08 Febbraio 2011  

Per un’etica della comunicazione in ambito bio-sanitario

Redazione


1. Introduzione: a partire da Casanova

Voglio cominciare questo mio intervento citando Giacomo Casanova. Che cosa ha a che fare il grande seduttore con il rapporto medico-paziente? E soprattutto con la gestione comunicativa di esso? Leggiamo un passo della Storia della mia vita, risalente al 1767. Si tratta dell’episodio che narra della morte del principe Federico, e del modo in cui si svolge, in quest’occasione, la comunicazione medico-paziente da parte del dott. Algardi.

Giunto a Mannheim, trovai che la corte era a Schwetzingen, e vi andai a dormire. Là trovai tutti quelli che cercavo. Algardi si era sposato; il Signor di Sickingen si adoperava per andare a Parigi come ministro dell’Elettore, il Barone Becker mi presentò all’Elettore. Il quinto o sesto giorno che ero là, il principe Federico morì: ma ecco un aneddoto che raccolsi la vigilia della sua morte. Il dottor Algardi era il medico che si era preso cura di lui durante la sua malattia. Il giorno precedente quello della morte di quel bello e coraggioso principe, ero a cena da Veraci, poeta dell’Elettore, quando Algardi arrivò.

“Come sta il principe?”, gli chiesi.

“Al povero principe restano tutt’al più ventiquattr’ore da vivere”:

“Lo sa?”.

“No, spera ancora. Ha appena causato al mio cuore un dolore atroce. Poco fa m’intimò di dirgli la verità senza la minima falsificazione, e mi costrinse a dargli la mia parola d’onore che gliel’avrei detta. Mi chiese se era in assoluto pericolo di morte”.

“E voi gli avete detto la verità”.

“Nient’affatto. Non sono stato così stupido. Gli ho risposto che era verissimo che la sua malattia era mortale, ma che la natura e l’arte potevano fare ciò che volgarmente si chiama un prodigio”.

“Dunque l’avete ingannato? Avete mentito”.

“Non l’ho ingannato, perché la sua guarigione rientra fra le cose possibili. Non ho voluto togliergli la speranza. Il dovere di un medico saggio è di non ridurre mai alla disperazione il malato, poiché la disperazione non può che accelerarne la morte”.

“Eppure ammettete di aver mentito, malgrado la parola d’onore sotto la quale vi ha intimato di dirgli la verità”:

“Non ho neppure mentito, perché so che può guarire”.

“Allora mentite adesso?”

“Neanche, perché morrà domani”:

“Perdio! Non c’è niente di più gesuita di tutto questo”.

“Ma quale gesuitismo? Mio primo dovere è quello di prolungare la vita del malato, per questo ho dovuto risparmiargli una notizia che non poteva che abbreviargliela, quand’anche dovesse essere soltanto di poche ore; e senza menzogna gli ho detto che in fin dei conti non era impossibile. Dunque non ho mentito, e non mento adesso, perché in forza dell’esperienza vi do il pronostico di ciò che secondo la mia previsione deve succedere. Così non mento, perché effettivamente scommetterei un milione che non se la caverà, ma non scommetterei la mia vita”.

“Avete ragione; nondimeno avete ingannato il principe, poiché egli aveva espresso l’intenzione di rilevare da voi, non ciò che già sapeva, ma ciò che voi dovevate sapere per esperienza. Ciononostante, vi concedo che, in qualità di suo medico curante, non potevate accorciare la sua esistenza con la grave notizia. La conclusione che ne traggo è che fate un brutto mestiere” (1).

Doveva dire la verità il dott. Algardi al suo principe? Ma che cosa vuol dire, nello specifico contesto della comunicazione medico-paziente, “dire la verità”? Significa dire senza infingimenti le cose come stanno? Ma come stanno, davvero, le cose nel caso del principe? Può il medico essere colui che ha in mano il futuro del paziente?

