29 Luglio 2009  

Nel Mezzogiorno una No Tax Region

Redazione

Le proposte di realizzare nel mezzogiorno una No Tax Region con esenzione decennale per nuovi investimenti ed un “Opting out” dal contratto collettivo di lavoro per le imprese residenti al sud in favore di intese regionali o aziendali a scelta del lavoratore si muovono nella giusta direzione.
Quanto alla prima proposta vanno segnalati i seguenti aspetti positivi.
1. Cambia la filosofia della politica economica in favore del Mezzogiorno che storicamente si è caratterizzata per la netta prevalenza delle misure di sostegno attivo. Tali misure (sussidi, contributi, agevolazioni finanziarie) si sono rivelate sostanzialmente inefficienti perché non coglievano con esattezza le cause del mancato decollo dell’economia meridionale. Il problema del Sud non è quello della mancanza di capitali disponibili all’investimento produttivo. I capitali ci sono ,e quandanche fossero insufficienti rimane da spiegare perché non ne arrivano da altre parti del Paese o d’Europa o del mondo. Il vero nodo del differenziale di crescita del mezzogiorno sono le diverse condizioni di redditività dei capitali investiti. Se non si interviene sulle cause di tale minore redditività sono destinate al fallimento tutte le politiche di sostegno al Sud.
2. Un’altra grave causa di inefficienza delle politiche meridionaliste è la natura discrezionale, fortemente discrezionale, che ha caratterizzato la gestione amministrativa degli strumenti di sussidio via via messi in campo. L’idea che ha ispirato tale scelta è che, considerata la limitatezza delle risorse, fosse indispensabile che lo Stato esercitasse una forte funzione valutativa nella selezione dei progetti da sostenere finanziariamente. Ma il carattere selettivo delle misure di aiuto alle imprese si scontra con due gravi problemi. Il primo è di carattere teorico. Al fondo di tale impostazione vi è il classico approccio costruttivistico secondo il quale è possibile ed auspicabile che gli apparati pubblici guidino i processi di sviluppo economico. L’idea è che la burocrazia sia in grado di valutare il merito dell’iniziativa imprenditoriale! Ma anche più grave è l’obiezione di carattere pratico: accettata l’idea che le politiche di sostegno allo sviluppo debbano essere intermediate dalla pubblica amministrazione ne consegue un’inevitabile crescita esponenziale dei costi amministrativi a carico del sistema delle imprese. In un contesto del genere è infatti evidente che l’imprenditore dovrà dedicare una significativa quota di risorse e di tempo allo sviluppo ed al mantenimento di buone relazioni con le strutture dell’amministrazione pubblica. Anche volendo tralasciare le situazioni di malcostume ed i fenomeni di corruttela, è evidente che tali costi di transazione spesso riducono se non annullano i benefici di tali politiche di sviluppo.
3. Negli ultimi anni si è cercato di porre rimedio a tale stato di cose riarticolando la struttura di gestione degli incentivi, coinvolgendo in misura maggiore le regioni, gli enti locali e le parti sociali, nella convinzione che tale coinvolgimento potesse assicurare maggiore coerenza e linearità. I risultati però non sono stati affatto brillanti: anzi la moltiplicazione dei soggetti coinvolti ha finito per determinare un’ulteriore crescita dei costi di transazione ed amministrazione. Il bilancio fallimentare delle procedure di programmazione negoziata inaugurate qualche anno fa (i cui risultati concreti in termini di maggiore occupazione sono clamorosamente fallimentari) parla da solo.
4. In questa prospettiva, l’idea di introdurre strumenti di vantaggio fiscale per il mezzogiorno è assolutamente positiva. Attraverso una riduzione del carico fiscale sulle imprese che operano al Sud si riuscirebbe ad intervenire direttamente sul differenziale di redditività dell’attività di impresa e pertanto si renderebbe estremamente più attraente l’investimento in quell’area del Paese. Il carattere non selettivo di tale misura agevolativo, inoltre, abbatterebbe i costi amministrativi connessi alla stessa, rendendo molto più rapida ed efficace l’azione di recupero di produttività del Sud.
5. Un altro aspetto positivo della proposta riguarda la stessa filosofia del sistema fiscale. Ragionando in astratto, un sistema fiscale coerente dovrebbe prevedere unicamente un’imposizione diretta sulle persone. Teoricamente non vi sono valide ragioni per tassare il reddito delle società perché delle due l’una o il reddito delle società viene distribuito ai soci e come tale viene tassato o rimane nella società (per essere reinvestito o accantonato) ed allora non si comprende la ragione del prelievo.
