore autonomo. Ma questa sicurezza può variare – e varia – in funzione del tipo di contratto di lavoro (a termine oppure a tempo indeterminato), del tipo di azienda e della numerosità dei colleghi presenti nello stesso luogo di lavoro.

Nel caso di contratto di lavoro a termine, cioè di un rapporto di lavoro per il quale si sa al momento della stipulazione anche quando verrà sciolto, l’occupazione è garantita per la durata prefissata all’assunzione. Sembra strano, ma è così. Nel caso di contratto di lavoro a tempo indeterminato, invece, lo scioglimento del rapporto è possibile sempre, purché nel rispetto di determinati vincoli – di cui si dirà più avanti – fissati dalla legge. Tanto per intenderci meglio, Paolo che sia stato assunto il 1° dicembre 2008 con un rapporto di lavoro a termine con scadenza al 30 giugno 2010 ha maggiori garanzie di conservare il posto di lavoro fino alla data di scadenza del contratto rispetto a Gianni che è stato assunto lo stesso giorno, ma con un rapporto di lavoro a tempo indeterminato. Questo in linea di principio perché, come si accennava, occorre poi vedere che tipo di azienda è quella in cui si lavora e che numerosità di dipendenti ha in forza.

La disciplina dei licenziamenti
Il «licenziamento» è l’atto mediante il quale il datore di lavoro manifesta la volontà di sciogliere il rapporto di lavoro (tecnicamente si parla di atto di recesso unilaterale, cioè proveniente da una sola delle parti coinvolte nel rapporto di lavoro). Diversamente, quando è il lavoratore a voler sciogliere il rapporto di lavoro, egli lo comunica al datore di lavoro rassegnando le proprie «dimissioni». Il Codice Civile, in origine, prevedeva la libera recedibilità dal rapporto di lavoro a tempo indeterminato, fatta salva la concessione di un preavviso alla controparte. Il datore di lavoro, quindi, (al pari del lavoratore) poteva recedere dal rapporto a propria discrezione con l’unico vincolo di osservare il termine di preavviso. Tale possibilità di licenziamento assolutamente discrezionale, libera, è divenuta oggi del tutto residuale, tanto da risultare praticabile unicamente nei confronti di dirigenti e lavoratori in prova. Il principio della «libera recedibilità» è stato soppiantato da una disciplina limitativa alla discrezionalità del licenziamento da parte del datore di lavoro, non anche delle dimissioni che sono l’atto con cui è il lavoratore a sciogliere il rapporto di lavoro.

Oggi, il principio di pressoché generale applicazione è quello secondo cui il licenziamento, per essere legittimo, deve essere necessariamente giustificato da una circostanza obiettivamente verificabile: si parla, giuridicamente, della presenza di un «giustificato motivo» o di una «giusta causa». Questa disciplina limitativa è ben nota come «articolo 18», perché fa (anche) riferimento alla disposizione della legge n. 300/1970 – lo Statuto dei lavoratori – che ha perfezionato i vincoli già introdotti qualche anno prima (nel 1966 con la legge n. 604 di recepimento di un accordo interconfederale nel settore industriale). L’«articolo 18», in sostanza, dà una forza straordinaria alla tutela del lavoratore che venga illegittimamente licenziato mediante la previsione del diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro. Il passaggio a questo culmine di tutela garantista del posto di lavoro (cosiddetta «tutela reale») è avvenuto con una certa gradualità: dalla libera recedibilità, infatti, si è prima passati alla disciplina che prevedeva, in presenza di un licenziamento illegittimo, la facoltà per il datore di lavoro di scegliere se riassumere il lavoratore ovvero se pagargli un’indennità sostitutiva della riassunzione (è questa la «tutela obbligatoria»).

Oggi le due diverse tutele – quella reale e quella obbligatoria – con le diverse intensità di sicurezza del posto di lavoro per i lavoratori trovano applicazione in funzione della dimensione occupazionale presente in azienda. La «tutela reale» si applica nei confronti dei datori di lavoro privati che occupano più di 15 dipendenti nell’unità produttiva in cui ha avuto luogo il licenziamento, oppure nell’ambito dello stesso comune (per le imprese agricole la soglia al di sopra della quale si applica la tutela reale è di 5 dipendenti), nonché nei confronti dei datori di lavoro che, pur non raggiungendo tale limite dimensionale, occupano comunque più di 60 prestatori di lavoro. Al di sotto di tali limiti dimensionali trova applicazione la «tutela obbligatoria» dalla quale sono sottratti unicamente i lavoratori domestici. A questo stesso trattamento, inoltre, sono soggetti i dipendenti da datori di lavoro non imprenditori che svolgono senza fini di lucro attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione ovvero di religione o di culto. 