Qui si mostra che, davvero, “dire la verità” nel rapporto comunicativo interpersonale può causare effetti decisivi. Tanto più nel caso del legame, gerarchicamente definito, fra medico e paziente. E che dunque è responsabilità del medico assumersi le conseguenze del suo dire la verità al paziente, me soprattutto del modo in cui la dice. Il problema, dunque, non è “dire la verità”: il problema è come dirla.

Il modo in cui essa viene detta dal dott. Algardi lo abbiamo letto. La menzogna, qui, rischia di essere trasformata in verità, e la verità in menzogna. Il tutto con un espediente che sostanzialmente denuncia l’impotenza del medico e dichiara, nella sostanza, che il medico non è un indovino. Restano, per il medico stesso, specifici problemi di coscienza. Resta il fatto, come dice Casanova, che il suo è un “brutto mestiere”.

Abbiamo cominciato con Casanova. Ma perché cominciare con questo autore? È Giacomo Casanova per noi, oggi, il campione di un’etica della comunicazione bio-sanitaria? A questa domanda risponderò alla fine. Perché anzitutto bisogna chiarire che cos’è l’etica della comunicazione.

2. Etica della comunicazione in ambito bio-sanitario

Si parla oggi sempre più spesso, anche in Italia, di “etica della comunicazione”. Il che significa che una serie di questioni che in altri paesi – specialmente, ma non solo, di area linguistica anglo-americana – è posta da alcuni anni al centro di un’articolata riflessione, da qualche tempo è divenuta oggetto di discussione e di approfondimento diffusi pure nel contesto culturale italiano. Molti possono essere i motivi di questo particolare interesse: alcuni appaiono più contingenti, nella misura in cui risultano collegati all’attuale situazione del nostro paese; altri sono dovuti alla diffusione sempre più capillare che i processi comunicativi, nelle loro diverse forme, conoscono nella realtà contemporanea. In entrambi i casi ci si può interrogare con estrema serietà su che cosa significhi “comunicare bene” e su quelle che sono le condizioni e i limiti riguardanti l’attività comunicativa nei suoi vari aspetti. In particolare, all’interno di un dibattito che coinvolge sempre di più anche gli operatori della comunicazione, emerge come decisivo il tema della responsabilità nella comunicazione, con le sue implicanze non solamente deontologiche, ma – appunto – soprattutto etiche.

In questa situazione generale si colloca anche lo specifico ambito del comunicare che è rappresentato dalla comunicazione medica o, più in generale, bio-sanitaria. Si tratta di un campo alquanto vasto, che interessa tutte le pratiche comunicative connesse al sapere e all’agire della medicina: dalla trasmissione di un tale sapere, ad esempio per il tramite dell’insegnamento, all’adeguata comunicazione dei risultati della ricerca scientifica in questo campo, sia alla comunità degli studiosi che ad un più vasto pubblico interessato (com’è il caso, ad esempio, della divulgazione giornalistica); dalla gestione del rapporto tra medico e paziente, considerata nei termini di una relazione personale, all’organizzazione di una vera e propria comunicazione sanitaria, quale quella che enti pubblici come le ASL e le Aziende ospedaliere sono chiamate, anche per legge, a realizzare nei confronti della categoria del cittadino-paziente; da un’articolazione linguistica e concettuale adeguata dei dilemmi morali davanti ai quali siamo posti dai progressi della medicina, nonché dall’utilizzo delle nuove tecnologie biomediche, all’argomentazione che consente di difendere, per esempio in seno a un Comitato Etico, una particolare decisione che si considera opportuno prendere. Si tratta, come si vede, di un ambito molto variegato di pratiche comunicative. Il tratto che però accomuna queste differenti modalità non è solamente il riferimento, secondo vari rispetti, della comunicazione all’ambito della medicina. Analogo, in queste varie applicazioni, risulta invece il tipo di comunicazione in gioco: una comunicazione nella quale il rapporto fra gli interlocutori si configura per lo più in termini asimmetrici, all’interno della differenza di livello tra chi sa e chi non sa, e nel tentativo di superare un tale dislivello grazie all’uso del medio comunicativo.

