Per uscire dal declino economico le istituzioni contano!
La nostra analisi muove dalla costatazione che le organizzazioni e gli individui operanti nei mercati e nella società rispondono sia ai segnali provenienti dal sistema politico-istituzionale, sia ai segnali provenienti dal mercato globalizzato dei beni, dei servizi e della conoscenza innovativa. Questo processo può assumere un carattere più o meno ‘virtuoso’, o viceversa avviarsi sul piano inclinato di un progressivo declino, a seconda delle proprietà del quadro istituzionale.
Il caso italiano delle privatizzazioni è un’interessante conferma empirica dell’affermazione precedente. Nel nostro paese infatti si è attuato un significativo processo di privatizzazione di aziende pubbliche, stimolato dai segnali di mercato che chiedevano un ridimensionamento della presenza dello stato nell’economia e un rientro del debito pubblico, ma non si è provveduto ad adeguare pienamente e in tempi rapidi il quadro istituzionale e regolamentare. Ne è risultato che alla privatizzazione non ha fatto seguito la liberalizzazione. I monopoli pubblici sono stati privatizzati favorendo un’innovazione di tipo parassitario che concorre al declino economico.
L’economia della conoscenza, la società dell’informazione, la competitività, la crescita sostenibile, l’apertura concorrenziale dei mercati sono state interpretate in Italia come etichette dotate di una blanda valenza evocativa, da applicare di volta in volta a provvedimento incoerenti, frammentari e discontinui, privi di qualsiasi valenza strategica in un orizzonte temporale di lungo periodo. I venti mesi di governo Prodi, nonostante i ‘pacchetti’ del ministro dell’industria Bersani, non solo non hanno segnato una discontinuità rispetto alla stagnazione del precedente quinquennio, ma per troppi aspetti si segnalano come un regresso.
Il punto centrale della questione rimane così inalterato da anni: l’ambiente istituzionale italiano –soprattutto se esaminato in una prospettiva comparata rispetto agli altri paesi dell’Oecd– tende a scoraggiare l’avvio di attività innovative e imprenditoriali in un contesto concorrenziale di mercato, e, viceversa, incentiva attività parassitarie e ‘predatorie’ che mirano, attraverso contatti e relazioni personali o lo “scambio politico”, a conservare o a conseguire posizioni di rendita.
A nostro avviso le principali carenze del quadro istituzionale e regolamentare sono le seguenti.
1. Il grado di efficacia nella definizione e nella tutela dei diritti di proprietà e dei contratti (Property Rights) è insufficiente, comparativamente ai paesi nostri concorrenti. Ciò comporta incremento delle controversie legali, disincentivi allo sviluppo economico e bassa qualità della vita sociale. Se gli individui sanno di non poter contare su diritti certi e tutelati facilmente dalle organizzazioni pubbliche e dalle norme sociali, non vi saranno neanche incentivi ad investire nello sviluppo di conoscenze che incrementano l’innovazione e la produttività;
2.La pubblica Amministrazione è scarsamente efficiente e l’impianto normativo e regolamentare che essa è chiamata a gestire è farraginoso, poco trasparente, spesso contraddittorio. Ne è riprova il fatto che nei confronti internazionali l’Italia è nelle posizioni di coda, tra i paesi occidentali, in termini di tempo necessario – e di risorse economiche per – avviare un’impresa o ottenere delle licenze. Conseguentemente quasi ogni tipo di relazione con l’apparato burocratico richiede una costosa mediazione specialistica e può dar luogo a controversie. Per di più, gli incentivi istituzionali alla produzione e alla trasmissione di conoscenze sono scarsi; ciò incrementa il potere di interpretazione ma, al contempo, diminuisce l’efficacia delle politiche e la capacità di regolazione delle autorità pubbliche.
3. La disciplina della concorrenza è ancora largamente insufficiente, sia rispetto alle disposizioni Comunitarie, sia rispetto agli altri paesi industriali nostri concorrenti. Valga da esempio la chiusura che ancora si registra nel comparto dei servizi pubblici locali. La forza dei vincoli concorrenziali nei mercati costituisce una barriera all’ingresso di nuovi soggetti nei mercati economici e della conoscenza.
Sinteticamente si potrebbe dire che non esista, nel nostro paese, una valida cornice istituzionale di regole che sia in grado di favorire le interazioni competitive e di abbattere i costi di transazione, e che i criteri di selezione e di successo non tendono a premiare l’innovazione produttiva, ma le connessioni politiche, la parentela, la difesa corporativa di posizioni di rendita esistenti. Di conseguenza, i soggetti pubblici o privati in posizione monopolistica non hanno incentivi ad accrescere la propria efficienza per sopravvivere, né incentivi a investire nella produzione di nuove conoscenze specialistiche utili a soddisfare meglio i bisogni dei consumatori.
