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Pubblichiamo il testo della lezione tenuta dal Prof. Maurizio Griffo in occasione della prima edizione della Scuola di formazione politica di Magna Carta “Comprendere il XXI secolo”

 

 

  1. Il punto di partenza della riflessione che intendo svolgere è il discredito, la poca o nulla considerazione di cui gode la politica; discredito che, nelle nostre società, si indirizza soprattutto nei confronti di chi alla politica si dedica come attività principale. A primo acchito questa ripulsa si può far dipendere dalla lunga crisi economica che abbiamo attraversato e da cui non siamo ancora usciti. Una sorta di reazione rabbiosa contro i responsabili, o i presunti tali, i potenti, o i presunti tali, cui la si vuol far pagare comunque, quale che sia la diretta responsabilità di ciascuno e quali che siano le conseguenze. Una versione rovesciata o, se possibile, distorta dell’etica della convinzione (che è già una cosa da evitare), pereat mundus ut fiat iustitia. La crisi economica, più pesante di quella del ’29, ha acuito i problemi creati dalla globalizzazione, dall’ultima globalizzazione che stiamo vivendo (ce ne erano state altre precedenti, anzi la storia umana può essere letta anche come un susseguirsi di globalizzazioni). Globalizzazione che ha portato certo alla terza ondata di democratizzazione, ma che ha anche dislocato le forme e i modi di produzione della ricchezza, richiedendo aggiustamenti che non sono indolori e, soprattutto, rispetto a cui le nostre democrazie non sembrano in grado di rispondere efficacemente. In altri termini, per lenire la dislocazione della produzione, la polarizzazione nella distribuzione dei redditi e la connessa erosione del ceto medio occorre promuovere un accrescimento della produttività che risulta difficile perché fra l’altro, per dirlo in sintesi, non è elettoralmente pagante. Da qui un circolo vizioso di crisi economica, delusione e sentimento di ripulsa.