Se comunque, pur in estrema sintesi, le cose stanno così, è necessario compiere – per porre in opera anche nel caso della comunicazione bio-sanitaria una ricerca di etica della comunicazione che non si riduca a una semplice quanto inutile esortazione a “comunicare bene” all’interno di un tale ambito – una serie di chiarimenti preliminari. Dobbiamo chiederci che cos’è, propriamente, l’etica della comunicazione come disciplina specifica e che cosa significa in generale, appunto, comunicare bene. Solo in tal modo, infatti, saremo in grado di motivare, al di là di ogni esortazione, perché è preferibile moralmente un certo tipo di pratica comunicativa piuttosto che un’altra; solo così, in altre parole, potremo esibire, anche nel caso della comunicazione biomedica, il senso di un’etica comunicativa. Ma che cosa vuol dire, appunto, ‘comunicare’?

3. Il concetto di ‘comunicazione’

Solitamente, nei manuali di semiotica e nei trattati di linguistica teorica, la comunicazione in quanto tale è definita come la trasmissione di un messaggio (o di un’informazione) da un “emittente” a un “ricevente” (o “destinatario”). Una comunicazione così intesa, evidentemente, richiede un particolare lavoro di elaborazione sia da parte dell’emittente che da parte del destinatario. Il primo, se vuole essere compreso, deve dare al messaggio un formato che risulti accessibile a coloro ai quali è rivolto. Il secondo, volendo comprendere, si trova sempre indotto a ricostruire l’intenzione dell’emittente e a interpretare il messaggio.

A ben vedere, nonostante il fatto che questi processi (adattamento del messaggio al destinatario da parte dell’emittente; interpretazione del messaggio da parte del ricevente) non possano essere attivati secondo modalità standard, stabilite una volta per tutte, tuttavia il modello di spiegazione dei processi comunicativi che in generale viene proposto risulta, potremmo dire, di tipo tendenzialmente “meccanico”. Si ritiene infatti che esso possa funzionare per la gestione di quei processi che riguardano non solamente l’uomo, ma, più estesamente, tutti i diversi ambiti in cui si può riscontrare una trasmissione d’informazioni.

Così, la comunicazione interumana tende a essere ricondotta a standard quantificabili, sacrificando tutto ciò che – come l’inventiva e la capacità di adattamento a un determinato contesto – può difficilmente essere predeterminato. E dunque, appunto sulla base di tale modello “meccanico”, si ritiene che possano essere elaborate quelle tecniche, quei metodi, che consentono di raggiungere un certo risultato: in altri termini, di raggiungere un certo “bersaglio” (target), di avere cioè una particolare efficacia. In una tale prospettiva, che è ad esempio quella in cui si muove il linguaggio pubblicitario, sembra sia sempre possibile verificare l’avvenuta ricezione di un messaggio. E pare sia altresì possibile determinare in che misura una tale ricezione si è effettivamente realizzata, ad esempio attraverso questionari, test e altre forme di verifica del feedback.

Non credo sia il caso di insistere oltre su questa idea di comunicazione, visto che le sue applicazioni sono ormai fin troppo diffuse nel mondo in cui viviamo. Bisogna invece sottolineare con forza che questo non è l’unico modello al quale possiamo riferirci per pensare un tale fenomeno, e neppure quello fondamentale. È in gioco infatti, nei processi comunicativi, anche qualcosa di ben diverso, che va al di là della semplice trasmissione di dati. Il paziente, infatti, non è un bersaglio comunicativo.

