Privacy Policy Cookie Policy

In occasione del ventennale di “Tangentopoli”, pubblichiamo un’intervista al Senatore Gaetano Quagliariello (tratta da Il Secolo d’Italia) e un articolo di Roberto Santoro (tratto da l’Occidentale), allo scopo di parlare anche di quanto – di solito – si preferisce tacere.

Intervista a Gaetano Quagliariello di Giovanni Marinetti

Gaetano Quagliariello docente di Storia e vicepresidente dei senatori Pdl, nel 1992 non era iscritto a nessun partito. Prima di allora, un passato nei Radicali terminato nel 1982. Osservò quindi la stagione di Tangentopoli come qualsiasi altro italiano, capendo però che era il momento di schierarsi. Così nel 1994 scelse Forza Italia.

Senatore Quagliariello, cosa rimane di Tangentopoli a distanza di vent’anni?

Penso sinceramente che l’importanza storica di Tangentopoli sia stata sopravvalutata. In realtà vera struttura del sistema della Prima Repubblica era costituita dalla guerra fredda che consentiva a un sistema non più rispondente alle esigenze politiche, economiche e sociali di restare in piedi. I cosiddetti partiti di integrazione sociale, che inglobavano l’individuo in una sorta di contro-società, hanno rappresentato la forma di partitocrazia organizzata più sofisticata che ci sia stata in Europa. Nel resto del continente essi iniziarono a declinare già negli anni ’50. In Italia, invece, proprio negli anni ’70 attraverso l’istituzionalizzazione del metodo consociativo, i partiti di integrazione sociale avevano vissuto la loro stagione d’oro dal punto di vista sistemico allargando la loro influenza sulla società piuttosto che limitarla. L’Italia andava quindi in controtendenza. Che cosa è accaduto? L’allargamento dell’influenza ha raggiunto dimensioni tali che alla fine i partiti non hanno più controllato il processo, finendo così per essere colonizzati al loro interno da piccole o grandi lobby e da potentati. Questa dinamica ha riguardato tutti i grandi partiti tranne il Pci, dove il vecchio centralismo democratico ha retto abbastanza bene. Quando il fattore “K” – così lo ha definito Ronchey riferendosi all’equilibrio causato dalla guerra fredda – è venuto meno, il sistema non ha retto perché non aveva più basi. Tangentopoli è stata l’occasione, non la causa scatenante. E andrebbe inoltre vista in una dimensione comparativa europea: il rapporto tra politica e corruzione dopo la fine della guerra fredda era infatti cambiato ed alcune pratiche fino ad allora tollerate perché assorbite da uno scontro maggiore, da quel momento in poi non sono state più consentite. Quelle che in Germania, con lo scandalo che riguardò Kholl, in Spagna con Gonzales, e in Francia furono scosse di assestamento del sistema, in Italia furono invece l’occasione per il crollo generale perché evidentemente, le basi del sistema non c’erano più.

Fu una rivoluzione culturale o un golpe giudiziario?

Dire che fu una rivoluzione è ridicolo, perché la vera rivoluzione fu quella del 1989. Solo che in Italia il Pci, che nel frattempo aveva cambiato nome, cercò di egemonizzare perfino il suo fallimento storico. Quanto all’ipotesi che si sia trattato di un golpe giudiziario, è evidente che il finanziamento della politica era in gran parte illecito: sotto quest’aspetto vale quanto disse Craxi in Parlamento, cioè che il fenomeno riguardava tutti i partiti; ed è altrettanto evidente che fosse necessario voltare pagina. Una forzatura giudiziaria cercava di utilizzare questa situazione per determinare un esito paradossale: dopo aver eliminato con un’amnistia il problema dei finanziamenti esteri, si voleva trasformare la fine dell’equilibrio bipolare e la fine del comunismo nell’occasione per dare vita a un’egemonia definitiva della sinistra sul sistema della politica italiana. Gli sconfitti della storia, con l’utilizzo strumentale di Tangentopoli, volevano diventare vincitori. Si è tentato un ribaltone storico.

Ha mai creduto a una regia occulta?

No. Non ho mai nemmeno creduto al complotto.

E’ indubbio comunque che senza Tangentopoli forse non sarebbe mai iniziata l’era berlusconiana…

Tangentopoli creò un vuoto che poteva anche rimanere vuoto e riempirsi solo in maniera frammentata, e invece ha consentito a quella che a lungo era stata una storia minore dell’Italia fatta di anticomunismo esistenziale e psicologico, silentemente maggioritaria, compressa dall’ufficialità dei partiti della prima repubblica, di emergere, di manifestarsi come un fiume carsico che rivede la luce.

Lei come ha vissuto il 1992. Era pro o contro i giudici?