Rispetto a quello che sta accadendo in Europa e nel mondo dal punto di vista politico, quello che viene in mente a chi guarda alle cose in una prospettiva temporale più ampia è il periodo dell’entre deux-guerres, quella che Élie Halévy, nel 1936, definì  l’era delle tirannie. Anche se oggi, come elemento di continuità, metterei l’accento su di un aspetto particolare, e non generale. Cioè, non tanto, come faceva lo storico francese, sugli sconvolgimenti successivi alla grande guerra, alla rivoluzione bolscevica e all’avvento di altre dittature, quanto sulla circostanza che Hitler andò al governo vincendo le elezioni e ricevendo un regolare incarico dal presidente della repubblica tedesco. Anche oggi, su di una scala molto più grande, rischiano di uscire vittoriose dalle urne formazioni politiche le cui credenziali democratiche, per tacere delle capacità di gestione, sono perlomeno assai dubbie; movimenti e gruppi politici che dieci anni fa non esistevano. E questo non solo in un determinato paese, come allora accadde, ma in tutta Europa. Naturalmente occorre distinguere perché una cosa è Podemos, un’altra è Alternative für Deutschland, o Tsipras, o il Front national o il Movimento Cinque stelle (in Italia abbiamo anche la Lega che è una sorta di antesignano di questi movimenti). Ovviamente, in ogni paese ci potranno essere esiti diversi e non necessariamente antidemocratici, come si è visto in Grecia, tutto sommato. Peraltro, rispetto a questi sviluppi ognuno ha la sua scala assiologica (personalmente metto all’ultimo posto, staccati di molto per non dire fuori tempo massimo, come credenziali democratiche e anche per il resto, il Movimento Cinque stelle). Accanto a questi sviluppi, più direttamente politici, c’è un altro elemento che suggerisce il paragone storico, il discredito da cui è avvolta la civiltà di cui siamo eredi e parte. Negli anni trenta, a cagione della crisi economica in primo luogo, era diffusa l’idea che quello che veniva e viene definito il sistema “capitalistico” era ingiusto e meritava di essere sostituito da regimi autoritari ma ritenuti più giusti; in questo discredito sta una delle ragioni del successo dei totalitarismi del tempo. Anche oggi abbiamo un diffuso discredito per la nostra civiltà ritenuta colpevole di gravissimi misfatti storici, per cui si diffonde la convinzione, in parte inconscia o subliminale, che paghi il fio di tali orrori. Una concezione presente anche a livello di senso comune, e che si esprime da un lato, quello dell’ortodossia sociale, nella vulgata del politicamente corretto, e dall’altro, sul piano della cultura, nel decostruzionismo. Per confutare il politicamente corretto basta il buon senso, più insidiosa invece è la deriva decostruzionista. Secondo questa attitudine tutto sarebbe una costruzione culturale, ovvero una manipolazione del potere. Una visione in cui  scompare un criterio oggettivo per distinguere il bene dal male. Posizioni che, nel loro complesso, costituiscono una parodia grottesca del pensiero critico, depotenziando le nostre società, rendendole meno adatte a far fronte alle sfide dell’oggi. Sfide che, con la nuova centralità della politica estera, sono più impegnative che in passato, per esempio rispetto a quelle che c’erano durante la guerra fredda. Sfide per far fronte alle quali ci sarebbe ancora più bisogno della politica e della capacità di comprendere la politica mentre siamo di fronte a un suo diffuso rifiuto, assortito spesso a un generalizzato analfabetismo politico. Come si vede ho messo molta carne a fuoco, ognuno degli argomenti e dei temi enunciati e indicati richiederebbe uno specifico approfondimento. Qui converrà soffermarsi sul tema della crisi della politica nelle nostre società democratiche. Rosanvallon, ricostruendo la storia di quella che lui chiama la sovranità d’interdizione, rileva un “degrado di questa sovranità critica”, che era parte del circuito virtuoso della conflittualità democratica; mentre adesso essa tende a diventare sempre più “una sovranità puramente negativa”. In sostanza, “oggi l’effettiva sovranità popolare si afferma più attraverso  un susseguirsi di rifiuti puntuali che tramite l’espressione di un progetto coerente. Le elezioni ad esempio sono diventate soprattutto delle occasioni per punire gli uscenti; esse esprimono meno che in passato delle scelte per il futuro”, per cui quella che lo studioso francese definisce “la vitalità contro-democratica […] si è degradata assumendo le sembianze di angusti corporativismi o di reazioni populiste puramente reattive”. Rosanvallon scriveva queste cose nel 2006, da allora la situazione è peggiorata e anche lo schema dell’alternanza punitiva sembra logorato, lasciando spazio a quei movimenti di protesta o di ostruzione pura che risultano vittoriosi alle elezioni. Una diagnosi su cui è difficile non concordare, anche se ci sarebbe da fare una messa a punto sull’uso del termine populista, che è insufficiente a spiegare un determinato tipo di atteggiamento politico, questo perché il populismo è parte della democrazia o almeno ci confina inevitabilmente. Cerchiamo allora di tracciare un quadro sinteticissimo di questo percorso involutivo  mettendo al centro della nostra riflessione non il degrado della sovranità critica, ma lo sviluppo storico della politica e del lavoro del politico.

  1. Se andiamo alle origini dei regimi rappresentativi moderni, le liberaldemocrazie, gli stati costituzionali di diritto, secondo come li vogliamo definire, troviamo una duplice considerazione. Le nascenti democrazie rappresentative sono teorizzate come una grande scoperta della scienza politica moderna, ampliando o correggendo, nella pratica ancor prima che nella teoria, quanto enunciato alcuni decenni prima da quello che era considerato il maggiore scrittore politico del tempo. Montesquieu nella sua opera più rilevante (Lo spirito delle leggi, 1748) aveva sostenuto che i regimi repubblicani, quelle che oggi chiamiamo democrazie, erano praticabili solo su piccola scala, in città stato. Negli stati territorialmente più estesi era necessario, invece, avere un regime monarchico, il solo capace di far fronte alle esigenze di un’area geografica tanto vasta. Con il successo della rivoluzione americana era stato dimostrato che un regime repubblicano poteva esistere e prosperare anche su di un territorio considerevolmente ampio. Questo era possibile grazie alla rappresentanza che consentiva di raccogliere in un centro direttivo le competenze migliori, disperse su tutto il territorio nazionale. La rappresentanza avrebbe espresso non la limitata cognizione che poteva avere un singolo (il re), ma un insieme di conoscenze ampio e diversificato. In sostanza, quella rappresentativa era una forma di governo adatta agli sviluppi sociali recenti. Questa concezione si può leggere sotto due profili. Anzitutto è una concezione democratica, ma che media la democrazia con la rappresentanza, facendone un governo misto e perciò meno soggetto all’usura, come è nella teoria classica delle forme di governo. In secondo luogo, ed è quello che soprattutto ci interessa in questo caso, esprime una fiducia sulla qualità della rappresentanza, saranno i migliori che si candideranno e verranno eletti.