Ma di che cosa si tratta? Che cos’è questo qualcosa di ben diverso di cui parlo? Per rispondere a tale domanda lasciamoci guidare da una breve analisi etimologica dello stesso termine ‘comunicazione’. Com’è noto, ‘comunicazione’ deriva dal latino ‘communicatio’: un vocabolo che indica propriamente il “mettere a parte”, il “far partecipe” altri di ciò che si possiede. È operante in questa nozione una particolare metafora: quella appunto della “partecipazione”, che non a caso si ripropone esplicitamente nella lingua tedesca (dove il vocabolo ‘Mitteilung’ può venire tradotto, letteralmente, più che con ‘comunicazione’, come avviene di solito, appunto con ‘compartecipazione’).

Nel latino, oltre a queste suggestioni, vi è tuttavia ancora qualcosa d’altro. Ed è l’evidente riferimento, nel vocabolo ‘communicatio’, al concetto di ‘munus’, di ‘dono’. Ciò che viene messo a parte, infatti, risulta in ultima istanza qualcosa di donato, affinché possa essere davvero comune a tutti, affinché tutti ne possano partecipare. “Dono”, in definitiva, è la stessa intesa, che non può mai essere predeterminata. ‘Communico’, dunque, indica originariamente un “mettere in comune”, un “creare uno spazio comune”: ciò che peraltro è ulteriormente confermato dal legame evidente che sussiste, sempre da un punto di vista etimologico, tra il verbo communico, il sostantivo communio e l’aggettivo communis.

Che cosa ricaviamo da questo breve sconfinamento, quasi solo un accenno, sul terreno dell’etimologia? Una suggestione – certo non di più – che c’indirizza verso un’idea diversa, rispetto a quella solitamente accettata, di ciò che intendiamo con ‘comunicazione’. Comunicazione, in questo senso, viene a configurarsi come la creazione di uno spazio comune, condiviso, al cui interno può realizzarsi un’effettiva intesa fra gli interlocutori. Una simile intesa, come dicevo, non può essere predeterminata, visto che è il frutto, imprevisto e imprevedibile, di quella capacità di mediare che contraddistingue i partecipanti ai processi comunicativi e che viene posta in opera, di volta in volta, nei vari contesti di applicazione. In altri termini l’interazione, qui, non può essere concepita in una maniera puramente meccanica, ma richiede, da parte di ciascun interlocutore, dell’assunzione della sua specifica responsabilità (2).

4. Etica e deontologia professionale

Siamo dunque in grado, a partire da qui, di chiarire meglio che cosa significa “etica della comunicazione”. Potremmo ottenere questo chiarimento analizzando i vari media e le differenti pratiche comunicative (comunicazione parlata e scritta, audiovisiva e via internet; comunicazione pubblica e politica, pubblicitaria e interculturale: o, appunto, bio-sanitaria), per far emergere da questa analisi una condivisa esigenza morale (3). Diversa è però la strada che qui seguiremo.

Domandiamoci infatti, subito, a che cosa si riferisce oggi questa espressione. Volendone dare una definizione operativa, l’etica della comunicazione si configura come una disciplina che rientra nell’ambito delle etiche applicate, al pari, ad esempio, della bioetica, dell’etica ambientale, dell’etica dei diritti, dell’etica del lavoro, dell’etica dell’economia. In ciascuno dei vari contesti linguistici e culturali nei quali l’etica della comunicazione si è sviluppata, d’altronde, il rapporto fra questi due termini è stato inteso in modi diversi, a prescindere dalle strategie morali effettivamente adottate. Possiamo schematicamente distinguere, ad esempio, un approccio deontologico all’ambito comunicativo, un’etica della comunicazione propriamente detta e un’etica, invece, concepita essa stessa nella comunicazione: ricavabile cioè dalle condizioni che sono proprie dei processi comunicativi considerati in quanto tali.