A volte, esigenze obiettive – la crisi economica ne è un esempio tipico – possono indurre l’impresa nella necessità di dover operare una consistente riduzione di personale: in queste ipotesi si parla di «licenziamenti plurimi». Se però questi licenziamenti avvengono in un’impresa con una certa dimensione occupazionale (più di 15 dipendenti), coinvolgendo almeno 5 dipendenti e in un arco temporale di 120 giorni, si parla allora di «licenziamenti collettivi». I «licenziamenti collettivi» sono regolati con una disciplina ad hoc, perché destano un particolare allarme sociale assumendo dimensioni particolarmente estesa fondate sulla riduzione oppure sulla trasformazione di un’attività o lavoro, ovvero sulla cessazione dell’attività dell’impresa. La disciplina regola in modo organico il problema delle eccedenze di manodopera promuovendo la collaborazione tra le  parti sociali che possono proporre soluzioni alternative ai licenziamenti,  prevede, come conseguenza dell’esito negativo delle consultazioni sindacali, l’iscrizione nelle liste di mobilità, interventi economici di sostegno di lavoratori disoccupati, incentivi per il reinserimento nel mercato del lavoro dei lavoratori licenziati. Due le ipotesi e le discipline di licenziamento per riduzione del personale: la prima si applica a tutte le imprese con più di 15 dipendenti; la seconda riguarda solo le imprese ammesse alla cassa integrazione guadagni straordinaria (Cigs). A entrambe, poi, si applica una medesima procedura di mobilità.

La procedura di mobilità, che è l’anticamera dei licenziamenti collettivi, si articola in una fase sindacale e in una fase amministrativa, tra loro collegate. La fase sindacale si apre con la preventiva comunicazione, da parte del datore di lavoro alle rappresentanze sindacali, dei motivi che hanno determinato gli esuberi di personale, di quelli tecnici e organizzativi in base ai quali l’azienda non ritiene di poter evitare la riduzione del personale e del numero, e relativa collocazione professionale, dei dipendenti eccedenti con il relativo programma di mobilità.
Conclusa la consultazione sindacale, inizia la fase amministrativa. Il datore di lavoro ha l’obbligo di comunicare l’esito delle consultazioni alla Regione o alla Provincia competente delegata dalla Regione. Qualora non sia stato raggiunto l’accordo con i sindacati si apre una nuova fase negoziale. Esaurita la procedura prevista per la fase amministrativa, anche se non è stato raggiunto alcun accordo,  il datore di lavoro può legittimamente intimare il recesso ai lavoratori eccedenti. Perché il rapporto di lavoro si estingua è necessario che il recesso sia comunicato per iscritto a ciascuno dei lavoratori nel rispetto dei termini di preavviso. L’individuazione e la scelta dei lavoratori da licenziare è vincolata da criteri obiettivi definiti negozialmente in sede di consultazione sindacale o astrattamente determinati dai contratti collettivi (Ccnl) ovvero, in mancanza, si ricorre ai criteri indicati dalla legge e relativi ai carichi di famiglia; alle esigenze tecnico produttive; all’anzianità di servizio presso l’azienda.
I lavoratori che risultino essere in azienda da almeno 12 mesi (dei quali almeno sei di lavoro effettivamente prestato) vengono iscritti in apposite liste di mobilità. Possono iscriversi nella lista di mobilità, senza diritto alla relativa indennità, anche lavoratori dipendenti di imprese artigiane o cooperative che occupano meno di 15 dipendenti. L’iscrizione nelle liste di mobilità ha lo scopo di agevolare il reinserimento nel mercato del lavoro e costituisce presupposto per l’erogazione dall’Inps dell’indennità di mobilità per un periodo determinato in base all’età del lavoratore alla data del licenziamento e all’ubicazione dell’unità produttiva di appartenenza.

Non c’è una formula magica per non farsi licenziare, ma esiste una regola d’oro che contribuisce ad allontanare questo momento: è salvaguardare quel tesoro di azienda in cui si lavora. È un concetto tanto semplice quanto poco condiviso dai lavoratori. Un po’ per colpa anche dei sindacati. Il proprio posto di lavoro, andrebbe capito e bisognerebbe convincersi, non è nelle mani di una persona; né, soprattutto, nell’indiscutibile, imperscrutabile e umorale discrezione di una persona: il capo. Niente di tutto questo. Il lavoratore è il bene più prezioso per ogni azienda. Anzi è l’azienda stessa. Senza lavoratori nessuna impresa può andare avanti. La preziosità della manodopera si evidenzia soprattutto nei momenti difficili, come nelle crisi, quando le aziende si trovano costrette a forti ridimensionamenti dei costi. Nessuna impresa vorrebbe licenziare i propri dipendenti, né lasciare a casa i collaboratori (i precari). Soprattutto quando si tratti di manodopera specializzata che è più difficile da trovare sul mercato del lavoro. E perché, più costoso del ricavo di un licenziamento, è la ricerca di nuovo personale e la sua formazione per l’inserimento nell’organico aziendale. Se c’è un segreto per non farsi licenziare, allora, è questo: custodire e contribuire al futuro della propria azienda, che equivale a porre un’ipoteca di garanzia sul proprio posto di lavoro.

