23 Marzo 2009  

Perchè dismettere il patrimonio immobiliare

Redazione

Dalla “manovra” triennale del governo è chiaro che il riassetto dei conti pubblici e l’instaurazione di meccanismi virtuosi per il contenimento della dinamica della spesa, è una delle priorità del nuovo esecutivo. La conferma dell’obiettivo ambizioso di raggiungere il pareggio di bilancio nel 2011 in qualche modo costringee costringerà a scelte coraggiose. Il fatto che non tutte siano state inserite in questo primo passaggio non è necessariamente un segnale negativo. Il sostanziale annacquamento a cui è stata già sottoposta la riforma dei servizi pubblici locali suggerisce sia meglio, in alcuni casi, non procedere ad una politica di annunci.

Interrogandosi sui passi necessari per riequilibrare la finanza pubblica oltre alla necessità fondamentale di ridurre la spesa corrente, presupposto necessario per un risanamento durevole, si fa sentire il bisogno di interventi volti ad abbattere lo stock di debito, che sono per loro natura di carattere straordinario. Fra questi crediamo non possa mancare una poderosa operazione di dismissione del patrimonio dello Stato e degli Enti territoriali – peraltro contemplata nei programmi elettorali dei due maggiori partiti. È evidente che un ampio programma di cessioni dei beni immobiliari oggi in mano pubblica sarebbe destinato, al tempo, a produrre benefici significativi e duraturi per le finanze pubbliche. I beni immobiliari detenuti dalle pubbliche amministrazioni rappresentano una voce molto consistente, nell’ordine di oltre 400 miliardi di euro a valori di mercato, oltre il 20 per cento del PIL. La alienazione anche solo parziale di questo ingente patrimonio potrebbe ridurre significativamente il debito e i pagamenti in conto interessi che su di esso gravano.

È chiaro che privatizzare non significa che il pubblico non possa identificare una destinazione appropriata o un uso particolare per un immobile, o per specifiche categorie di immobili (musei ecc.). Alienare la proprietà non comporta che lo Stato non possa perseguire finalità di interesse pubblico con i cespiti alienati : lo Stato proprietario non è condizione necessaria per lo Stato regolatore. Del resto abbiamo già visto questo cambiamento verificarsi in molti ambiti. E, al netto dei problemi causati da un sovrappiù di regole che hanno talvolta impedito il corretto funzionamento dei mercati, è un modello che ha funzionato. Se per una determinata risorsa, il cui utilizzo ha ripercussioni “pubbliche”, lo Stato definisce una cornice di regole generali, la sua conduzione e valorizzazione può benissimo essere lasciata ai privati.

Anche gli elementi più delicati del patrimonio pubblico, a cominciare dai musei, potrebbero beneficiare di una prospettiva “privatistica”. Una cosa è infatti “vincolare” determinati beni, che nel caso dei musei o delle opere d’interesse nazionale significa, sostanzialmente, garantire la “pubblica fruizione” degli stessi. Altra negare la possibilità di uno sfruttamento imprenditoriale degli stessi. Anzi, uno dei maggiori problemi dello scenario attuale risiede proprio nelle opportunità che vengono perse, negando la possibilità di un’applicazione della creatività imprenditoriale a questi spazi e a questi luoghi. È chiaro che si tratta di un’operazione delicata, come tutte le privatizzazioni. Che la comprensibile necessità di vincolare l’utilizzo degli immobili non deve tradursi in norme troppo stringenti per rendere possibile l’operare dei privati. Che forse sarebbe azzardato cominciare vendendo il Colosseo, ma che va pure evitata la tentazione di tipo opposto: cioè quella di privatizzare realtà da cui è difficilissimo trarre un profitto. Ma è una sfida che, nelle condizioni in cui siamo, non è possibile non tentare.

La alienazione del patrimonio immobiliare, oltre alla riduzione dell’indebita-mento, comporta anche un beneficio in termini di riduzione della spesa corrente. Il conto è presto fatto: i costi della gestione degli immobili affidati al pubblico sono particolarmente elevati, intorno al 3 per cento, da due a tre volte superiore ai costi dei privati. A fronte di questi costi le pubbliche amministrazioni incassano dagli immobili in uso a terzi non più dello 0,5 per cento. Con questi numeri la cessione degli immobili migliorerebbe la spesa corrente anche se la PA dovesse riprendersi in locazione gli immobili di uso strumentale, per il semplice fatto che dimezzerebbe i costi di gestione e probabilmente potrebbe razionalizzare l’uso degli spazi; ci sono immobilidipregio nei centri abitati adibiti a magazzino.

Per quanto riguarda gli immobili della così detta edilizia popolare, gli alloggi ex Iacp, con la privatizzazione ai benefici di cui sopra si aggiungerebbe un ulteriore importante risultato. Giustamente il ministro Renato Brunetta si è richiamato all’insegnamento di Hernando de Soto, che individua una delle cause fondamentali del sottosviluppo nell’impossibilità di trasformare il “capitale morto” (capitale extra-legale) in “capitale vivo”. Le case popolari assomigliano alle terre occupate da “squatters” in quanto a un controllo reale, si accompagna l’assenza di diritti di proprietà. Lo Stato non solo non è un buon gestore, ma si trova in difficoltà oggettive, qualora provasse a disporre diversamente dei propri diritti. Prendere atto di taluni “diritti di proprietà di fatto” maturati negli anni dagli inquilini significa soprattutto cambiarne attitudini ed incentivi. Non è irragionevole ipotizzare che si potrebbe tamponare il degrado delle periferie, se le case “popolari” divenissero proprietà di singoli individui e famiglie: interessati, come proprietari, a preservarne il valore (anche per farne oggetto di scambi futuri).

Laddove le intenzioni del governo non convincono, non è tanto nella vendita a tassi agevolati delle case ERP agli inquilini, quanto nel volere impiegare nuovamente quelle risorse nell’edilizia popolare, tornando a fare il proprietario. Meglio sarebbe utilizzare quelle risorse per ridurre la pressione fiscale sull’edilizia e sul mercato immobiliare. Se quello che il governo vuole incentivare è più mobilità nel territorio italiano, le leve opportune sembrano stare più sul versante degli affitti; per esempio, introducendo la cedolare secca al 20% o abolendo l’imposta di registro sulle transazioni immobiliari.
I problemi degli immobili pubblici non sono solo di oggi. Sono gli stessi di ieri, e possono essere gli stessi di domani. La privatizzazione, che vuol dire valorizzazione e responsabilizzazione, non deve essere solo un salvagente per il debito pubblico – ma uno strumento per costruire basi più solide, per una società libera e responsabile.

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