La preoccupazione deontologica, anzitutto, è quella che immediatamente s’annuncia in una realtà sempre più dominata dai flussi d’informazione. In questa situazione emerge dunque con forza la necessità di regolamentare, in base a principî giuridici e morali ben definiti, il comportamento degli operatori della comunicazione e le condizioni in cui si possono venire a trovare, di volta in volta, i fruitori dei vari media. In relazione a ciò si è recentemente imposta tutta una casistica particolare, che è stata oggetto di riflessioni e di dibattiti, che ha prodotto una specifica letteratura e che ha portato, com’è noto, alla redazione di codici ben precisi, chiamati a definire il quadro del lecito e dell’illecito in ambito comunicativo.

Questi codici, tuttavia, sono in realtà poco conosciuti e ancor meno osservati, anche perché le sanzioni nei confronti di coloro che li trasgrediscono sono risultate finora inadeguate o, addirittura, del tutto inesistenti. Al di là del mero aspetto deontologico e della pur importante codificazione di specifiche regole emerge quindi un’esigenza di tipo diverso: un’istanza più decisamente etica, che richiede un orientamento nelle differenti scelte che i singoli operatori della comunicazione debbono compiere e mira a coinvolgerli in un comportamento guidato da valori consapevolmente assunti. Non bastano i codici, insomma, neppure in ambito bio-sanitario: gli operatori responsabili lo sanno bene.

Si delinea dunque la necessità di elaborare un’etica della comunicazione in senso proprio: un’etica cioè che sia in grado di stabilire ciò che è giusto, valido, buono nelle varie pratiche comunicative e di indicare in che modo perseguirlo. Il discorso si sposta insomma da un’impostazione attenta, anche, alle questioni giuridiche e normative a una dimensione nella quale l’interesse risulta soprattutto di tipo filosofico. Di fronte a tali elaborazioni resta però il problema di stabilire quale sia la concezione più adeguata, quella in grado di orientare davvero il nostro comportamento. Una tale questione rinvia, secondo tradizione, alle tematiche esplicitamente affrontate nell’ambito dell’etica generale. Si ripropone dunque la necessità di fondare l’etica della comunicazione su una dottrina dei principî morali più ampia e comprensiva. Ed emerge soprattutto, com’è stato già accennato, la domanda relativa al perché si debba, propriamente, seguire dei principî morali di un certo tipo: in generale, certo, ma anche nell’ambito specifico dell’interazione comunicativa. Si delinea insomma la questione, decisiva, del coinvolgimento morale.

La risposta a una tale domanda la possiamo ricavare – questa è la mia tesi, che qui posso solamente accennare – da un approfondimento dei caratteri di fondo che caratterizzano il linguaggio e la comunicazione, intesi ambedue come pratiche che l’uomo è in grado di realizzare nella maniera più piena. Se è vero – come ad esempio ha sostenuto, in tempi recenti, Karl-Otto Apel (4) – che vi è un’istanza morale insita nello stesso uso del linguaggio, cioè nel nostro appartenere, come ogni parlante, alla “comunità illimitata della comunicazione” e nel mettere in opera i principî che sono insiti in essa, allora proprio movendo da qui, cioè da un particolare carattere del linguaggio e della comunicazione (che certamente va prescelto e valorizzato), possono essere fatte emergere, almeno, le condizioni per un comportamento comunicativo moralmente valido e condivisibile universalmente: un comunicare che rimanda alla responsabilità propria di ciascun parlante e la pone costantemente in gioco. S’annuncia in tal modo, più che un’etica della comunicazione, la prospettiva di un’etica scoperta e praticata nella comunicazione stessa: o, più precisamente, si dischiude la dimensione di un ambito comunicativo che contiene in sé un particolare “supplemento” morale. E proprio su questo terreno – a partire cioè dal fatto che nel mio stesso parlare sono inscritte, per dir così, ben precise indicazioni di comportamento – può trovar soluzione quel problema del senso del mio retto agire comunicativo, vale a dire del coinvolgimento morale, a cui poc’anzi accennavo.