La distinzione politica essenziale è quindi tra le buone istituzioni, efficienti, generatrici di incentivi che accrescono la produttività del sistema nel tempo, e le cattive istituzioni, che spingono gli individui all’imprenditorialità parassitaria, avendo come obiettivo una redistribuzione politica delle risorse (e delle rendite) esistenti. La concorrenza viene intesa come un fenomeno negativo perché mette in discussione equilibri ed assetti. Si tende così a dimenticare, o a celare, che i meccanismi competitivi regolano l’interazione nei mercati economici e politici a favore di tutti e che dall’intensità della competizione i vantaggi attesi dalla scoperta e dall’impiego di nuove tecnologie utilizzabili nell’attività produttiva e l’ammontare di risorse sprecate in attività redistributive.
Quando prevalgono i processi di innovazione parassitaria, generalmente gestiti dai soggetti in grado di sfruttare a proprio beneficio le sacche di inefficienza e di rendita esistenti nel sistema, si rafforzano le organizzazioni politiche ed economiche più ostili alla circolazione di informazioni, alle politiche di apertura e di liberalizzazione e i soggetti politici ed economici potenzialmente interessati al cambiamento e alla liberalizzazione del sistema ne risultano politicamente indeboliti, sfiduciati, e indotti ad ‘uscire’ dal sistema di relazioni con lo stato. La riduzione della loro capacità di influenzare i processi di riforma sociale, l’intreccio tra moltiplicazione e complessità delle procedure, l’inefficienza del settore pubblico che dovrebbe gestirle, l’interesse convergente di funzionari e di gruppi sociali che gestiscono e preservano questo stato di cose, avvia il declino del sistema.
Le cattive istituzioni generano così investimenti in abilità e in conoscenze che permettono di eludere o di volgere a proprio vantaggio la macchinosità e l’inefficienze del sistema. Spingono imprenditori e cittadini ad occultare le proprie attività economiche, incrementandone la quota invisibile, non dichiarata. I vantaggi attesi dall’adozione di questa strategia di ‘fuga dallo stato’ si associano alla crescita delle dimensioni dell’economia sommersa e dell’emigrazione di individui con un alti livelli di istruzione e con profili professionali avanzati, che trovano all’estero migliori opportunità per sviluppare le loro doti imprenditoriali o la vocazione alla ricerca.
Il clima di sfiducia che tutto ciò genera nei confronti del funzionamento delle istituzioni, e che si manifesta inizialmente nella sfiducia verso la capacità del sistema politico di assecondare i processi di sviluppo economico e sociale, produce uno stato di scollamento generalizzato, di perdita di entusiasmo e di de-responsabilizzazione che accrescono il malfunzionamento dell’intero sistema.
Ma è tutta colpa dei politici? Forse no! È vero che la volontà di liberalizzazione è stata a dir poco timida, ma è anche vero che ha incontrato soltanto un tiepido appoggio dei potenziali beneficiari, e le fiere resistenze dei gruppi e delle organizzazioni dei privilegiati percettori di rendite nell’assetto esistente.
Il sistema dell’informazione ha clamorosamente fallito. Non si è riusciti a creare una cultura favorevole alla concorrenza. Anche i gruppi sociali che ne sarebbero stati più direttamente e positivamente interessati hanno mollato la presa; forse perché non avevano nessun vantaggio ad uscire da una dinamica caratterizzabile come un processo di ‘innovazione parassitaria’ che giustifica con varie argomentazioni (tradizione, stabilità, pace sociale, giustizia sociale, equità, solidarietà, etc.) il proprio assorbimento di grandi quantità di tempo, di risorse monetarie e di energie creative, sottraendole ad altri impieghi socialmente produttivi e generando una cattiva allocazione delle conoscenze e del talento individuale che, a sua volta, genera un patrimonio di credenze e di valori che legittimano e consolidano le fondamenta dello status quo. Stabilizzandolo e protraendolo nel lungo periodo. Ciò che, tra l’altro, porta a scoraggiare gli investimenti innovativi e ad orientare negativamente le scelte legate ai processi di istruzione universitaria, e dunque alla formazione del capitale umano. Non si tratta quindi di una crisi del sistema universitario che è legata alla ristrettezza degli investimenti pubblici e alla quasi totale assenza di quelli privati, ma della scarsa presa degli incentivi individuali, di natura sia economica, sia istituzionale, a investire denaro, tempo e impegno nell’acquisizione di una preparazione avanzata spendibile nel mercato del lavoro. Non è un caso che esso abbia così scarsa attrattiva per gli studenti stranieri.
