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Sono tornato ieri sera da un lungo viaggio di studio in Perù e ho dedicato le primissime ore dell’interminabile viaggio alla lettura della nuova enciclica di Benedetto XVI Spe salvi. L’ho trovata oltremodo stimolante, scritta con il consueto stile lineare, una forma che le attribuisce il carattere di una lettura fortemente accattivante. Non avendo potuto svolgere un’analisi sistematica, la mia breve riflessione non ha la pretesa di rappresentare alcunché se non la personalissima, immediata e spontanea reazione alle sollecitazioni dovute ad una semplice, ma interessata ed approfondita lettura.

L’enciclica andrebbe letta a partire da categorie rigorosamente teologiche, i riferimenti a Rothbard e a Nozick che alcuni amici in questi giorni hanno tentato di intrecciare con le argomentazioni dell’enciclica credo non possano che rivelarsi fuorvianti, in quanto nascondono le ragioni, la specificità e tanto meno ne le rilevano lo statuto epistemologico dell’enciclica. Solo a partire da considerazioni di ordine teologico e dal ripensamento dei suddetti elementi in chiave anche sociale (delle scienze sociali) possiamo tentare di cogliere il significato che le argomentazioni di Benedetto XVI avrebbero sulle realtà politiche ed economiche.

Inviterei il lettore a riflettere sulla critica all’individualismo, e si noti quanto essa sia distante dalla spesso incomprensibile analisi che celebri economisti cattolici e non del passato e del presente svolgono sul famigerato homo oeconomicus, raffigurazione di un archetipo antropologico che già autorevoli interpreti come Mises ed Hayek non esitarono a definire “fantoccio” o “fantasma. Dicevamo, dunque, rappresentazione pagliaccesca dell’individualismo metodologico e ignorantemente confusa con il becero egoismo che nulla avrebbe che fare con un rispettabilissimo metodo di analisi scientifico, come appunto l’individualismo metodologico. Anzi, sarà proprio Benedetto XVI a definire teologicamente che cosa i cattolici intendono per individualismo, liberandolo dalla secolare accusa proveniente da tutti coloro che hanno colpevolmente confuso (si tralasci pure il “dolo”) l’individualismo metodologico con l’egoismo, entrambi con il capitalismo ed il tutto con il liberalismo.

Tutto ciò è assente dall’esposizione classica ed estremamente formale dell’enciclica. Sia chiaro una volta per tutte, la teologia non si prefigge questo compito, ma le categorie teologiche adottate da Benedetto XVI ci autorizzano a continuare l’opera epistemologica iniziata da Giovanni Paolo II. Qualcuno forse ricorderà ancora il paragrafo 42 della Centesimus annus? In quel paragrafo Papa Wojtyla distingueva tra capitalismo e capitalismo, ebbene da quel punto non si torna indietro e Benedetto XVI ne è ben consapevole. Le condizioni (pilastri epistemologici) perché si possa parlare un capitalismo rettamente inteso sono state elencate da Giovanni Paolo II e resteranno un pilastro per tutti i pontefici che lo seguiranno.

Benedetto XVI con questa enciclica ha semmai rafforzato quella posizione, individuando nel materialismo l’errore del marxismo: “L’uomo, infatti, non è solo il prodotto di condizioni economiche e non è possibile risanarlo solamente dall’esterno creando condizioni economiche favorevoli” (n. 21), nel giustificazionismo (conservatorismo metodologico) l’errore di ogni autoritarismo e totalitarismo: “L’incontro invece con Dio risveglia la mia coscienza, perché essa non mi fornisce più un’autogiustificazione…” (n. 33) e nella cinica indifferenza la morte stessa dell’umanità: “Il bisogno soltanto individuale di un appagamento che in questa vita ci è negato, è certamente un motivo importante per credere che l’uomo sia fatto per l’immortalità; ma solo in collegamento con l’impossibilità che l’ingiustizia della storia sia l’ultima parola, diviene pienamente convincente la necessità del ritorno di Cristo e della nostra vita” (n. 43). ( A tal proposito consiglio di leggere l’emozionante prefazione del libro di D. Antiseri Credere, Armando Editore). Infine, Benedetto XVI individua un ulteriore elemento concettuale che egli analizza sotto il  profilo squisitamente teologico e che solo teologicamente può essere compreso, sebbene, sempre sotto il profilo teologico, possa gettare luce sull’analisi sociale, si tratta dell’antiperfettismo, da non confondere per carità con il pessimismo sociale: “La libera adesione al bene non esiste mai semplicemente da sé. Se ci fossero strutture che fissassero in modo irrevocabile una determinata – buona condizione del mondo, e per questo motivo non sarebbero, in definitiva, per nulla strutture buone” (n. 24).