5. Il linguaggio della comunicazione

Ma per far ciò, al di là dei differenti ambiti in cui la comunicazione viene praticata, al di là dei media che la veicolano, è necessario recuperare una specifica idea del comunicare e optare con decisione per essa. È del tutto evidente, infatti, la portata etica di quel concetto di comunicazione che intende l’atto del comunicare come la creazione di uno spazio comune, condiviso, della cui istituzione e del cui mantenimento gli interlocutori sono responsabili. Ed è altresì evidente, a partire da una tale concezione della parola (parlata e scritta, udita e incarnata in immagini) come medio e organo di una compartecipazione fra gli uomini, la prospettiva di relazione e di coinvolgimento che la parola stessa, così intesa, rende possibile. In tutti i rapporti interumani: ma specialmente in quelli in cui è in gioco un’asimmetria comunicativa, come nella comunicazione bio-sanitaria.

In che modo si qualifichi concretamente una tale relazione comunicativa è indicato, poi, da una particolare idea di linguaggio alla quale possiamo fare riferimento. Giacché il linguaggio stesso risulta, di per sé, ambiguo. Esso è nel contempo luogo della compartecipazione comunicativa fra gli uomini e filtro capace di interporsi fra i parlanti (nonché fra i parlanti e le cose), in tal modo mantenendo le distanze fra essi. Esso, in altre parole, è organo e ostacolo del comunicare. Ce ne accorgiamo tanto più quanto più ne facciamo uso in ambito professionale.

Ciò pone noi parlanti, nuovamente, di fronte a una scelta: la scelta di perseguire l’intesa o di supportare, con il nostro discorso, il fraintendimento, magari per raggiungere scopi ben precisi. In ogni caso, però, proprio in virtù di tale sua ambiguità risulta in definitiva impossibile che il linguaggio si configuri unicamente come un’occasione strumentale di controllo e di dominio, e che solo questo sia il senso della relazione che la parola mette in opera. Invece, appunto in quella distanza rispetto al mondo e agli uomini, che il dire apre proprio mentre stabilisce un legame con essi, e di cui risulta dunque garanzia e salvaguardia, si trova inscritta la possibilità del rispetto per l’altro, dell’attenzione nei suoi confronti, della cura a lui rivolta. Giacché senza questo “altro” – posto sul mio stesso piano, o in una posizione gerarchicamente superiore ovvero subordinata – non si dà affatto discorso. E dunque, nella struttura stessa del linguaggio e nell’ambiguità dei modi della sua attuazione (in quanto, di nuovo, esso è funzione di collegamento e filtro, occasione di separazione), è insita la possibilità che si compia davvero, eticamente, una comunicazione come condivisione di uno spazio comune tra interlocutori diversi. Infatti condizione del condividere è che ciascuno, separatamente, possa portare del suo, e sia riconosciuto fin dall’inizio come colui che è in grado di farlo: come colui, ancora, che può essere aiutato e sollecitato a farlo.

6. Perché fare l’operatore sanitario è un “brutto mestiere” (e fare comunicazione bio-sanitaria è ancora peggio)

Nulla di più diverso, allora, dall’idea di comunicazione come trasmissione d’informazioni e raggiungimento efficace di un target. Lo possiamo vedere anche nello specifico ambito della comunicazione biomedica e nei diversi modi, già richiamati, in cui questa si viene a realizzare. Infatti, solo se si opta per un concetto di comunicazione come creazione di uno spazio comune, e lo si mette in opera nelle quotidiane pratiche comunicative, può realizzarsi davvero quell’intesa, ad esempio, che lega operatore sanitario e paziente: nell’interesse, certo, del paziente, ma, a ben vedere, a vantaggio di entrambi. Giacché il medico, l’operatore sanitario e, più in generale, chiunque abbia la responsabilità di una decisione nell’ambito della salute di qualcuno sono chiamati a utilizzare il loro sapere a profitto – anche a profitto – di chi è coinvolto nelle loro decisioni. E solitamente, per raggiungere questo risultato, è opportuno ottenere quella cooperazione, quella comunanza che solo un comunicare condiviso è in grado di garantire. A meno che – come in certe situazioni-limite nel rapporto medico-paziente – non si preferisca il silenzio: il silenzio, però, non già il fraintendimento. Come invece accade, e viene perseguito consapevolmente, nel caso del dott. Algardi, il medico di cui ci parla Casanova.