6. Naturalmente una misura come l’azzeramento dell’Ires (imposta sulle società) per tutte le imprese operanti al Sud andrebbe incontro ad alcuni rilevanti ostacoli di carattere politico, economico ed amministrativo che devono essere adeguatamente considerati:
– sostenibilità finanziaria. Gli oneri di una misura del genere sono rilevanti (circa 4 mld per anno) ma non insostenibili in assoluto. Agli oneri diretti andrebbero però sommati quelli indiretti derivanti dalla rilocalizzazione di imprese operanti nel centro nord (di difficile quantificazione).
– sostenibilità politica. Una misura di vantaggio così netta per una sola area del Paese risulterebbe politicamente indigeribile per le altre e ciò inevitabilmente determinerebbe grossi ostacoli nella concreta adozione della misura stessa.
– concorrenza fiscale nociva. Attraverso il completo azzeramento dell’imposta sulle società per le imprese operanti al sud si rischierebbe di introdurre un forte fattore di distorsione del mercato, premiando imprese meno efficienti a danno di altre più efficienti, anche nei casi in cui il differenziale di efficienza deriva non solo da fattori esogeni reativi all’ambiente territoriale in cui operano ma anche da fattori endogeni relativi alla conduzione stessa dell’impresa.
– Imprese individuali. Il semplice azzeramento dell’Ires rischierebbe di penalizzare le imprese individuali (numerosissime al Sud) che sono soggette all’imposta sule reddito delle persone fisiche (IRE). Andrebbe quindi anche previsto l’azzeramento dell’IRE sui redditi di impresa delle imprese individuali (con conseguente aumento degli oneriI
7. Per tali ragioni una misura come la detassazione del reddito delle imprese meridionali andrebbe assunta con modalità tempi e misure tali da renderla “praticabile”. In particolare, la misura del beneficio fiscale andrebbe parametrata al valore dei costi che le imprese meridionali sopportano per il solo fatto di operare in quell’area del Paese. Dovrebbe avere un orizzonte temporale ragionevolmente limitato ed essere adeguatamente graduata nel tempo. Ulteriore fattore di praticabilità sarebbe rappresentato dalla riserva della misura solo alle piccole imprese (che sono quelle più penalizzate dai costi “ambientali”). Da valutare anche una limitazione alle sole nuove imprese meridionali, che finalizzerebbe maggiormente la misura all’attrazione di nuovi investimenti.
8. A fronte di una misura del genere dovrebbe essere valutato l’azzeramento delle altre forme di sussidio o contributo delle quali a diverso titolo godono esclusivamente le imprese meridionali. Ciò non solo renderebbe più praticabile la misura dal punto di vista degli equilibri di bilancio, ma renderebbe anche più chiara e leggibile la “filosofia” della misura come nuovo approccio alla politica per il Mezzogiorno.
9. Imposta secondo questo approccio una misura di detassazione potrebbe anche superare lo scoglio del giudizio di compatibilità comunitaria. La UE ha da tempo affermato che anche le agevolazioni fiscali rientrano in quanto tali nell’ambito della disciplina sugli aiuti di Stato. Naturalmente tali misure possono essere ritenute legittime se finalizzate al sostegno di aree svantaggiate. Ma naturalmente anche in questo caso devono essere configurate in modo (entità, durata, estensione territoriale, finalizzazione) tale da non integrare forme di concorrenza fiscale nociva.
10. Per quanto concerne l’”Opting out” è da segnalare come il recente accordo quadro raggiunto dal Governo fra le parti sociali (son il dissenso della sola CGIL) rappresenta già un punto importante di riforma del sistema negoziale. L’accordo ha introdotto una netta differenza fra il contratto nazionale, al quale è demandata la sola finalità del recupero del potere di acquisto, ed il contratto integrativo (aziendale o territoriale), al quale compete il riconoscimento ai lavoratori degli incrementi salariali connessi all’aumento di produttività. Ciò consentirà una politica salariale non più vincolata al totem del contratto collettivo nazionale e più attenta alle concrete dinamiche produttive delle singole imprese. Una politica salariale più moderna e flessibile e soprattutto più attenta alle necessità di crescita produttiva del Sud. Naturalmente la proposta dell’”opting out” è diversa perché consente alle imprese meridionali di praticare condizioni salariali più basse rispetto allo stesso contratto nazionale. Un’ipotesi del genere è evidentemente dirompente rispetto ai modelli consolidati ed anche rispetto a quelli appena definiti. Anche in questo caso si pone pertanto un problema di praticabilità politica. In ogni caso andrebbe verificata con le parti sociali. Un’ipotesi ragionevole potrebbe essere quella di prevedere tale possibilità unicamente per le nuove imprese, per un limitato periodo di tempo e previo accordo con (almeno la maggioranza del) le organizzazioni sindacali.