Obama non incanta Mosca. Tra USA e Russia cresce la tensione
La prima visita di Barack Obama in Russia può essere considerata un importante indicatore dello stato attuale dei rapporti tra Washington e Mosca. Come sua caratteristica, Obama ha preparato con la massima cura larappresentazione dell’evento, in modo da consolidare la percezione circa l’apertura di una nuova era di dialogo e comprensione nelle relazioni russo-americane coincisa con la sua elezione alla Casa Bianca e l’uscita di scena di George W. Bush. Il racconto offerto dal “mainstream” dei mezzi di comunicazione conferma in effetti questa versione. L’intesa sulla riduzione degli armamenti strategici non convenzionali, che dovrà costituire la base del trattato che prenderà il posto dello START (Strategic Arms Reduction Talks) in scadenza a dicembre, è stata salutata come un grande successo della linea obamiana proiettata verso un mondo senza armi nucleari. Si tratta del primo passo concreto verso una ricomposizione delle divergenze con Mosca generate in precedenza dalle politiche dell’amministrazione Bush? Il piano della realtà, in realtà, è ben diverso.
E’ vero che il clima nel quale si sviluppa oggi il confronto tra Russia e Stati Uniti sembra improntato se non al ritorno allo spirito di Pratica di Mare (rievocato recentemente a Corfù nel primo Consiglio NATO-Russia dalla guerra russo-georgiana dell’agosto 2008), quanto meno alla ricerca di una qualche forma di accomodamento che sia funzionale nel breve-medio periodo; ed è vero che ciò è coinciso con l’avvento di Obama e del famoso «reset button» che ha costretto Putin a mettere da parte la retorica antimperialista cui aveva abbondantemente fatto ricorso come arma politico-mediatica contro gli Stati Uniti di Bush. Ma è altrettanto vero che la risoluzione delle numerose questioni pendenti tra Casa Bianca e Cremlino post-sovietico somiglia sempre di più ad un gioco a somma zero. Le parti ne sono consapevoli e molto probabilmente seguiranno ognuna le rispettive e antitetiche direttrici strategiche.
Per questo motivo, Obama, pur avendo provato, nella sua unica impennata alla vigilia del viaggio, a creare una breccia nel duumvirato al potere a Mosca («Dmitry Medveded capisce che la Guerra Fredda è finita, Vladimir Putin ancora no.»), sia con Putin che con Medvedev si è ben guardato dall’affrontare apertamente gli argomenti più spinosi, come lo scudo antimissile, l’Iran, l’allargamento della NATO e l’indipendenza di Abkhazia e Ossezia del Sud, a tutela dell’immagine della sua missione in terra russa. D’altronde, gli spazi per fare concessioni all’avversario, indispensabili per la buona riuscita di un negoziato, sono estremamente ridotti. Il Cremlino ha messo a disposizione il territorio e lo spazio aereo russi per il transito di personale e materiale militare americano diretto in Afghanistan, e ha dato il via libera affinché gli Stati Uniti possano continuare ad avvalersi della base aerea kirghiza di Manas, dopo che su pressione di Mosca le autorità di Bishkek avevano deciso di revocare agli americani l’utilizzo della struttura: misure di confidence building tese a mettere in risalto la (sembianza di) disponibilità russa ad acconsentire alle richieste della Casa Bianca, da un lato; una maniera per ricordare a Washington che le vie del Grande Gioco in Asia centrale e verso l’Afghanistan passano per Mosca, dall’altro. Si tratta, però, di concessioni minori, a dir tanto, rispetto a quanto gli Stati Uniti vorrebbero dalla Russia, con particolare riferimento al dossier iraniano, autentica spina nel fianco dell’amministrazione Obama.