Il contrario avviene nel settore del pubblico impiego, oggi notoriamente conosciuto come il regno dei fannulloni. Un settore dove il rischio licenziamento è praticamente nullo e con esso anche il coinvolgimento passionale dei lavoratori nell’opera di mandare avanti l’Azienda (pubblica) Italia. Ma da fannulloni non si vive soltanto nel pubblico impiego (e neppure in tutto il pubblico impiego). Quella di fare il furbo sul lavoro, intascando il mensile lavorando poco, infatti, è un’antica arte che non conosce confini settoriali di occupazione. Pubblico o privato, Stato o azienda che sia, il padrone è padrone e dunque da fregare. Oggi, in una specie più evoluta, la razza dei fannulloni usa pratiche e tattiche diverse dalla scontata assenza giustificata: la malattia, per esempio, tipica scusa nel settore del pubblico impiego. Con l’era di internet, addirittura, si sono azzerati i rischi di annoiarsi stando sul posto di lavoro senza far nulla: c’è il web dove tuffarsi, immergersi e navigare. La miopia di questi lavoratori sta nel non vedere (né capire) che il progresso o il regresso della loro azienda è il loro stesso destino.

 

TERZA PARTE: PROPOSTE DI RIFORMA

Datore di lavoro diretto e datore di lavoro indiretto
Il mercato del lavoro dovrebbe rispondere allo schema di “datore di lavoro diretto e di datore di lavoro indiretto” suggerito dalla Lettera Enciclica sul lavoro umano, la Laborem exercens, di S.S. Giovanni Paolo II del 14 settembre 1981. «La distinzione tra datore di lavoro diretto ed indiretto,» si legge nel documento, «pare molto importante in considerazione sia della reale organizzazione del lavoro, sia della possibilità del formarsi di giusti od ingiusti rapporti nel settore privato». «Se il datore di lavoro diretto è quella persona o istituzione con la quale il lavoratore stipula direttamente il contratto di lavoro secondo determinate condizioni, allora come datore di lavoro indiretto si devono intendere molti fattori differenziati, oltre il datore di lavoro diretto, che esercitano un determinato influsso sul modo in cui si formano sia il contratto di lavoro sia, in conseguenza, i rapporti più o meno giusti nel settore del lavoro umano». In particolare, «nel concetto di datore di lavoro diretto entrano sia le persone sia le istituzioni di vario tipo, come anche i contratti collettivi di lavoro e i principi di comportamento stabiliti da queste persone e istituzioni, i quali determinano tutto il sistema socio-economico… Il concetto di datore di lavoro indiretto si riferisce così a molti e vari elementi». Quanto alle rispettive funzioni, il documento spiega «la responsabilità del datore di lavoro indiretto è diversa da quella del datore di lavoro diretto – come indica la stessa parola: la responsabilità è meno diretta –, ma essa rimane una vera responsabilità: il datore di lavoro indiretto determina sostanzialmente l’uno o l’altro aspetto del rapporto di lavoro, e condiziona in tal modo il comportamento del datore di lavoro diretto, quando quest’ultimo determina concretamente il contratto e i rapporti di lavoro».

In uno schema così definito, sul mercato del lavoro interagiscono i seguenti soggetti:
a) lo Stato, in qualità di «datore di lavoro indiretto», che determina condizioni e discipline delle varie, possibili forme di arruolamento della manodopera; la leva operativa non può che essere il “diritto” e, nello specifico, sarà il “diritto del mercato del lavoro”. Le regole fissate dallo Stato sono inderogabili; ciò significa che i soggetti possono liberamente scegliere se e come muoversi sul mercato restando, tuttavia, nel pieno rispetto di queste regole. Per esempio, si resta liberi di scegliere con quale forma di lavoro ingaggiare lavoratori, ma l’ingaggio deve conseguentemente rispettarne le condizioni previste per la forma prescelta ;
b) le imprese, in qualità di «datore di lavoro diretto», che determinano la domanda di lavoro. Il loro campo di azione è vincolato, dunque, dalle misure previste dallo Stato; così, le imprese sono libere di decidere se e in che forma arruolare manodopera muovendosi all’interno delle tipologie prefissate dal datore di lavoro indiretto (lo Stato);
c) i lavoratori, ossia i cittadini che mettono a disposizione la propria professionalità (proprie prestazioni lavorative) per ricavarne in cambio un reddito.