Ricordo liti politiche che non ho più fatto, è stato un momento di grandi passioni: era il momento di schierarsi. La lettura che do oggi di quei fatti è la stessa che davo già nel 1992. Le racconto un piccolo episodio: quando scese in campo Berlusconi dissi pubblicamente che avrei votato Forza Italia. Ero un ricercatore della Facoltà di Lettere de L’Aquila e un collega più grande che mi voleva bene mi consigliò la visita da uno psicanalista perché riteneva che votare Forza Italia fosse un atto eversivo, una follia. Almeno in termini di carriera…

Il caso Lusi dimostra che la politica non è stata capace di porre rimedi al problema della corruzione?

Durante la prima repubblica la corruzione era un problema sistemico, riguardava l’essenza stessa del sistema. Oggi certamente la corruzione esiste e in alcuni casi è molto grave ma non si può dire che quello di Lusi sia un fenomeno strutturale. Certo, si dovrebbe fare di più. Noi abbiamo perso l’occasione di cambiare la natura giuridica dei partiti: che ancora oggi siano delle associazioni private lo ritengo un residuo paretiano di sovversivismo antistatale.

Se Berlusconi non si fosse dimesso crede che avremmo potuto assistere a una nuova Tangentopoli?

Penso che la via giudiziaria alla rivoluzione in Italia non sia morta, semmai si è affinata. Il problema è che il rapporto patologico tra politica e giustizia, originatosi allora anche per alcuni cambiamenti costituzionali che non conobbero contrappesi, è ancora il problema principale del sistema politico italiano. Chiunque sarà il prossimo presidente del Consiglio eletto, se non si fa una riforma della giustizia, avrà gli stessi problemi che hanno avuto i governi Prodi e Berlusconi, perché non possiamo dimenticarci che nel 2008 abbiamo vinto perché un pm di provincia arrestò la moglie del Guardasigilli…

Tratto da Il Secolo d’Italia

 

L’industria di Mani Pulite e la memoria corta dei grandi moralizzatori

di Roberto Santoro

Nel 2000 uscì un libro, “L’industria dell’Olocausto”, destinato a scatenare una durissima controversia nel mondo accademico. L’autore, Norman Finkelstein, docente universitario e figlio di sopravvissuti all’Olocausto, sosteneva una tesi inaccettabile (gli ebrei americani avrebbero sfruttato la memoria della shoah per ottenere dei vantaggi politici ed economici), ma la conseguenza di quella ricerca è stata riaprire la discussione sui modi in cui la cultura popolare diventa “culto”. Quali sono cioè i modelli di volgarizzazione insiti nella cultura di massa che si riproducono attraverso meccanismi di ripetitività e di schematizzazione, tramite i processi di semplificazione messi in moto da quella corazzata che prende il nome di industria culturale.

Oggi in Italia si potrebbe parlare di “industria della memoria” a proposito di Mani Pulite, in concomitanza con le celebrazioni del ventennale di quella rivoluzione giudiziaria che, prendendo le mosse dall’arresto di Mario Chiesa, finì per decapitare il sistema politico della Prima Repubblica. Anche in questo caso, l’industria culturale ci ha offerto una visione univoca e senza chiaroscuri di quella stagione: il Corriere della Sera manda in edicola due volumi “1992-2012. Mani Pulite, l’inchiesta che ha cambiato l’Italia”. Piercamillo Davigo, oggi giudice della Corte di Cassazione, si divide tra una puntata di  “Otto e mezzo” e la prefazione della riedizione di un classico della saggistica giustizialista, “Mani Pulite. La vera storia, 20 anni dopo” (Chiare Lettere 2012), del trio Marco Travaglio, Peter Gomez e Gianni Barbacetto. Gherardo Colombo, attuale presidente di Garzanti Libri, va in vetrina con “Farla franca” (Longanesi 2012), un libro dal titolo che si commenta da solo, e fa la sua ospitata a “L’infedele” di Gad Lerner.

Per non dire del “peso massimo” di quel circuito che coinvolge cultura, politica e giustizia: Antonio Di Pietro. Costui il 18 febbraio scorso, al Teatro di Milano, si è commosso perché sarebbe perseguitato “peggio di Berlusconi. A distanza di vent’anni devo ancora spendere il 70% del mio tempo a difendere la memoria di Mani Pulite”. La memoria, appunto. Dovremmo chiederci chi la fa, come la si costruisce, su quali basi, da che punto di vista, in virtù di quali interessi. In questo ventennio abbiamo assistito al montare sempre più dilagante e travolgente di un pensiero unico, dalla forza impressionante, che ricostruiva univocamente quanto accaduto durante la stagione delle monetine e delle manette. Giornalisti di parte, schierati, faziosi, e per questo poco obiettivi, hanno prodotto pagine e pagine di epica giustizialista. Nel 1906, il presidente americano Roosevelt bollò questi reporter come dei muckraker (letteralmente, “rimestatori nel letame”), definizione che si potrebbe facilmente prendere in prestito, anche se i reporter de noantri non hanno certo il piglio di un Upton Sinclair.

