"Non possiamo mettere il governo nelle mani dei pentiti"
“Non possiamo mettere il governo nelle mani dei pentiti. Se non reagiamo adesso, rischiamo di essere travolti in futuro: il caso Cosentino può essere l’anticipazione del caso Spatuzza”. Nel senso di Gaspare, il collaboratore di giustizia che accusa Silvio Berlusconi di essere stato il referente della mafia e di aver avuto un ruolo attivo nelle stragi del 1993. Nel giorno in cui il Senato vota sulle mozioni di sfiducia nei confronti del sottosegretario all’Economia presentate dall’opposizione, Gaetano Quagliariello, vicecapogruppo vicario del PdL a Palazzo Madama, chiama alla mobilitazione i senatori della maggioranza: “Questo è un voto preventivo per impedire che il pentitismo sia usato a fini politici, dal gruppo mi aspetto l’unanimità”. Cedere su Cosentino, avverte, rischia di “aprire una stagione politica” mirata a colpire Silvio Berlusconi, già tirato in ballo dalle dichiarazioni in arrivo da Palermo.
Cosa si nasconde dietro il voto di oggi?
“Il pericolo di un prossimo salto di qualità. Dal 1994 corriamo il rischio che il verdetto degli elettori sia messo in dubbio dalle iniziative di alcuni pm politicizzati. Adesso, se diamo il via libera alle dimissioni di Cosentino, affidiamo di fatto la composizione del governo ai pentiti”.
Quale messaggio manda ai suoi colleghi della maggioranza?
“Dobbiamo avere la lucidità di comprendere che il ‘caso Cosentino’ non è che l’inizio e che presto ci potremmo trovare di fronte a situazioni ancora più difficili”.
A cosa si riferisce?
“A inchieste basate su pentiti che potrebbero essere portate alle estreme conseguenze politiche. Fino a colpire, in un prossimo futuro, il vertice del governo”.
Cosa si aspetta dal voto di oggi?
“Una comprensione del momento storico che stiamo vivendo. Il PdL deve tornare a sventolare con orgoglio le bandiere del garantismo, che non sono mai state le bandiere dell’impunità”.
Ma anche Paolo Cirino Pomicino, su questi temi di certo non ostile al centrodestra, ha auspicato un passo indietro di Cosentino.
“Le situazioni non vanno considerate in astratto, ma nel momento storico in cui si verificano. Solo così è possibile capire cosa fare per difendere lo Stato di diritto. E oggi, per salvaguardare l’autonomia della politica rispetto alla magistratura e ai pentiti, è necessario che il passo indietro non ci sia”.
Nel PdL non tutti la pensano così. L’area finiana è stata la più decisa nel chiedere le dimissioni del sottosegretario.
“Anche chi la pensa in maniera diversa non può augurarsi che il pentitismo si trasformi in un fenomeno in grado di agire direttamente sulle sorti del governo al punto da causare le dimissioni dei suoi componenti. Non è possibile, alla luce dello squilibrio tra politica e magistratura, aggravato dalla bocciatura del ‘lodo Alfano’, chiedere l’inversione dell’onere della prova”.
Che intende dire?
“Non è possibile, di fronte alle accuse di qualsiasi pentito, rassegnare le dimissioni in attesa che l’indagato dimostri la sua piena innocenza, come vorrebbe il Pd. Deve valere il criterio contrario”.
Cosa non la convince dell’inchiesta a carico di Cosentino?
“Basta riepilogare i tempi. Le accuse dei pentiti risalgono ai primi anni Novanta; il fascicolo giudiziario è del 2001; L’Espresso riprende le accuse nell’autunno del 2008 e l’iscrizione nel registro degli indagati avviene il 12 febbraio 2009. Cinque giorni dopo, il pm produce la richiesta di arresto, che il gip firma solo il 7 novembre successivo. Si è trattato di un lavoro a rate, che si è consolidato per sedimentazioni successive sistematicamente anticipate a mezzo stampa e senza che Cosentino abbia mai avuto la possibilità di essere ascoltato”.
Cosa pensa dell’ordinanza?
“Roberto Saviano l’ha definita un trattato di un ‘trattato di antropologia e sociologia, non solo un documento giudiziario’. Condivido, con una variante: sembra un trattato di antropologia e sociologia più che un documento giudiziario”.
Cosentino è ancora il candidato ufficiale del centrodestra alla Regione Campania. Come vi comporterete?
“Si tratta di due piani distinti. Mentre nel caso delle dimissioni dall’esecutivo consegneremmo ai pentiti l’autorizzazione, e la legittimazione, a intervenire sulla composizione dei governi, rinunciare alla candidatura potrebbe essere motivato dal non voler scaricare sull’elettorato un giudizio diverso da quello politico. Anche in questo caso vale l’opportunità politica, ma il discorso è diverso”.