Rispetto al tradizionale schema di mercato, il modello adesso suggerito si contraddistingue per la presenza del “datore di lavoro indiretto”. Quest’ultimo, diversamente dalle imprese e dai lavoratori, non interviene nei singoli scambi ma a monte (e tempo prima degli scambi) fissando le regole entro cui questi scambi (tra imprese e lavoratori) potranno avvenire. Non per questo (cioè per il fatto di non intervenire direttamente negli scambi) le decisioni dello Stato risultano ininfluenti; anzi è il contrario, in quanto condizionano le future scelte che dovranno assumere imprese e lavoratori in relazione allo scambio lavoro-retribuzione. Gli interventi dello Stato sul mercato del lavoro sono percepiti dalle imprese come dei vincoli traducibili in un costo minimo del lavoro e, come tali, influenzano la domanda di lavoro. Lo stesso potrebbe dirsi anche dal punto di vista dei lavoratori; tuttavia, gli interventi dello Stato si caratterizzano per la previsione di misure a favore dei lavoratori (che incrementano l’utilità di quel tipo di lavoro al quale si indirizza l’intervento dello Stato). Perciò, in un dato momento, questi vincoli sono percepiti dai lavoratori con favore, perché costituiscono un livello minimo di tutela (un prezzo “base” al di sotto del quale non si è disposti o si è meno disposti ad occuparsi), influenzando di conseguenza l’offerta di lavoro con la fissazione di una preferenza minima per gli scambi al livello non inferiore di queste tutele (diritti) minime garantite dallo Stato.

Il regime generale di tutela
L’insieme delle normative sul lavoro introdotte negli anni dal datore di lavoro indiretto (lo Stato) individua il Regime Generale di Tutela (d’ora in avanti Rgt) vigente sul mercato del lavoro. Non è costante nel tempo, evidentemente; ma varia in funzione delle nuove norme che lo Stato introduce periodicamente nell’ordinamento. Il Rgt condiziona le preferenze dei datori di lavoro e dei lavoratori e, di conseguenza, le scelte (gli scambi) che vengono assunte sul mercato del lavoro; incide, in particolare, sotto forma di costi diretti e di costi indiretti. I principali ambiti di intervento dello Stato, con riferimento alle tutele sul lavoro, sono quelli del reddito (retribuzioni), della previdenza sociale e della protezione all’impiego. Pertanto, il Rgt si definisce come «l’insieme delle normative che disciplinano, in un rapporto di lavoro, misure minime di tutele e garanzie a favore dei lavoratori negli aspetti retributivi, previdenziali e d’impiego». Sul mercato del lavoro italiano, il Rgt:
• è alto nei rapporti di lavoro subordinato;
• è medio nei rapporti di lavoro parasubordinati;
• è basso nei rapporti di lavoro autonomo.

Il Rgt è la sommatoria di diverse tipologie di tutele, ossia delle garanzie a carattere retributivo, delle tutele a carattere previdenziale e, infine, delle garanzie d’impiego. Dal punto di vista dei lavoratori, un alto livello di Rgt equivale a maggiore utilità: retribuzione minima garantita, contribuzione per la pensione, assicurazione contro le sospensioni involontarie del rapporto di lavoro, sicurezza del posto di lavoro, nell’insieme, evidentemente danno maggiore tranquillità di vita. Pertanto, nel caso di scelta tra due possibili alternative occupazionali con differenti livelli di Rgt, il lavoratore finirà per preferire sempre quello con il Rgt più elevato. Dal punto di vista dei datori di lavoro la situazione si presenta diametralmente opposta. Un alto livello di Rgt equivale a un costo del lavoro più elevato. Pertanto, se è possibile scegliere tra due forme di arruolamento di manodopera con differenti livelli di Rgt, il datore di lavoro preferirà sempre quello con il Rgt meno elevato.

• La garanzia a carattere retributivo è preminente nei rapporti di lavoro subordinati, per i quali la contrattazione collettiva fissa periodicamente i livelli minimi e inderogabili di retribuzione. È meno marcata nei rapporti di lavoro parasubordinati e in quelli autonomi. La garanzia a carattere previdenziale (qui il principio o valore tutelato è l’art. 38 della Costituzione), è presente in tutti i rapporti di lavoro, ma con misure differenti: più marcatamente in quelli subordinati (il datore di lavoro deve maggiorare le retribuzioni di circa un 30-35%), meno in quelli parasubordinati (10-16%) e in quelli autonomi (2-4%). Queste due garanzie attengono entrambe a profili reddituali (correnti e futuri) dei lavoratori: in una possibile semplificazione possono essere indicate insieme come “garanzie di sostentamento”. Infine, la terza e ultima garanzia è quella dell’impiego che riguarda il divieto di licenziamento, la cui normativa varia a seconda della dimensione aziendale, ed è tipica dei rapporti di lavoro subordinato. Può assumere anche valore nullo, in quelle imprese non soggette a vincoli sulle procedure di licenziamento.

Le prospettive di riforma
Il mercato del lavoro italiano ha bisogno di un nuovo progetto di modernizzazione: la novità deve toccare il tradizionale “diritto del lavoro” che dovrebbe trasformarsi in un unico e più ampio “diritto del mercato del lavoro”. Un unico corpus normativo, in altre parole, capace, in una visione d’insieme del mondo del lavoro, di regolamentare “tutti” i rapporti di lavoro: quello subordinato (o dipendente), quello indipendente (parasubordinato) e quello intraprendente (o autonomo).