Poco più di un decennio dopo l’abate Sieyès, all’inizio della rivoluzione francese, mutua dalla nascente scienza economica (Adam Smith) il principio della divisione del lavoro applicandolo alla politica. Gli stati moderni, a suo avviso, richiedono un personale specializzato che sia esperto nella gestione degli affari pubblici. Una concezione che sarà poi sviluppata nella ben nota distinzione, operata da Benjamin Constant, tra libertà degli antichi e libertà dei moderni, una distinzione che non rimanda solo alla creazione di una sfera privata contrapposta a quella pubblica, ma che è frutto di una riflessione sulla diversa e più complessa morfologia delle società moderne che hanno una articolazione infinitamente maggiore di quelle antiche. Ad ogni modo, in questa stagione si afferma l’idea della politica come un’attività specializzata, che richiede un apprendistato e competenze particolari. Competenze e capacità che vanno accompagnate dalla dedizione al bene della comunità e dal disinteresse personale che il ruolo pubblico richiede. Questa idea del disinteresse e della virtù del politico ha declinazioni diverse, com’è noto, sui due lati dell’Atlantico e all’interno delle varie correnti politiche della rivoluzione francese. Tuttavia è un’idea viva e presente. In America risulta dominante fino a che dura la generazione dei padri fondatori (i primi cinque presidenti) e fino all’avvento del movimento populista e della presidenza di Jackson.

Il prestigio dell’attività politica è indiscusso e viene accentuato implicitamente da un’altra circostanza relativa alla durata del mandato. Le costituzioni settecentesche prevedono una rappresentanza breve, uno o due anni. Così la costituzione americana, così quelle del decennio rivoluzionario francese. Una visione che postulava la necessità di una osmosi tra elettori ed eletti, per scongiurare una degenerazione del sistema. Si tratta di un’eredità repubblicana (i consoli della Roma repubblicana). Nelle costituzioni ottocentesche, invece, il mandato è più lungo sono, come poi è rimasto fino ad oggi, quattro o cinque anni. Questo perché la macchina statale comincia a complicarsi e si impongono tempi più ampi per la realizzazione dei progetti politici. Fatto che aumenta la professionalizzazione. Contemporaneamente scompare anche il principio di rotazione (un’altra eredità repubblicana), che pure era presente nelle costituzioni settecentesche. Sotto questo aspetto è assai significativo che nell’Atto addizionale alle costituzioni dell’impero, la costituzione liberale promulgata da Napoleone nei cento giorni, preparata da Benjamin Constant, venga specificato che i deputati sono indefinitamente rieleggibili (art. 12). Quello che non viene meno però è il prestigio. L’Ottocento, soprattutto, questo primo Ottocento è l’età dei notabili cioè delle personalità che, affermatesi nel proprio specifico campo professionale, offrono le loro competenze e il loro prestigio alla collettività, entrano in politica. Quando fa il famoso viaggio in America e poi scrive il primo tomo della Democrazia in America, Tocqueville ha una precisa meta, farsi conoscere come scrittore per poi poter farsi eleggere deputato. La politica è vista come un punto di arrivo, come un traguardo a cui aspirare. Se nei rivoluzionari settecenteschi, c’era un’idea di virtù civica da coltivare e alimentare, nel notabile ottocentesco questa idea si è, per così dire, laicizzata, perché in essa entra anche una componente di soddisfazione personale.