Mi sono permesso di indicare alcuni elementi teorici, la cui coerenza è rintracciabile all’interno di un percorso teologico che spesso viene trascurato dagli scienziati sociali per ragioni di opportuna coerenza epistemologica ovvero per opportunistica strumentalizzazione politica. Materialismo, giustificazionismo, indifferentismo cinico e perfettismo sociale sono i grandi mali che la teologia di Benedetto XVI individua come ostacoli alla virtù della Speranza, ostacoli che allontanano l’uomo da Dio. Teologicamente, il metodo è quello personalistico (un salto dimensionale rispetto all’individualismo e alll’olismo), Benedetto XVI non entra (Deo gratias!) nella secolare disputa sulle scuole politiche, poiché vuole comunicarci qualcosa che le scuole politiche non possono dirci: che il rapporto con Dio si stabilisce attraverso la comunione con Gesù. Da soli non saremmo in grado di incontrare l’amore di Dio. L’incontro con Gesù avviene lì dove l’asse orizzontale delle fatiche e delle gioie della vita quotidiana incontra l’asse verticale dell’anelito trascendente. Gli economisti parlerebbero di punto di equilibrio, i teologi di “caso serio”, il popolo di Dio da due mila anni parla di “Croce”. Scrive Benedetto: “L’essere in comunione con Gesù Cristo ci coinvolge nel suo essere ‘per tutti’, ne fa il nostro modo di essere. Egli ci impegna per gli altri, ma solo nella comunione con Lui diventa possibile esserci veramente per gli altri, per l’insieme” (n. 28).

Già, proprio la Croce è la situazione così umana che Dio ha scelto per assomigliarci e renderci simili a Lui. Non è la presunta grandezza della nostra ragione, né la convinzione di essere in possesso di una conoscenza superiore, ma la capacità di “offrire” i piccoli e i grandi dolori a colui che sulla Croce ha urlato, con dolore, “Dio mio Dio mio perché mi hai abbandonato” e prima di spirare ha sussurrato con Carità, la Speranza che dona la Fede: “Padre nelle tue mani affido il mio spirito”. La Speranza di cui parla la Chiesa cattolica attraverso la penna – la pastorale –  di Benedetto XVI e l’opera di missionari che vivono agli antipodi è la roccia della Fede impressa nella Croce, una Croce impregnata del sangue dei martiri e delle nostre quotidiane tribolazioni.

Sarà proprio l’ancoraggio della Speranza nella Fede, la quale marca la distanza dall’ottimismo, anche il più o meno tristemente utopistico, a distinguere la fisionomia della Speranza cristiana, esprimibile attraverso una funzione superadditiva, poiché la libertà dell’uomo è sempre nuova e deve sempre rinnovarsi in modo inedito, dalla speranza fondata sull’uomo, la quale contrariamente alla prima è una funzione meramente additiva; che abita il mondo materiale e confinabile nell’infinito desiderio di aggiungere appagamento ad appagamento, in una aritmetica sommatoria che non potrà mai aver fine. Non c’è nulla di male, è parte della nostra stessa natura, benché redenta, ferita dal peccato: desiderare sempre di più. Tuttavia, non è la Speranza di cui ci parla il Vangelo (l’originalità della Redenzione), essa non dipende da quanto possediamo, ma da come e per Chi decidiamo di spendere i nostri giorni, i nostri talenti e le nostre aspettative; in definitiva, dal loro quotidiano ancoraggio alla Fede impressa nella Croce.

La teologia, allora, incontra le scienze sociali non tanto nella disputa tra nobili scuole politologiche: chi è più liberale, libertario, anarchico, socialista, comunista, socialdemocratico, riformista o conservatore, e chi più ne ha più ne metta, ma sul terreno della prospettiva antropologica. Su questo punto, l’enciclica programmatica di Giovanni Paolo II, la Redemptor Hominis, tutto il magistero e la pastorale di Giovanni Paolo II, la Deus Caritas Est e l’attuale Spe salvi, nonché l’infaticabile opera pastorale di Benedetto XVI, delineano la continuità con il percorso conciliare nel quale viene espresso che Dio, manifestando se stesso in Gesù, manifesta non solo Dio all’uomo, ma anche l’uomo all’uomo. Si consideri come puro esempio la vicenda di San Massimiliano Kolbe e le ragioni teoriche, politiche ed economiche che fecero di un miniscolo gruppo di operai polacchi, in una anonima città sul Baltico il centro nevralgico di una nuova era, al centro della quale – forse per un breve periodo – si è pensato con originalità e con senso cristiano alla “Speranza che salva”; come nel caso di Padre Massimilaiano Kolbe, anche per gli operai di Solidarnosch, neppure la più triviale e menzognera delle potenze poté reggere l’onda d’urto della Speranza salvifica.

(da “L’Occidentale”)