Insomma, un diritto del lavoro per e sul mercato del lavoro: per il mercato del lavoro nel senso di non essere orientato esclusivamente o fondamentalmente alla protezione del posto di lavoro, con la pretesa di attribuire preferenza a uno piuttosto che a un altro contratto di lavoro (come è oggi con la prerogativa di “standard” che ha il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato), ma piuttosto rivolto al “lavoro” in quanto esigenza primaria della persona a prescindere dalla forma di esplicazione (dipendente, indipendente o intraprendente); sul mercato del lavoro nel senso di essere fautore di una rete di tutele che abbracci tutti i cittadini, quelli occupati e quelli inoccupati oppure disoccupati.
In questo nuovo scenario, il diritto del mercato del lavoro dovrebbe agire svolgendo le precipue funzioni del “diritto”, ossia di corpus di norme garante di diritti individuali (delle persone) e di strumento per il funzionamento economico e sociale (della collettività). Ciò non produce una metamorfosi dell’attuale sistema giuridico nella sua composizione delle norme del lavoro; semmai ne richiede una considerazione unitaria. Infatti, richiede di osservare (giuridicamente) il lavoro in una visione complessiva e unitaria di sistema (il mondo del lavoro), senza distinzione quanto a tipologia di rapporto (rectius contratto di lavoro) né a tutele, con l’unico scopo di perseguire la più efficiente combinazione possibile tra domanda e offerta di lavoro. Potranno così continuare a convivere, per esempio, il lavoro subordinato e quello autonomo; come pure potrà continuare a esistere il ventaglio di tutele previdenziali, retributive e d’impiego.

Pur tuttavia, un loro adattamento sarà sempre possibile e, anzi, dovuto (solo e soltanto) se dovesse risultare necessario e indispensabile al perseguimento del fine del benessere collettivo (la più efficiente combinazione possibile tra domanda e offerta di lavoro). Non porre questa possibilità di cambiamento farebbe perdere di significato il processo stesso di modernizzazione; condizionare il cambiamento in una visione complessiva e unitaria del mondo del lavoro garantisce la produzione di riforme positive, e non riforme settoriali (o parziali) come l’esperienza degli ultimi 20 anni ci consegna (con l’inevitabile conseguenza di accontentare alcuni e scontentare altri), perché veicolate verso un fine collettivo (tutti ci guadagnano).

La domanda che a questo punto c’è da porsi e se ciò non possa finire per sollecitare riforme orientate a una riduzione dei livelli di tutele dei lavoratori. La risposta è affermativa laddove dovesse risultare che una rimodulazione delle tutele potrebbe condurre a una migliore e (non solo) maggiore occupazione. Ciò, tuttavia, non deve spaventare, perché non potrà mai dar vita a processi inflazionistici (sul mercato del lavoro) per cui, ciclicamente, si possano ripresentare soluzioni riduttive dei vincoli (tutele) sull’offerta di lavoro per ottenere una più alta occupazione. Non potrà accadere perché ostacolato dai “valori” che predetermineranno gli obiettivi di qualunque intervento di riforma. Infatti il nuovo diritto del mercato del lavoro dovrebbe operare allo scopo di perseguire la più “efficiente” combinazione possibile tra domanda e offerta di lavoro, il che non vuol dire inseguire ciecamente il più alto tasso di occupazione possibile (cioè “a prescindere”); ma significa cercare quel tasso di occupazione condivisibile dalla collettività (che venga, cioè, apprezzato come un “bene”). Attenzione si sta parlando di ricercare una combinazione “efficiente”, e non una condizione di “equilibrio” tra domanda e offerta di lavoro. Questo perché, in un mercato qualunque di un qualunque prodotto, il punto di equilibrio coincide anche con la soluzione efficiente (efficienza economica); non è così però e non può valere così sul mercato del lavoro, perché il lavoro non è un fattore produttivo qualunque. Per cui, il diritto del mercato del lavoro dovrebbe (e dovrà) ricercare il punto d’incontro tra domanda e offerta di lavoro che produce un’efficienza giuridica, vale a dire rispettosa dei “valori” che il diritto veicola e dei quali si fa garante. Ciò significa, in conclusione, che le sollecitazioni di riforma che potranno arrivare dalla nuova visione d’insieme del mondo del lavoro dovranno essere certamente compatibili con il sistema di principi e di valori dell’ordinamento giuridico.

La nuova idea di mercato di lavoro è quella in cui il “lavoro” (ossia l’occupazione) prescinde dalla tipologia del rapporto (contratto di lavoro), nell’ottica del valore del “diritto al lavoro” garantito dall’art. 4 della Costituzione (questo il progetto di modernizzazione del diritto del lavoro). Praticamente, dunque, bisogna agire su ciò che oggi contraddistingue le diverse tipologie di rapporti (o contratti) di lavoro, vale a dire sulle garanzie tutelate dal diritto vivente.