Nella seconda metà dell’Ottocento, con l’allargamento progressivo del suffragio, i partiti organizzati prendono man mano, almeno tendenzialmente, il posto dei notabili. Il nuovo tipo di partito svolge una essenziale funzione di orientamento dell’opinione, perché ci sono molti più elettori. Inoltre, ha anche il compito di formare e selezionare la classe politica. Un compito particolarmente significativo soprattutto per i partiti operai e socialisti che non solo raccolgono e filtrano istanze provenienti da settori marginali della società, che da poco si erano affacciati nella vita pubblica in maniera legale, ma che consente anche di promuovere capacità e competenze di singoli individui, arricchendo e rendendo più articolata la classe politica nel suo insieme. Questo se è vero soprattutto per i partiti laburisti e socialdemocratici del nord Europa, che hanno dirigenti che più spesso sono di estrazione popolare e operaia (e sono più moderati nei programmi), non è del tutto falso anche per i partiti socialisti dell’Europa meridionale e mediterranea, in cui accanto a una componente riformista c’è un’ala massimalista, dove i dirigenti di estrazione operaia sono meno numerosi ma provengono dal ceto medio.

In questa fase il modello di partito di massa e di integrazione sociale viene comunemente ritenuto quello più adatto a rispondere alle esigenze della società contemporanea. I partiti popolari o di ispirazione cristiana sfruttano le risorse associative e comunicative dell’associazionismo religioso per rafforzare ed estendere il proprio radicamento politico. Anche i partiti liberali o moderati tentano di darsi un’organizzazione strutturata.

Il modello di partito di massa va in crisi per un insieme di ragioni legate all’evoluzione sociale. Il partito ideologico che organizzava un mondo parallelo, in cui il militante cresceva in un universo chiuso e autoreferenziale, non riesce a fronteggiare l’insidia dei mezzi di comunicazione di massa universalistici che dislocano e aprono per così dire la corazza formativa e informativa del partito. Più in generale la maggiore propensione all’individualismo, dovuta al cresciuto e diffuso benessere, ne mina rapidamente la logica organizzativa.

La crisi del partito di massa non significa però una rinascita del partito di opinione. Il tipo di partito che si afferma viene definito nella letteratura specializzata cartel party; esso si manifesta a partire dalla fine degli anni settanta del secolo scorso. I partiti, per venir incontro alle aumentate richieste provenienti dalla società civile, per contrastare l’erosione delle subculture legate ai partiti di massa, per far fronte alla professionalizzazione delle campagne elettorali, tendono ad accordarsi per avere sovvenzioni statali ai partiti consolidati, cercando di escludere la nascita di nuove formazioni. I militanti sono anch’essi professionalizzati. I partiti sono quindi meno espressione della società e più una sorta di appendice dello stato, ovvero una équipe di professionisti, e sono organizzati in un cartello, appunto. Se dovessimo connotare questo passaggio storico della democrazia dei partiti possiamo dire che il cartel party esprime una fase difensiva, di contenimento, e non propulsiva della democrazia dei partiti.

Questa incapacità di espansione e di scarsa interlocuzione con la società si manifesta anche in un altro fenomeno, la difficoltà nella formazione della classe politica La professionalizzazione, da un lato, la crisi delle ideologie, dall’altro, convergono nel ridurre il bacino di reclutamento alla politica. In società complesse e sempre più diversificate diminuisce l’appeal che esercita il mestiere del politico. A sua volta la divisione del lavoro parcellizza le competenze richieste, che si specializzano fin troppo. Un processo, acceleratosi negli ultimi anni e che in Italia è avvenuto in modo più rapido che altrove dopo la fine della prima repubblica. Il sondaggio, e più in generale le tecniche di comunicazione che ancora erano scarsamente coltivate negli anni ottanta del secolo scorso, diventano centrali a scapito di altre competenze. Ancora più perniciosa è l’idea che la cura degli aspetti legati alla comunicazione sia sufficiente. Può essere sufficiente a vincere le elezioni, non al resto. Un processo che si può sintetizzare nella battuta che ho sentito qualche anno addietro da un ex ministro francese: oggi non ci sono più uomini politici, ma specialisti di campagne elettorali. Per accorgersi di questo processo di restrizione del bacino di reclutamento si possono portare alcuni esempi empirici che segnalano un depauperamento delle classi politiche. In anni recenti alcuni dei presidenti o dei primi ministri delle principali e più antiche democrazie sono o sono stati immigrati (la Merkel viene dalla Germania est) o figli di immigrati (Obama, Sarkozy). Nella storia americana abbiamo due casi di padri e figli entrambi presidenti, gli Adams tra sette e ottocento e i due Bush. Adesso le ultime elezioni americane hanno visto contrapposti la moglie di un ex presidente e un totale outsider che è riuscito a vincere la nomination del partito repubblicano. David Runciman, che insegna scienze politiche a Cambridge, in un libro recente racconta di aver frequentato il liceo di Eton contemporaneamente a David Cameron. “Già a quel tempo, racconta Runciman, mi era stato indicato come uno che voleva diventare primo ministro. Avevamo sedici anni. Eton è una scuola privilegiata, […] ma solo pochi sono interessati alla politica: la maggioranza voleva diventare banchiere o una star del cinema. Solo un altro mi è stato detto che voleva diventare primo ministro. Il suo nome è Boris Johnson. Osservare l’irresistibile ascesa di entrambi ai vertici della politica britannica rende difficile pensare che assurgere a tali vette sia poi così arduo”. In sostanza, il restringersi del bacino di reclutamento peggiora mediamente la qualità del personale politico. Questa riduzione del bacino di reclutamento, a sua volta, crea o accentua quello che possiamo definire l’effetto casta. La crisi economica ha fatto il resto, per così dire, cioè ha acuito un processo che era già in corso. Occorre ricordare, e lo richiamava anche Rosanvallon nella citazione che abbiamo fatto prima, che negli ultimi lustri c’è stata una volatilità di maggioranze in gran parte delle democrazie europee. Quando gli elettori hanno visto che il cambio di maggioranza non sortiva effetti significativi, perché la crisi economica continuava a farsi sentire, ci si è rivolti a nuove formazioni politiche, per quanto sprovvedute e improvvisate o con scarse credenziali esse fossero.