Pertanto, la soluzione per ridare competitività all’Italia non consiste tanto – come troppo spesso e da più parti politiche e sociali si sostiene – nell’impiego di tecnologie produttive o di accorgimenti fiscali che permettano di abbattere i costi di produzione, quanto nel consolidarsi di più efficaci tecnologie dell’interazione sociale, ossia di regole del gioco economico, politico e sociale in grado di attenuare l’incertezza, di ridurre i costi delle transazioni e di ridare fiducia alla società e agli individui favorendo interazioni concorrenziali che spingano le organizzazioni e gli individui ad investire nell’acquisizione di competenze e conoscenze adatte a cogliere le opportunità di profitto (e di riconoscimento sociale) presenti in quel sistema e nel mondo.
Occorre quindi definire quale debba essere la distribuzione di ruoli tra stato e mercato, i due elementi che definiscono il regime istituzionale di un sistema economico, ne determinano l’efficienza e la competitività.
A nostro avviso, in Italia si continua ad avere una fiducia eccessiva nella capacità di perseguire obiettivi di interesse pubblico tramite lo stato, gli interventi del legislatore, la regolamentazione. Non si riesce a concepire che gli stessi obiettivi possano essere raggiunti con meccanismi di mercato e l’iniziativa privata, sottovalutando, tra l’altro, i costi che l’economia sopporta in termini di minore efficienza e minore sviluppo quando il mercato e il privato sono impediti o scoraggiati.
La PA non dovrebbe preoccuparsi di produrre direttamente beni o servizi, ma di assicurarsi che i privati lo facciano in maniera efficiente e in misura adeguata. L’intervento pubblico si giustifica esclusivamente per “rimuovere” vincoli e esternalità (contrastando la criminalità, costruendo infrastrutture ecc.), non per “compensare” vincoli e esternalità elargendo sovvenzioni a imprese, settori o aree geografiche. Si avverte – in altre parole – nel nostro paese una significativa carenza non dello stato, bensì dello “stato minimo”.
C’è carenza dello stato nell’amministrazione della giustizia, dell’ordine pubblico, che assicurino il rispetto degli accordi stipulati nello svolgimento dell’attività economica. C’è carenza dello stato per quel che riguarda l’attività della Pubblica amministrazione, che necessita di razionalizzazione, semplificazione, riorganizzazione. C’è carenza dello stato nel promuovere il progressivo abbattimento dei vincoli alla competizione di mercato nel mondo delle professioni, nei servizi pubblici locali, nella distribuzione, nell’educazione.
In conclusione, poiché riducono l’incertezza e i costi di transazione negli scambi sociali, le istituzioni contano. E i divergenti sentieri di sviluppo economico sono la risultante di un diverso imprinting dato dalla matrice istituzionale ai processi di acquisizione di conoscenze e informazioni. Il successo di imprese, organizzazioni e paesi capaci di affrontare le sfide poste dalla competizione nei mercati interni e internazionali va così ricondotto alla presenza di opportunità fornite dalle cornici di regole del gioco – norme giuridiche, procedure, prassi, norme sociali, ecc.– che favoriscono l’adesione diffusa a stili e modelli di condotta favorevoli alle dinamiche concorrenziali, alla cooperazione nella produzione dei beni pubblici, alla trasparenza dei mercati economici e politici, alla salvaguardia dei diritti individuali.
Le radici del declino italiano sono quindi riconducibili a fattori di natura istituzionale e alla natura delle regole del gioco che indirizzano le scelte degli imprenditori nei mercati politici ed economici. Quando le abilità che decretano il successo professionale si misurano nell’allacciare relazioni, nello sfruttare informazioni, nell’occultare attività e nell’eludere procedimenti farraginosi e nella ‘capacità’ di interpretare norme complesse, l’abbrivio lungo il sentiero del declino diventa difficile da contrastare.
Non si tratta di una battaglia persa per il fatto che resta viva la speranza che, attraverso provvedimenti mirati, si potrebbero creare condizioni favorevoli al rafforzamento di soggetti collettivi propensi al cambiamento e ‘spuntare le unghie’ degli interessi già consolidati. Si potrebbero, anche, ad esempio, inserire piccoli correttivi marginali laddove minori sono le resistenze, lasciare metabolizzare per un certo periodo i processi sociali indotti dal cambiamento di norme e aspettative, quindi adottare strategie di apertura concorrenziali più energiche e di più ampio respiro, capaci di suscitare un consenso diffuso da un lato, ma anche di dividere le coalizioni corporative, creando al loro interno conflitti di interessi.
Si tratta di condizioni necessarie, sebbene ancora non sufficienti, per un’evoluzione spontanea, per quanto ‘ragionevolmente’ incoraggiata e sostenuta, di buone istituzioni.