Da un punto di vista quantitativo, le riforme indirizzate verso una sola delle garanzie esistenti (le componenti del Rgt) danno vita a un aumento di occupazione solo quando producono un arretramento del valore di Rgt preesistente sul mercato del lavoro. La spiegazione è naturale: più si allentano i vincoli, più il mercato svolge meglio la sua funzione di ricerca dell’equilibrio. In una situazione di completa simmetria delle informazioni, tra imprese e lavoratori, e di piena libertà di movimento degli stessi – situazione ravvisabile in un mercato del lavoro con garanzie inesistenti – il mercato del lavoro raggiunge il punto di equilibrio, che è anche quello di massima efficienza possibile. Un punto al quale, in altre parole, corrisponde la massima occupazione possibile sul mercato, date una certa domanda e una certa offerta di lavoro: nessun operatore (impresa o lavoratore) risulta privo di occupazione, che non significa che tutti i lavoratori sono occupati o che tutte le imprese hanno arruolato la manodopera desiderata; ma vuol dire che la presenza di un’eventuale disoccupazione dipende dalle preferenze degli operatori.

Una soluzione di mercato del lavoro privo di qualsiasi forma di tutela o garanzia (retributiva, previdenziale o di impiego), tuttavia, non è ammessa nel nostro modello di analisi, perché vorrebbe significare azzerare il ruolo del datore di lavoro indiretto, cioè dello Stato. È una soluzione non ammessa perché azzerare il ruolo dello Stato significherebbe a sua volta annullare l’esistenza di qualunque regola nei rapporti umani, con la conseguenza di negare l’esistenza di una società. Tale impossibilità vincola il mercato del lavoro a versare in uno stato di perenne squilibrio (paretiano), in quanto l’equilibrio (paretiano) presuppone un mercato concorrenziale, e tale il mercato del lavoro oggi non è. Presuppone, in altre parole, un mercato sul quale gli operatori sono assolutamente liberi di decidere il proprio comportamento (quindi le decisioni di scambio), in maniera tale che l’allocazione venga a fissarsi a un livello di soddisfazione massimo per tutti gli operatori, cioè a una posizione tale da escludere l’esistenza di un’altra allocazione che possa dare un livello di soddisfazione migliore per qualcuno di essi. Il mercato del lavoro che impone delle garanzie (tutele), allora, diventa inefficiente per definizione dal punto di vista economico (e paretiano). Infatti, dà vita a un’allocazione certamente di livello insoddisfacente per alcuni degli operatori (quelli che subiscono i vincoli delle garanzie e delle tutele: si pensi all’articolo 18 dal punto di vista degli outsider) e premiando altri (quelli che si avvantaggiano dei vincoli delle garanzie e delle tutele: si pensi ancora all’articolo 18 dal punto di vista degli insider) con un livello più che soddisfacente, cosicché il mercato del lavoro potrebbe sempre dar vita a una nuova allocazione implicante un livello di soddisfazione migliore per alcuni degli operatori.

Le riforme indirizzate sia alle garanzie di sostentamento (retributive e previdenziali) che a quelle d’impiego (art. 18) sono produttive di incremento di occupazione se e quando includono misure “concessive” (cioè un arretramento) delle garanzie “occupazionali”. In particolare, se lo Stato (datore di lavoro indiretto) interviene a ridurre le tutele d’impiego (art. 18, per esempio), anche se dovesse accompagnare quest’intervento con una riforma di un’altra garanzia (retributiva o previdenziale), il risultato che si verrebbe ad ottenere sarebbe sempre e soltanto un incremento dell’occupazione, a prescindere dal tipo (restrittiva o concessiva) di riforma sulle garanzie di tipo retributivo o previdenziale. Poiché queste ultime garanzie esprimono i costi diretti mentre la tutela d’impiego esprime un costo indiretto, allora vuol dire che sono i costi indiretti a prevalere sui costi diretti. Affermare che i costi indiretti prevalgono su quelli diretti significa che i primi “condizionano” maggiormente il mercato del lavoro (rectius l’occupazione) rispetto ai costi diretti. La ragione di questo particolare fenomeno si trova nel processo di formazione della domanda di lavoro perché, sui mercati del lavoro caratterizzati da forte disoccupazione (cronica) – come quelli delle moderne economie – l’occupazione viene sempre decisa (fissata) dalla domanda di lavoro. Ora, se il risultato del mercato del lavoro emerge fortemente condizionato dalle vicende della garanzia d’impiego e il risultato stesso è deciso dalla domanda di lavoro, allora vuol dire che la garanzia di impiego esercita un’influenza sulla domanda di lavoro di entità superiore a quella delle altre tipologie di tutele (retributive e previdenziali). Non solo; ma significa, in ultima istanza, che quella (diversa) influenza tocca più precisamente le imprese che, sul mercato, danno vita alla domanda di lavoro.