Il Cremlino potrebbe spendere i suoi buoni uffici per indurre gli iraniani ad accettare dei meccanismi di controllo sul loro sospetto programma nucleare che ne certifichino e garantiscano effettivamente gli scopi pacifici. E qualora gli iraniani si dimostrassero irriducibili fino alla fine, senza Mosca sarebbe praticamente impossibile isolare Teheran diplomaticamente e attraverso l’implementazione di un regime sanzionatorio davvero efficace. La leadership russa, tuttavia, pur, appoggiando ufficialmente la diplomazia della “mano tesa” di Obama e considerando lecito soltanto l’uso civile del nucleare, continua a tenere sulle spine l’amministrazione americana. L’aver bloccato la vendita all’Iran del sofisticato sistema antiaereo Sa300, composto da missili e rampe di lancio non neutralizzabili preventivamente, in grado di distruggere gli aerei israeliani in caso di raid contro i siti nucleari iraniani, viene considerata già una prova più che sufficiente di collaborazione.
Nel tentativo di ammorbidire la posizione della leadership russa sull’Iran, Obama ha messo in stand by l’installazione del sistema di difesa antimissile in Europa centrale, ma difficilmente potrà andrà incontro alle richieste del Cremlino: Washington non può rinunciare in toto al progetto, vista l’incombente e irrisolta minaccia di proliferazione nucleare, e neppure realizzarlo in pool con Mosca, il che renderebbe i russi co-garanti dello spazio di sicurezza euro-atlantico. Nondimeno, il congelamento dello scudo, suo malgrado, potrebbe fare il gioco di Putin, il quale ha tutto da guadagnare nel dilazionare i tempi, alzando contemporaneamente il prezzo di una mediazione con l’Iran. In quest’ottica, il rilancio della vecchia base russa di Gabala in Azerbaijan, già cassata ai tempi di Bush, in luogo del sito già individuato in Repubblica ceca per il dislocamento del radar, ha tutta l’aria di un diversivo con cui distrarre l’amministrazione americana, che ha appunto inviato il vice segretario di stato, James Steinberg, a visionare la base in segno di attenzione verso le proposte di Mosca, pur precisando che il dislocamento del radar in territorio ceco non è in discussione.
Per il Cremlino è una questione meramente politica e di prestigio, dal momento che lo scudo non andrebbe a rompere l’equilibrio strategico a sfavore della Russia e delle sue migliaia di testate nucleari multiple e non, e che il raggio d’azione dei missili intercettori da installare in Polonia è finalizzato a neutralizzare una minaccia di missili balistici a lungo raggio provenienti dal sudovest asiatico (Iran e Corea del Nord) e non consente di colpire missili di corto e medio raggio lanciati da territori prossimi come quelli della Federazione russa. Eppure, la Russia di Putin, rifiutando culturalmente il rango e il ruolo internazionali che le vengono assegnati dalle sue stesse capacità, (in primis economiche e quindi tecnologiche e militari), vede simbolicamente nella realizzazione dello scudo un’ulteriore prova del suo declassamento a vantaggio del competitor americano, che come nella guerra fredda resta il parametro con cui Mosca misura il proprio status di potenza. Di conseguenza, la Russia preferisce porsi in antitesi alla comunità euro-atlantica e non collaborare con essa nella risoluzione delle crisi, schierandosi al fianco di attori, statuali e non, che si contrappongono all’Occidente, da utilizzare come leve per accrescere il proprio peso strategico, a quanto pare senza considerazione dell’escalation di conflittualità generata da una simile condotta.
Nel discorso alla New Economic School di Mosca, Obama ha appositamente cercato di blandire l’ego dell’Orso russo («L’America desidera una Russia forte, pacifica e prospera. […] Le sfide di oggi richiedono una partnership globale e questa partnership sarà più forte se la Russia occupa la sua giusta posizione di grande potenza.»), ma trattare un simile interlocutore su un piano di parità, benché contribuisca a rafforzare il consenso di Putin di fronte all’opinione pubblica interna, certo non basterà a ottenere il via libera al dislocamento dello scudo. Ecco, allora, che l’intesa sulla riduzione di vettori e testate nucleari potrebbe rientrare nell’opera di persuasione intentata dal presidente americano. Posto che la logica che sarà alla base del nuovo START non corrisponde alla tanto acclamata nuova frontiera della denuclearizzazione, bensì all’approntamento di arsenali nucleari più piccoli ma efficienti, sia Washington che Mosca hanno interessi economici e di politica militare che li conducono verso un accordo. Per quest’ultima, tuttavia, il disarmo assume una valenza strategica superiore, in ragione delle pessime condizioni in cui versa l’economia russa, aggravatesi straordinariamente con la crisi in corso e il calo delle entrate derivanti dal settore energetico.
