Pentiti: rispettare la civiltà giuridica fa bene (anche) alla lotta contro la mafia
Il dibattito sulla revisione della normativa che disciplina l’utilizzo delle dichiarazioni dei pentiti di mafia dovrebbe tenere conto di alcune considerazioni “tecniche” sul piano legislativo, giurisprudenziale e ordinamentale, più che avvitarsi in contrapposizioni spesso ideologiche e strumentali che ne viziano la sostanza.
Lo strumento dei collaboratori di giustizia e nella fattispecie dei pentiti di mafia è fondamentale nella lotta alla criminalità organizzata, tuttavia deve essere disciplinato in modo adeguato perché in caso contrario finirebbe da un lato per ledere i diritti delle persone chiamate in causa e coinvolte in un’inchiesta, dall’altro si rivelerebbe controproducente per il suo stesso fine: combattere la criminalità organizzata. Del resto i casi Andreotti o Tortora hanno già dimostrato che questo rischio c’è ed è reale e che è necessario agire con la massima cautela quando si tratta di verificare le dichiarazioni dei pentiti di mafia.
In altre parole è lo Stato che deve utilizzare i collaboratori di giustizia per smantellare le centrali della criminalità e non il contrario. Il rischio, altrimenti, è che si rendano dichiarazioni al solo scopo di realizzare oscure manovre di potere o di ottenere indebitamente i benefici previsti dalla legge.
Chiedere che alle dichiarazioni dei pentiti di mafia debbano seguire riscontri oggettivi che ne attestino la fondatezza è un fatto logico, peraltro previsto dalla normativa vigente, nonostante sul piano giurisprudenziale si siano allargate le maglie. Come nel caso in cui due pentiti rendano dichiarazioni simili che, anche senza alcun riscontro oggettivo, si tende a considerare come fonti di prova processuale. Proprio per questo occorrono criteri di rigore e cura perché una gestione inadeguata dei collaboratori di giustizia rischia di vanificare proprio quegli obiettivi di giustizia che invece si intende perseguire.
Sul piano metodologico, occorre garantire che le dichiarazioni dei pentiti di mafia vengano acquisite durante la fase delle indagini e successivamente sottoposte a riscontri accurati prima di essere rese note. Questo per evitare che proprio durante la fase investigativa assumano già un valore in sé e possano in qualche modo “condizionare” (o “viziare”) l’accertamento della loro fondatezza e comportare così gravi ripercussioni non solo per l’esito delle indagini ma anche per le persone chiamate in causa.
Una gestione attenta dei pentiti di mafia oltre ad essere dettata da esigenze oggettive, appare dovuta sulla base dei principi deontologici degli avvocati dell’accusa. E ciò è tanto più vero nel contesto italiano nel quale la pubblica accusa è sostenuta da magistrati che appartengono all’ordine giudiziario. Da questo punto di vista, anzi proprio quella corrente del pensiero giuridico fieramente avversa a qualunque ipotesi di separazione delle carriere dei magistrati, dovrebbe rivendicare con forza che, anche con riferimento alla gestione dei pentiti, i pubblici ministeri si facciano interpreti di quella cultura della giurisdizione che ha tra i propri elementi fondamentali i principi del garantismo, del rispetto dell’imputato e del diritto alla difesa.