A questo punto l’obiettivo deve essere spostato sulle imprese. Le differenti influenze esercitate dalle diverse garanzie, quella retributivo-previdenzialie e quelle d’impiego (la seconda più marcatamente della prima), trovano origine nell’essenza stessa delle tutele: le tutele retributive e le tutele previdenziali rappresentano dei “costi diretti”; le garanzie d’impiego esprimono invece dei “costi indiretti”. I primi sono costi certi, i secondi aleatori. Il che vuol dire che, nel momento in cui decide se e quanta manodopera arruolare, l’impresa sa con certezza (solo) il costo retributivo e contributivo legato al nuovo personale; mentre può fare (solo) una valutazione circa l’incidenza (il peso) dei costi indiretti, perché la loro manifestazione come il loro ammontare sono solo eventuali restando incerti fino a un’effettiva evidenziazione. Questa diversità di cognizione che ha l’impresa sui costi finisce per condizionare il processo produttivo – processo del quale fa parte la componente decisionale della manodopera – e, quindi, la domanda di lavoro.

Le decisioni di assunzione vengono prese in sede di programmazione della produzione e il costo del lavoro incide contribuendo a determinarne il valore (cioè il prezzo del prodotto) e, di conseguenza, il risultato d’impresa. Nell’ottica utilitaristica dell’imprenditore, l’aleatorietà è qualcosa da cui rifuggire: tra un’assunzione di personale a costi certi e una a costi incerti, preferirà sempre la prima anche se dovesse rinunciare a una parte di produzione aggiuntiva qualora ciò non dovesse garantirgli il risultato d’impresa atteso.

In secondo luogo, poi, a differenza della garanzia d’impiego, le tutele retributive e previdenziali sono un costo che l’imprenditore riesce a neutralizzare con la decisione di produzione. Infatti, trattandosi di costi noti e certi, l’impresa avrà modo (e tempo) per traslarli sul prezzo della produzione (e vendita). L’operazione non è possibile – o quantomeno risulta molto più artificiosa – con riferimento alla garanzia d’impiego. Al più, questo onere – pur sempre ipotizzabile – potrebbe essere considerato come una sorta di “premio di assicurazione” da inserire nel prezzo della produzione, così che l’impresa possa ripararsi da una sua eventuale manifestazione. Tuttavia, una simile operazione, al di là della incertezza che comunque permane, risulta efficiente nell’improbabile ipotesi che venga praticata da tutte le imprese: se anche una sola impresa, invece, non dovesse praticarla, questa avrà la meglio sulle altre risultando più concorrenziale. Pertanto, nel dubbio che qualche impresa possa avvantaggiarsi (o, che è lo stesso, nel tentativo di avvantaggiarsene personalmente), un imprenditore non oserà mai arrischiarsi più del necessario nell’assunzione di costi (quelli incerti) che maggiormente potrebbero alla fine compromettere il suo risultato d’impresa.

A questo punto è possibile trarre una sintesi. Sul mercato del lavoro italiano, il reclutamento di manodopera è possibile attraverso tre principali modalità come detto in precedenza: lavoro subordinato, lavoro parasubordinato (a progetto) e lavoro autonomo. Per ciascuna di queste tipologie è prevista una specifica disciplina retributiva e contributiva e di regime di protezione d’impiego. Il lavoro subordinato è quello maggiormente tutelato, in ogni aspetto (retributivo, previdenziale e tutela d’impiego). Il lavoro parasubordinato e quello autonomo, invece, sono assistiti da minori tutele retributive e contributive e da nessuna garanzia sull’impiego. Sul mercato del lavoro italiano, inoltre, è oggi previsto un sistema di ammortizzatori sociali che interviene, per un periodo limitato di tempo, a tutelare economicamente (il reddito) i lavoratori che perdono l’occupazione (per esempio, sotto forma di indennità di disoccupazione), nonché in caso di crisi occupazionali consentendo di rinviare (nella speranza della ripresa della capacità produttiva dell’impresa) lo stato di disoccupazione (per esempio, la cassa integrazione guadagni o l’indennità di mobilità). Anche sotto questo aspetto, la tutela è di livello massimo per il lavoro subordinato, perché il sistema di ammortizzatori sociali opera pienamente nei confronti di questo tipo di occupazione, mentre è praticamente inesistente per il lavoro parasubordinato e quello autonomo.