La riduzione delle testate a un numero variabile da 1.500 a 1.675 (rispetto alle 2.200 previste dal Trattato di Mosca del 2002) e dei vettori a 500-1.000, consentirebbe alla Russia di conseguire un duplice obiettivo: mantenere un deterrente nucleare credibile, dismettendo quella consistente quota di sistemi di trasporto ormai obsoleta per reinvestire i risparmi in sistemi d’arma nuovi di zecca; raggiungere la parità nucleare con gli Stati Uniti, che il Cremlino è lontano anni luce dal potersi permettere, riequilibrando il peso contrattuale dei due paesi al tavolo delle trattative. Con il trattato che succederà allo START, pertanto, gli Stati Uniti accetterebbero di ridurre il livello della competizione nucleare a vantaggio della Russia, in cambio del sì al sistema di difesa missilistica da schierare in Polonia e Repubblica ceca nel quadro della NATO.
Lo scudo è divenuto una priorità assoluta per la sicurezza euro-atlantica, alla luce del vicolo cieco in cui l’Iran ha gettato l’Occidente sulla questione nucleare. Le opzioni per venire a capo della minaccia di proliferazione iraniana si stanno riducendo all’essenziale. La rivolta contro il regime khomeinista, scoppiata in seguito alla contestata riconferma di Mahmoud Ahmadinejad alla presidenza della Repubblica islamica, e le forti turbolenze nella dirigenza dello stesso regime, non favoriscono la politica della “mano tesa” lanciata da Obama. Il presidente americano ha scelto finora di restare cauto, se non imparziale, rispetto alle vicende interne iraniane, per non delegittimare il regime khomeinista e non rompere irreparabilmente la finestra di dialogo, lasciando aperto almeno uno spiraglio al vagheggiato grand bargain che ha nelle ambizioni nucleari di Teheran il suo punto centrale.
Per non irritare oltremodo i nervi più che mai scoperti delle autorità iraniane, e d’accordo con Mosca (e Pechino) seppur da ottiche diametralmente opposte, Obama ha pure sorvolato sulla ventilata possibilità di comminare nuovi sanzioni, eventualmente rinviata al G20 di Pittsburgh del prossimo settembre, dettando la linea morbida che ha poi prevalso al G8 dell’Aquila (8-10 luglio), che era stata già anticipata alla “ministeriale” di Trieste (25-27 giugno). Una linea accettata dai paesi europei, nonostante il fatto che Francia e Gran Bretagna avrebbero forse preferito toni più duri e una condanna autentica della Repubblica islamica. La ricercatrice francese, Clotilde Reiss, arrestata con l’accusa di spionaggio, è infatti sempre nelle mani delle autorità iraniane, mentre i diplomatici britannici accusati di ispirare e fomentare le proteste non erano ancora stati tutti liberati, benché anche dopo il loro rilascio la tensione tra Teheran e Londra sia rimasta molto alta, a causa dei continui attacchi rivolti al governo britannico per le sue presunte ingerenze negli affari interni iraniani. Gli otto “Grandi” si sono perciò limitati a deplorare le violenze scoppiate in seguito alle elezioni del 12 giugno e ad esprimere preoccupazione per gli eventi in corso, il tutto nel «pieno rispetto della sovranità dell’Iran», così che gli Stati Uniti potessero mettersi al riparo dall’accusa di voler fomentare un cambiamento di regime, convalidando al contempo un “principio”, quello della non ingerenza negli affari interni di altri paesi, che guarda caso sta molto a cuore alla Russia (oltre che alla Cina, ed ai restanti regimi antidemocratici e illiberali del mondo.
