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Sono d’accordo con Quagliariello. Nell’area politico-culturale del centro-destra si confrontano due diverse sensibilità rispetto ai problemi che sono sul tappeto. Crisi economica, immigrazione, questioni religiose, questioni bioetiche: tutto sembra riconducibile a due diversi modi di guardare la modernità. Da una parte ci sono coloro che, prendendo per buona la tesi della “passione per il neutro” e dell’”imperativo eretico”, guardano al mondo odierno come a un luogo di depotenziamento progressivo della tradizione e delle antiche “lealtà”. Per dirla con Touraine, costoro mirano a “rinnovare la democrazia” prendendo per buono il relativismo. Dall’altra ci sono invece coloro che, pur accettando la tesi del pluralismo, della multietnicità, diciamo pure, di una certa rottura operata dal moderno rispetto alla tradizione, ritengono che le istituzioni liberaldemocratiche abbiano bisogno di un senso comune condiviso, difficilmente compatibile con il relativismo, e aperto piuttosto alla dimensione religiosa.

Saranno i fatti a dire in che misura queste due diverse sensibilità sapranno convivere all’interno di uno stesso soggetto politico. In ogni caso spero sia chiaro a tutti che uno stato liberale di diritto non può essere uno “stato etico”, ma non può essere nemmeno uno stato indifferente ai riferimenti assiologici dei suoi cittadini, altrimenti c’è il rischio che vengano meno le condizioni stesse della sua liberalità.

Come si diceva sopra, ciò che marca le differenze politiche nella nostra società complessa indica in ultimo una presa di posizione rispetto alla modernità; più precisamente, si potrebbe anche dire che tutto dipende ormai dall’idea che abbiamo della nostra libertà e dignità. Per alcuni la salvaguardia dei diritti della persona implica il riconoscimento di una loro base, diciamo così, “naturale”, per altri no e rivendicano, ad esempio, il diritto al matrimonio tra omosessuali; per alcuni il diritto alla vita implica che esso venga tutelato fin dal primo concepimento, per altri no e rivendicano il diritto della donna ad abortire o il diritto a produrre e ad usare embrioni umani per la ricerca; per alcuni la convivenza tra individui appartenenti a culture differenti è soprattutto una questione di rispetto della dignità della persona, nonché della tradizione culturale che l’ha resa possibile (quella ebraico-cristiana), per altri invece è soltanto un problema di tolleranza, nella convinzione che tutte le culture abbiano lo stesso valore e che tutti abbiano diritto alla propria “differenza”. Ebbene non credo che sia difficile vedere dietro questi esempi un genere di conflitti assai diversi rispetto a quelli che la politica era abituata a gestire fino a una ventina d’anni fa.

Lo stesso si potrebbe dire sui diversi modi di guardare e di affrontare la crisi economica: per alcuni essa significa la necessità di far valere nel mercato internazionale alcune “regole” che ne impediscano le degenerazioni che si sino verificate soprattutto nel sistema economico-finanziario americano, per altri il definitivo tramonto del mercato e dell’economia capitalistica in quanto tali, confondendo così, proprio come paventa Quagliariello, “una crisi profonda, dovuta a cause congiunturali che hanno avuto epicentro negli Stati Uniti, con una crisi strutturale del liberal-capitalismo o, addirittura, della liberal-democrazia”. Esiste insomma una differenza sostanziale tra un conflitto che si sviluppa, poniamo, tra chi preferisce dare più sostegno alle imprese che alla spesa sociale, contrastare il debito pubblico piuttosto che la disoccupazione o cose simili, e un conflitto che si sviluppa invece sul diritto alla vita, alla propria identità culturale o sul diritto alla libertà economica in quanto tale. Se nel primo caso abbiamo un conflitto del tutto compatibile con un partito che voglia essere pluralista, capace addirittura di arricchirlo, nel secondo abbiamo a che fare con qualcosa che, alla lunga, potrebbe minarlo in profondità, creando divisioni inconciliabili al suo interno.

Un partito, per quanto ampiamente rappresentativo come il PdL, ha bisogno di un popolo e di una leadeship che si trovino d’accordo non soltanto su alcuni fini da raggiungere -poniamo, il superamento della crisi economica, l’ammodernamento dello stato, la promozione delle libertà individuali, una maggiore equità fiscale e più sicurezza per i cittadini-, ma anche su alcuni principi “fondanti” le modalità del loro conseguimento, primi fra tutti la libertà e la dignità delle persone. A richiedere questo accordo è la natura stessa delle sfide con le quali dobbiamo fare i conti. Per fare qualche esempio, di fronte ai costi economici di certe malattie, qualcuno potrebbe pensare di sottoporre gli embrioni o i feti umani a test genetici che ne garantiscano la “qualità” prima di farli venire al mondo; una campagna sistematica in favore dell’eutanasia potrebbe essere una buona strategia per alleggerire i costi di una vita che, diventando sempre più lunga, produce un numero crescente di persone anziane non autosufficienti; la tecnologia della riproduzione potrebbe diventare il modo più efficiente per regolamentare le nascite e fronteggiare il problema demografico; microchip cerebrali potrebbero diventare la soluzione per molti problemi di ordine pubblico, e si potrebbe continuare. In ogni caso la biopolitica è già da tempo è entrata in azione in questi campi. Ma proprio per questo, e a maggior ragione, non si possono perdere di vista i principi che stanno a fondamento di una determinata identità politica. Ci si esporrebbe al rischio di diventare “nessuno”. E questo significherebbe la fine per qualsiasi partito politico.

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