Circa la scelta delle modalità di reclutamento della manodopera, infine, le norme oggi vigenti sul mercato del lavoro vincolano le imprese a procedere verso un tipo di rapporto (quello subordinato) piuttosto che verso un altro (parasubordinato o autonomo) in ragione della natura delle prestazioni lavorative ricercate, con preferenza assoluta (cioè con previsione di vincoli stringenti) per il tipo subordinato. Praticamente succede che, mentre un dipendente (cioè un lavoratore titolare di un contratto di lavoro subordinato) può svolgere in azienda anche attività senza vincolo di subordinazione (cioè autonome, tipologia di prestazione tipica dei lavoratori parasubordinati e di quelli autonomi), senza per questo dar vita a violazioni normative né a proprio carico né a carico dell’impresa, se il lavoratore parasubordinato (lo stesso vale per il lavoratore autonomo) svolge prestazioni di tipo subordinato, il suo rapporto è soggetto alla conversione in contratto di tipo subordinato (la “sanzione” è tutta a carico dell’impresa; per il lavoratore, invece, si tratta di un miglioramento delle condizioni di lavoro). Anche sotto questo aspetto, dunque, la tutela è di livello massimo per il lavoro subordinato, mentre è praticamente inesistente per il lavoro parasubordinato e quello autonomo.

Un mercato del lavoro così strutturato manifesta più di una limitatezza in ordine a una allocazione ottimale (occupazione), cioè in condizione di efficienza giuridica. In un’ottica di sintesi, è possibile affermare che sul mercato del lavoro italiano è presente un sistema di tutele molto diversificato per le tre tipologie dei rapporti possibili; che questa diversità si manifesta con evidenza negli aspetti delle tutele retributive e previdenziali; che questa diversità è predominante nella garanzia d’impiego. Poiché, come è stato osservato in precedenza, è la garanzia d’impiego più delle tutele retributive e previdenziali a influenzare la domanda di lavoro (e quindi l’occupazione), è possibile limitare le osservazioni a quest’ultima componente nel ricercare una soluzione ottimale per l’occupazione.

Dal punto di vista della domanda di lavoro (imprese), in primo luogo, la garanzia d’impiego (il principio della “stabilità” del rapporto/posto di lavoro) influenza negativamente la tipologia di lavoro subordinato. I vincoli al licenziamento, infatti, condizionano l’impresa all’assunzione di nuovo personale con tale tipo di contratto laddove la necessità di maggiore manodopera dovesse presumersi non definitiva per la produzione: si crea, dunque, un clima di aleatorietà per la decisione e l’impresa preferirà rinviare la scelta (per non rischiare l’assunzione di costi “inutili”), rinunciando se necessario anche a quote ulteriori di produzione, se ciò dovesse bastare a preservare il risultato d’impresa. In questo caso si verifica una potenziale perdita di occupazione perché, seppure l’ordinamento offra l’opportunità di strumenti contrattuali per l’assunzione temporanea di personale dipendente, questi sono comunque caratterizzati da una certa dose di aleatorietà in ordine agli effetti circa l’applicazione delle garanzie di stabilità all’impiego (cioè resta il rischio di un eventuale contenzioso per la conversione del rapporto temporaneo a tempo indeterminato). Quest’ultimo problema è lo stesso che caratterizza anche gli altri due tipi di contratti di lavoro, quello parasubordinato e quello autonomo. Infatti, il reclutamento di personale attraverso questi strumenti contrattuali resta sempre passibile per il futuro di un contenzioso sul riconoscimento del regime di stabilità all’impiego, con la loro trasformazione in contratti di lavoro di tipo subordinato.

La presenza di un alto livello d’influenza della garanzia d’impiego sulla domanda di lavoro lascia presumere la possibilità, sul mercato del lavoro italiano, di produrre misure che consentano di raggiungere un livello di occupazione migliore di quello attuale, sia quantitativamente che qualitativamente (efficienza giuridica). A tal fine, occorrerebbe operare una riduzione delle attuali norme sulla garanzia d’impiego. Per far questo, una soluzione possibile è quella di liberare le imprese dagli oneri indiretti rappresentati esclusivamente dal regime di stabilità dell’impiego.  Infatti, allo stato attuale, questa garanzia (unitamente alla standardizzazione delle prestazioni subordinate) condiziona sia il reclutamento con contratti di lavoro subordinato che con rapporti di lavoro parasubordinati e autonomi. Per evitare un arretramento complessivo delle tutele (si assume che la normativa vigente veicoli il “valore” condiviso della “stabilità d’impiego” e che allo stesso non si voglia rinunciare), per evitare cioè di ridurre le tutele a favore dei lavoratori, la riforma “concessiva” potrebbe operare una sorta di “riallocazione” della garanzia di stabilità, spostandola dai costi indiretti (dove oggi risiede) a quelli diretti. In questo modo, ritrovandosi nelle tutele retributive/previdenziali, la garanzia di stabilità non produrrà più gli effetti negativi di condizionamento della domanda di lavoro, infondendo al contempo alle imprese una maggiore propensione al reclutamento di manodopera e, in definitiva, dando vita a maggiori posti di lavoro. Si potrebbe trattare, per esempio, di introdurre nuove misure di ammortizzatori sociali (i costi vanno comunque a carico delle imprese) che possano sostituire quella stabilità che oggi, comunque a carico dei datori di lavoro, continua a condizionare negativamente, dal punto di vista quantitativo e qualitativo, l’occupazione italiana.