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di Roberto Santoro

 

Se facciamo un po’ di storia internettiana vale la pena ricordare il nome di Howard Rheingold, il papà delle ‘web community’, che nel 1991 scrive un testo basilare per comprendere il mondo delle nuove relazioni artificiali. Il libro si intitola “La realtà virtuale” e racconta di simulazioni militari americane alle Hawaii, di laboratori di robotica giapponese, di garage dell’underground informatico londinesi e di avveniristici centri di ricerca ingegneristica francesi. E’ il romanzo della globalizzazione informatica.

L’autore racconta le diverse fasi di sviluppo della comunità virtuali: quelle di prima generazione funzionano grazie alle chat, ai forum, agli avatar; quelle di seconda generazione hanno a disposizione tecnologie ancora più avanzate per favorire la condivisione di esperienze ed informazioni tra gli utenti: sono i grandi social network come facebook e twitter, con milioni di iscritti.  Ma non si tratta solo di tecnica.

Il successo di una web community riguarda essenzialmente la costruzione di relazioni fra le persone e costruire relazioni richiede molto tempo e molte risorse. Facciamo il caso di una community sui cani. Nasce e cresce intorno ad un particolare target di persone, gli amanti dei cani. Evolve e si sviluppa fino a diventare un punto di riferimento sull’argomento. Poi gli utenti iniziano a discutere sempre più animatamente ed emergono posizioni e visioni contrastanti su cosa significa avere un cane. Si litiga e qualcuno se ne va anche sbattendo la porta. A quel punto il discorso si è sposta su una dimensione che non riguarda più soltanto il mondo degli animali: l’argomento è diventato la nostra vita quotidiana presa nella sua interezza.

E’ evidente che il discorso sulla costruzione di relazioni tocca da vicino la politica: organizzare una comunità significa infatti articolare una visione della realtà, accrescere le aspirazioni per il futuro. Entriamo a far parte di una comunità perché sentiamo di poter condividere con essa una parte della nostra identità. Si tratta quindi di una “connessione emotiva”, di una scintilla che non può scoccare se ci affidiamo solo alla dea ragione.

Molti uomini politici trascorrono giorni interi con i loro strateghi elettorali per studiare delle tattiche che gli facciano acquisire visibilità su Internet, nuovi amici su facebook e followers su twitter. Si tratta senza dubbio di una pianificazione necessaria per gestire il consenso e magari vincere le elezioni, anche grazie al web. Ma non riusciremo mai a coinvolgere emotivamente gli altri se non rispondiamo prima ad una domanda centrale e la domanda è: Perché ci stiamo impegnando? Cosa stiamo cercando di fare? Quali sono i valori alla base della nostra missione? Una missione, per riuscire, richiede certamente delle tattiche e delle strategie, ma se non partiamo dai valori che ci spingono ad affrontarla non riusciremo mai a coinvolgere gli altri.

Creare una comunità politica vuol dire definire un set di valori condivisi che spingano le persone ad entrare in un’organizzazione e ad impegnarsi per essa. Se un individuo si riconosce in dei valori  – per noi è quello della centralità della persona umana – allora si impegnerà fino in fondo e volontariamente per il bene della comunità: proviamo sempre il desiderio di entrare a far parte di qualcosa che è più grande di noi. Dobbiamo sviluppare un clima di fiducia. Avere cose interessanti da dire che coinvolgano la sfera emotiva e valoriale dei nostri amici. Essere anche una fonte d’informazione credibile. Il rispetto e la inclusione sono due parole chiave in questo processo.

Le comunità virtuali, in ogni caso, non raggiungono il loro scopo politico se l’engagement resta semplicemente quello di scrivere al pc seduti sul divano di casa. Al contrario, dobbiamo sporcarci le mani, mobilitarci nella realtà.

(Network e politica, una lezione alla Winter School di fMC – Abruzzo 2012)