Ci sono i crociati del pensiero unico, dunque, ma anche gli eretici, come si autodefinisce Tiziana Maiolo, che abbiamo raggiunto per un’intervista (anche lei ha pubblicato un libro su “Tangentopoli”, Rubbettino 2012): “Oggi Antonio Di Pietro piange ma non si è mai fatto problemi quando ordinava perquisizioni all’alba nelle case degli indagati. Lui ha sempre fatto due pesi, due misure”. Come quando l’allora PM diede un appuntamento a Primo Greganti: “Avevamo fissato un incontro – ricorda il Compagno G. – era da 15 giorni che gli chiedevo di ricevermi. Finalmente ci accordiamo per le undici al Palazzo di Giustizia e lui che fa? Mi manda i poliziotti alle 4 del mattino a casa per arrestarmi”. I metodi di Mani Pulite erano quelli e Di Pietro non sembra averli mai negati. Oppure la storia di Tiziana Parenti, anche lei nel pool di Borrelli, “la cui immagine è svanita da ogni foto ricordo dell’epoca”, aggiunge Maiolo, come le inchieste sulle coop rosse.

Ovviamente nel nostro Paese – tutto il mondo è Paese – ognuno ha la sua parrocchia, le sue idee, qualcosa da denunciare e qualcosa da difendere. Quando le chiediamo dell’allarme lanciato dalla Corte dei Conti sul fenomeno della corruzione negli enti pubblici, Maiolo spiega che sì, oggi la corruzione sembra toccare soprattutto le amministrazioni pubbliche, ma “si tratta di casi singoli, l’epoca di Mani Pulite è finita, Tangentopoli non esiste più, come il finanziamento illecito ai partiti”. E un editoriale di Ferruccio De Bortoli apparso sul Corsera del 15 febbraio sembra darle ragione: “La corruzione è diventata individuale, trasversale, minuta”. Tangentopoli ebbe il merito di “sollevare il velo sull’Italia del malaffare – scrive De Bortoli – ma gli errori e gli eccessi non furono pochi”.

I punti oscuri, le ragioni e gli odii, i processi e il “sangue dei vinti” (43 suicidi tra gli indagati), non sempre hanno percorso fino in fondo le pagine assemblate dai muckraker, quei piccoli dottor Frankenstein dediti alla ricucitura di atti giudiziari (pubblici, per carità…), sempre schierati dalla parte dei PM, e spalleggiati dal fiuto di un’imponente industria del marketing culturale. Memorie, quindi. Egemoniche o minoritarie. La Storia è sempre fatta così.

Così fa bene Giuliano Ferrara a scrivere che “la Repubblica democraticamente corrotta ha lasciato il posto a un falso Paese delle virtù, un luogo di oppressione culturale, di pulsioni etiche ossessive, di scemenze punitive sempre più diffuse che alla fine sono diventate una specie di falso senso comune”, ed è vero che se la politica ha le sue colpe anche chi si erge a moralizzatore ha i suoi scheletri nell’armadio, ma se c’è qualcosa che davvero è rimasto incompiuto in questo ventennio, qualcosa che avrebbe dovuto essere risolto ed è rimasto così com’è, una lezione da trarre dopo la bufera di Mani Pulite, è la mancata riforma della giustizia (penale, a quella civile ci ha pensato l’ex guardiasigilli Alfano): “Quella riforma – conclude Maiolo – deve passare da una riforma costituzionale. Bisogna ripartire dalla Bicamerale e dalla Bozza Boato”, per arrivare ad un giusto processo, alla separazione delle carriere e dei ruoli tra accusa e giudizio, come pure bisognerebbe impedire ai magistrati che hanno ricoperto incarichi pubblici, e sono diventati sindaci piuttosto che parlamentari, di tornare ad esercitare la loro professione una volta trascorso il mandato.

Riuscirà l’attuale ministro della giustizia a muoversi in questa direzione, per esempio risolvendo il rompicapo dell’emendamento presentato dalla Lega Nord sulla responsabilità civile dei magistrati, e ad  affermarne il principio, dopo che è passato alla Camera a larga maggioranza con voto a scrutinio segreto ed ora è in attesa di essere votato al Senato? Staremo a vedere. Per adesso dobbiamo accontentarci delle celebrazioni, delle rievocazioni e della “industria di Mani Pulite”.

Tratto da l’Occidentale