Emerge qui, in altre parole, il problema dei modi in cui è possibile realizzare effettivamente ciò che risulta comunque insito, quale possibilità costitutiva, nella dimensione stessa del nostro linguaggio: la comunicazione come funzione di compartecipazione; la comunicazione come creazione di uno spazio comune. Ed è qui che il riferimento alla libertà dell’uomo si manifesta in tutta la sua centralità. E con esso il problema della responsabilità. Nel nostro caso: la responsabilità del medico, dell’operatore sanitario.

Come sappiamo, la responsabilità è tanto maggiore quanto più grande è il potere di chi la assume. E questo è appunto ciò che accade anche nell’ambito bio-sanitario. Dove il sapere conta; dove il destino di un uomo è nella mani della competenza e dell’abilità dell’altro uomo. E dove la comunicazione serve a mettere in comune questo sapere e queste competenze, queste possibilità di cura e, anche, questi rischi, nella misura in cui l’atto comunicativo risulta avere effetti pratici.

Ecco allora, concludendo, perché Casanova ci racconta un esempio di comunicazione medico-paziente che risulta davvero istruttivo. Non già per i sofismi, brillantemente anche se tristemente espressi dal dott. Algardi, ma per la battuta finale di Casanova stesso: quella per cui fare il medico è un brutto mestiere.

Non me ne vogliano gli addetti ai lavori: Casanova dice la verità. Perché questo mestiere, che non è semplicemente mestiere, comporta una responsabilità che investe non solo gli atti che vengono compiuti, ma anche, e soprattutto, la gestione delle parole che possono essere di volta in volta pronunciate. Ad ogni livello della comunicazione bio-sanitaria. Siano benvenute, dunque, tutte le occasioni di riflettere su questo argomento e di metterlo in luce: perché in tali occasioni l’etica può aiutare al chiarimento della prassi e delle prospettive di un mestiere che sarà anche brutto, forse, ma è in ogni caso impegnativo, molto impegnativo, e che dunque, anche per la passione che richiede, risulta decisamente affascinante.

Note

(1) G. Casanova, Storia della mia vita, a cura di P. Bartalini Bigi, Newton, Roma 1999, pp. 611-12.

(2) Per uno sviluppo di questi temi mi permetto di rinviare al mio libro Etica della comunicazione, Carocci, Roma 2006.

(3) Si veda in proposito il volume di Aa.Vv., Guida alle etiche della comunicazione. Ricerche, documenti, codici, Edizioni ETS, Pisa 2004.

(4) Fra i testi di Apel tradotti in lingua italiana, che risultano più utili per affrontare le questioni oggetto del nostro interesse, bisogna menzionare almeno Etica della comunicazione, tr. it. di V. Marzocchi, Jaca Book, Milano 1992, Discorso, verità, responsabilità. Le ragioni della fondazione: con Habermas contro Habermas, a cura di V. Marzocchi, Guerini, Milano 1997, Lezioni di Aachen e altri scritti, a cura di M. Borrelli, Pellegrini, Cosenza 2004 e Cambiamento di paradigma. La ricostruzione trascendentalpragmatica della filosofia moderna, a cura di M., Borrelli, Pellegrini, Cosenza 2005. In tedesco si vedano soprattutto il secondo tomo di Transformation der Philosophie, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1973, nonché Diskurs und Verantwortung, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1988.