La risposta iraniana non si è fatta attendere. Il ministro degli Esteri, Manoucher Mottaki, convitato di pietra a Trieste, ha annunciato la predisposizione di un pacchetto negoziale da discutere con l’Occidente, comprendente la vasta gamma delle questioni pendenti, fuorché il nucleare. La linea morbida sembra dunque agevolare il regime khomeinista, che con l’allentamento della pressione internazionale riesce a trovare vie di fuga con maggiore facilità, proseguendo indisturbato lungo la sua strada senza ritorno. Il contenzioso sul programma nucleare iraniano si fa pertanto sempre più scottante. L’impressione che si ricava dall’atteggiamento di Washington è un misto di nervosismo, impotenza, rassegnazione all’idea di un Iran dotato di capacità nucleari militari (anche se non ufficialmente dichiarate) e scarsa predisposizione politica ad assumersi la responsabilità di fronteggiare le conseguenze della bomba iraniana. Il segretario di Stato, Hillary Clinton, se da un lato prova a fare “l’uomo forte” dell’amministrazione Obama, alzando la voce contro la Repubblica islamica e fissando a dicembre la deadline per il raggiungimento di un accordo, dall’altro prospetta la garanzia dell’ombrello nucleare americano per Israele. Mentre il vice presidente, Joe Biden, sempre con riferimento a Israele, ha dichiarato che gli Stati Uniti non possono imporre la propria volontà a un altro paese sovrano, facendo intendere che la sua amministrazione si dissocerà da un intervento mirato israeliano contro le infrastrutture nucleari della Repubblica islamica. Obama ha chiuso il cerchio, esprimendo a chiare lettere la sua assoluta contrarietà a un attacco sferrato dalle forze di Israele.
Di fronte alle condizioni di estrema difficoltà in cui si trovano gli Stati Uniti alle prese con il dossier iraniano, Medvedev ha appunto sottolineato l’importanza della partnership tra Mosca e Teheran. A destare le maggiori preoccupazioni, dice il presidente russo, dovrebbe essere la minaccia nucleare della Corea del Nord (che il G8 ha condannato, e non semplicemente deplorato, per i suoi ripetuti esperimenti missilistici), sebbene ad oggi il Cremlino non abbia profuso grande impegno per aiutare gli Stati Uniti a disinnescare la minaccia rappresentata dal regime di Kim Jong-il: «Pyongyang […] non ha alcun dialogo con il resto del mondo», ha precisato Medvedev, mentre con il regime khomeinista i canali diplomatici sono aperti e parlano russo. Come ormai sempre più russo e meno georgiano parlano Abkhazia e Ossezia del Sud. La prima visita ufficiale di Medvedev a Tskhinvali, capitale della regione separatista osseta, data 13 luglio, appena dopo la visita di Obama a Mosca e il G8 dell’Aquila: un monito lanciato ad Unione Europea e Stati Uniti, per ricordare che la Russia resta la principale forza militare in un’area potenzialmente esplosiva come il Caucaso.
Di grande significato, allora, è stata la contromossa di Washington. Biden ha subito preso la volta di Ucraina e Georgia, ricordando il blitz a Tbilisi del suo predecessore, Dick Cheney, sulla scia dell’invasione russa della Georgia. Biden non ha fatto esplicito riferimento all’allargamento della NATO, ma ha voluto rassicurare i presidenti Yushenko e Saakashvili che il tentativo di Washington di “azzerare” i rapporti con la Russia non sarà portato avanti a spese di Ucraina e Georgia. Segno che la NATO continua a mantenere fermo il principio della libertà di scelta per quei paesi europei che, una volta completato il processo di consolidamento di istituzioni libere e democratiche, intendono fare il loro ingresso nello spazio euro-atlantico di sicurezza e prosperità. Nessun riconoscimento ad alcuna zona di esclusiva influenza russa, dunque. Sulla questione non c’è Iran che tenga, con buona pace dello spirito di Pratica di mare.