  1. Tiriamo le somme del discorso fatto finora: un eccesso di specializzazione del lavoro depaupera il mestiere del politico che era presente nelle esperienze precedenti. Il padre fondatore o il rivoluzionario francese che si voleva intriso di virtù civica, il notabile che portava nell’agone pubblico il proprio bagaglio professionale e morale, il militante di partito che diventava dirigente dopo un cursus honorum non sempre gratificante e spesso oneroso esprimevano, ciascuno nella sua specificità, una competenza generalista che è quella propria dell’uomo politico. Uomo politico che non è necessariamente specialista di qualcosa, anche se su alcuni argomenti può avere una competenza particolare, ma che si può definire come uno specialista della convivenza umana,

Rispetto a questa difficoltà nel reclutamento delle classi politiche occorre chiedersi cosa si può fare. La risposta è semplice da enunciare e difficile da praticare. Recuperare la dignità della politica, favorendo così indirettamente anche la formazione di personale politico. Potrei fermarmi qui, perché in una lezione si portano elementi di informazione, di riflessione, di discussione, non soluzioni. Tuttavia non mi esimo dal dare qualche indicazione pratica, per quanto limitata possa risultare.

Mi limito, perciò, ad indicare alcuni aggiustamenti che potrebbero essere utili a recuperare un minimo di collegamento tra la classe politica e i cittadini. Aggiustamenti che prefigurano rimedi necessari ma non sufficienti, e peraltro riferiti solo alla situazione italiana. In primo luogo occorrerebbe ripristinare il collegio uninominale per ricreare un circuito di comunicazione diretta tra elettori ed eletti. Naturalmente il collegio uninominale esiste in altri paesi e questo non ha impedito l’ondata di rifiuto della politica. Un’altra cosa utile sarebbe la creazione di agenzie indipendenti di fact checking, in grado di verificare l’attendibilità delle affermazioni di uomini politici. Ma analogamente a quanto detto per il collegio uninominale, anche dove esistono queste agenzie non costituiscono un argine bastevole per limitare la sfiducia nelle classi politiche.

 

Riferimenti bibliografici

É. Halévy, L’era delle tirannie, Ideazione, Roma 1998.

  1. Rosanvallon, Controdemocrazia. La politica nell’era della sfiducia (2006), Castelvecchi, Roma 2012, p. 90.
  2. Pasquino, Sieyès, Constant e il «governo dei moderni». Contributo al concetto di rappresentanza politica, “Filosofia politica”, n. 1 (1), 1987, pp. 77-98.
  3. Bardi (a cura di), Partiti e sistemi di partito. Il cartel party e oltre, Il Mulino, Bologna 2006.
  4. Runciman, Politica, Bollati-Boringhieri, Torino 2015, p. 104.